Il lutto e la morte nell’arte: scene di crimine al Louvre

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Christos Markogiannakis, nato il 28 Gennaio 1980 a Heraklion (Iraklio o Herakleio un comune greco nell’isola di Creta) è uno scrittore e criminalista greco che risiede a Parigi.
Dopo aver studiato Giurisprudenza e Criminologia, a Parigi e Atene, oggi lavora come avvocato penalista.
È una sua ideazione il termine Criminart, nato dall’unione di Arte e Crimine, per evidenziare le rappresentazioni dell’omicidio nelle opere d’arte.
La considerazione dell’omicidio come una forma di rappresentazione artistica portò C. Markogiannakis ad essere definito uno scrittore del crimine che combina Arte e Criminalità.
Da criminologo penalista, vivendo a Parigi, ha potuto condurre felicemente una ricerca sulla rappresentazione del delitto nell’Arte.

Markogiannakis definì il Museo del Louvre un’immensa scena del crimine affermando che quei fastidiosi sensori d’allarme, interposti inesorabilmente tra coloro che osservano e le opere d’arte, andrebbero sostituiti con il classico nastro giallo: il segno funesto di un omicidio appena consumato.
In effetti, alla luce di questa affermazione, procedendo di sala in sala all’interno dello straordinario Museo di Parigi, ci renderemmo conto di osservare antiche testimonianze di ogni sorta di delitto: il mitologico, il duello, quello di cronaca o di massa.
Ed è esattamente questo ciò che viene raccontato con la puntigliosità di un verbale di Polizia, nella prima pubblicazione di Christos Markogiannakis intitolata Scenes du crime au Louvre: une enquete criminartistique. (Scene del crimine al Louvre: un’indagine criminologica) pubblicato nel 2017 a Parigi da Le Passage.

Lo scrittore inizia la sua analisi partendo dalla Stele di Hammurrabi che riporta un testo giuridico, il Codice di Hammurrabi, ed è conservata nel Dipartimento delle Antichità Orientali del Museo.
Realizzata in basalto è incisa con una scrittura cuneiforme in lingua paleobabilonese e decorata sulla sommità con un bassorilievo che rappresenta la scena dell’incontro tra il dio Shamash e il re Hammurabi di Babilonia, che legittima la sovranità del re e le decisioni legali incise sulla stele.
È una delle più antiche raccolte di leggi scritte creata tra il 1792 – 1750 a. C. durante la I dinastia di Babilonia: quella di Hammurabi.
Il Codice fa un ampio uso della cosiddetta Legge del taglione o Pena del taglione (in latino lex talionis – tālis nel senso di “tale e quale”) un principio di diritto che autorizzava una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un’altra persona, di infliggere a quest’ultima un danno uguale all’offesa ricevuta.

Seguendo la strada tracciata da C. Markogiannakis, tra delitti e castighi, l’autore invita a porre attenzione alla Salomè riceve la testa di San Giovanni Battista, dipinta da Bernardino Luini (Bernardino Scapi detto Luini, Dumenza, Luino, Lago Maggiore, Lombardia, Italia, 1480 circa – Milano, Lombardia, Italia, Giugno 1532).

Bernardino Luini, Salomè riceve la testa di San Giovanni Battista, 1520 – 1530, olio su tela, Al. 62,5 x 55 cm. Dipartimento di Pittura, Museo del Louvre, Parigi, Francia

Salomè vissuta tra il 14 circa e il 62 – 71 del I Secolo, fu una principessa giudaica figlia di Erodiade (nipote di Erode) e di Erode Filippo I.
Nell’opera B. Luini, pur trattando un tema estremamente drammatico, rende l’espressività contenuta, caratteristica che gli permise sempre di ricondurre i temi drammatici ad una più intima contemplazione.
Salomè è la protagonista di un episodio narrato nel Vangelo di Marco e in quello di Matteo in cui è citata come corresponsabile della decapitazione di Giovanni Battista (Marco 6, 17 – 29
17; Matteo 14, 6 – 11).
Secondo i Vangeli sinottici e le antichità Giudaiche di Tito Flavio Giuseppe (Yosef ben Matityahu, Gerusalemme, 37 – 38 circa – Roma, Italia, 100 circa) Erodiade abbandonò il marito Erode Filippo I per andare a convivere con il cognato, il Re Erode Antipa.
I testi riportano che Giovanni Battista condannò pubblicamente la condotta del sovrano che lo fece imprigionare e poi fu costretto a farlo decapitare.

Procedendo nel percorso museale l’autore si sofferma su due opere che rappresentano uno stesso soggetto.
Una bellissima struttura espositiva, composta da un piedistallo dorato in legno di noce lavorato, sostiene una lastra di ardesia incorniciata e dipinta su entrambi i lati con due differenti versioni di Davide che uccide Golia eseguite da Daniele da Volterra (Daniele da Volterra, detto anche Daniele Ricciarelli, Volterra, Pisa, Toscana, Italia, 1509 circa – Roma, Lazio, Italia, 4 Aprile 1566).
A Roma l’artista fu allievo di Michelangelo Buonarroti (Michelangelo Buonarroti, Caprese Arezzo, Toscana, Italia, 6 Marzo 1475 – Roma, Lazio, Italia, 18 Febbraio 1564) lavorò per lui ed instaurò con il Maestro un profondo rapporto di amicizia.
La sua complessa personalità di pittore di alto e interessante livello, rimase troppo a lungo adombrata dalla stretta vicinanza con il genio del Buonarroti, tanto che i dipinti di Davide sconfigge Golia, basati su disegni di Michelangelo, furono a lungo creduti opera del Maestro.

Daniele Da Volterra, Davide sconfigge Golia, 1550 – 1555, olio su pietra (ardesia), Al. 1,33 x La. 1,72 cm. Dipartimento di Pittura, Museo del Louvre, Parigi, Francia

L’imponente struttura dipinta su pietra, commissionata da Giovanni Della Casa (Borgo San Lorenzo, Firenze, Toscana, Italia, 28 Giugno 1503 – Roma, Lazio, Italia, 14 Novembre 1556) ebbe un fine dimostrativo.
Il suo scopo era evidenziare le possibilità della pittura nella restituzione della tridimensionalità.
Alla base della commissione si poneva il noto dibattito teorico sul paragone tra le arti teso a stabilire il primato di pittura e scultura già conosciuto nell’antichità, ma diffusosi rapidamente negli ambienti artistici a metà Cinquecento.
La tessitura pittorica di D. D. Volterra permise all’anatomia travolgente dei corpi, resi in perfetta coerenza con la distribuzione delle ombre in relazione al movimento, di far emergere la straordinaria tensione della lotta.
Lo splendido studio anatomico è restituito attraverso la capacità di rendere la luce con uno sfumato leggerissimo di grande e raffinata bellezza ed eleganti vibrazioni di carni e di stoffe: traguardi di compiutezza di un’erede ineguagliabile del genio michelangiolesco.

Il vigore scultoreo della pittura fu efficacemente raggiunto dalla forza data alla linea di contorno, dal chiaroscuro, e subordinando il colore alla forma che ne amplificò la volumetria.
Inoltre anche se la scultura rispetto alla pittura è inevitabile permetta più punti di vista, i dipinti con l’uso del colore e la realizzazione delle sfumature consentono la massima libertà nella rappresentazione della direzione della luce.
D. D. Volterra ha inserito la fonte luminosa proveniente da sinistra su entrambi i lati del pannello di pietra, raffigurando la scena da angolazioni diverse.
Sul recto David è in piedi a cavalcioni del gigante a terra, con la gamba sinistra e il braccio sinistro quasi completamente distesi mentre l’atterrato gli afferra l’avambraccio sinistro, con la mano sinistra, per cercare di difendersi.
Sul verso, una prospettiva più scorciata presenta David con la gamba sinistra piegata mentre blocca il gigante nell’atto di divincolarsi sul fianco sinistro, e prepara il braccio destro per il suo colpo mortale.

A Firenze Casa Buonarroti, in occasione di una esposizione curata da Vittoria Romani, riporta le parole espresse da Daniele Da Volterra a Giorgio Vasari dopo la morte di Michelangelo:
«…mi trovo sì tribulato per esser privo di tanto consiglio e dolceza insieme. Certo ch’io giudicavo dovermi dolere molto la morte d’un tanto padrone e padre, ma non mai tanto, come fa…».
Il tono accorato con cui Daniele da Volterra esprimeva a Giorgio Vasari, all’indomani della morte di Michelangelo, dimostra quanto fosse stato lungo e profondo il legame che lo aveva unito al Maestro.
La sua devozione sarebbe rimasta immutata anche dopo la scomparsa del grande amico. A Daniele, Leonardo Buonarroti nipote prediletto ed erede, avrebbe dato l’incarico di trarre dalla maschera funebre di Michelangelo un “ritratto di metallo”.
Così fece Daniele Da Volterra, il 18 Febbraio 1564, dopo aver assistito alla morte del Maestro nella casa romana Macel de’ Corvi (oggi non più esistente).
Lionardo Bonarroti al caro amico dello Zio diede in affitto la casa di Michelangelo e gli commissionò due ritratti in bronzo.
D. D. Volterra fece un’impronta del volto del Maestro deceduto, una maschera mortuaria come l’usanza dei tempi.
Si tratta di un dato certo poiché a due giorni dalla morte è documentato un pagamento «per fare gittare due teste di bronzo di Michelangnolo Bonaroti per fare le cere per la forma».
Tuttavia, benché si trovò scritto che dalle cere trasse successivamente una serie di ritratti in bronzo, e nei secoli vi siano stati moltissimi tentativi di identificare le provenienze dei busti esistenti, ad oggi non è ancora stato possibile ottenere risposte convincenti.

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