Memento homo, quia pulvis es… et in pulvem reverteris
La Chiesa vede nella conservazione delle spoglie mortali di un santo, la misericordia di Dio che vuole preservare da subito il corpo tempio del Suo Spirito Santo, perchè esso nasconde in se la promessa della resurrezione.
D’altronde l’umanità pellegrina sulla terra è sempre in ricerca di sostegni a quella fede cosi percossa da mille insidie nella quotidianità del vivere, è così tanto, terribilmente umano.
Qualcuno ha voluto vedere in questa tradizione della Chiesa una pulsione perversa, innaturale e tendente all’ orrifico.
Ma è proprio così? Veramente a quei fedeli che si approntano alla venerazione delle spoglie terrene di cotanti uomini e donne è insita nel cuore la depravazione necrfiliaca il gusto per l’orrido… o piuttosto affetto, devozione sincera, fede che fa scomparire l’orrore di fronte a un cadavere e nascere l’amore?
In realtà all’atto dell’estumulazione il cadavere di San Pio non è stato rinvenuto per nulla intatto, anzi il processo decompositivo è in piena attività, ha già svolto tutta la sua azione devastatrice almeno sul 35-40% della superfice corporea (tralasciando gli organi interni) ed alle stesse condizioni ambientali, nell’arco verosimilmente di 20 massimo 30 anni, avrebbe completato la sua attività biologica di degradazione su tutto il cadavere riduncendolo a scheletro, così da lasciare solo brandelli di sottile e friabile carne secca incollata in determinate superfici.
Perchè un corpo tumulato in ambiente iperprotetto (doppia cassa di metallo e spesso rivestimento marmoreo a ricoprire le pareti della tomba ipogea) è stato aggredito dalla putredine?
Al di là del fattore cronologico (sono passati quasi 40 anni e il tempo, com’è tragicamente noto, divora e consuma) bisogna considerare questi elementi medico-legali:
San Pio, prima di esser calato nel sepolcro fu racchiuso entro una triplice bara, quella di legno recava al posto del normale coperchio una lastra di vetro, nella cella sepolcrale fu anche inserita anche una generosa quantità di sabbia. Questa pratica funebre delle tre casse, molto simile a quella in uso per i pontefici è del tutto nuova per la legislazione italiana, nessun regolamento nazionale di polizia mortuaria, infatti, ha mai contemplato l’impiego del coperchio in vetro e trav l’altro nel caso di Padre Pio non sappiamo nemmeno se alla cassa questo fosse stato solo giustapposto oppure assicurato tramite guarnizioni ermetiche.
L’umidità rilevata durante la ricognizione (il cristallo si presentava appannato) non è imputabile alla malta cementizia con cui l’avello fu murato, ma ad escursioni termiche al momento della dissepoltura (evidentemente dentro il sarcofago si erano generati una tenuta d’aria e di tepore stagni e stabili e contrasti fra:
1) temperatura cadaverica, alterata nel 1968 dalla giacenza per ore in una cassa frigorifera
2) temperatura dell’ambiente esterno dell’epoca (caldo) con cadavere portato in processione all’aperto, mentre il sole batteva sulla lastra vitrea che lo sigillava.
3) temperatura della chiesa calda e umida per la ressa e l’assembramento dei fedeli al rientro del feretro per la celebrazione delle esequie.
4) frescore e umidore della malta cementizia bagnato del sarcofago appena costruito che contrasta col fresco della salma dovuta al frigorifero in cui era posta, calore della cassa di metallo che ha assorbito i raggi solari.
5) successivamente fermentazione gassosa della salma che inevitabilmente ne aumenta la temperatura cadaverica, in taluni casi rendendo caldo il corpo.
Il contrasto termico è il principale responsabile di quella patina di umidore della parte interna della lastra vitrea è l’esalazione, la traspirazione del cadavere che avrebbe necessità di espellere i liquidi organici. Il metallo pesante e il vetro doppio hanno impedito la fuoriuscita dei liquidi, trattenendoli nella cassa. Questo ha fatto molti danni ai resti: quel tipo di sigillatura se ha impedito ad agenti batterici atmosferici esterni di penetrare nella bara ad aggredire la salma, ha pure mantenuto incapsulati gli agenti creatisi dentro la cassa senza possibilità di espulsione, e ciò ha impedito la naturale mummificazione del corpo, il quale, invece, necessiterebbe dell’evacuazione dei liquidi corporei e di un ambiete, quindi, asciutto fresco, magari anche aerato.
E’interessante un raffronto a rime parallele con l’Art. 77 comma 3 del attuale DPR 10 settembre 1990 n. 285 con cui si prevede l’impiego della valvola depuratrice, proprio per evacuare la sovrappressione dei gas putrefattivi. Di fatto, allora, la cassa stagna è impermeabile ai soli liquidi, mentre i composti aeriformi possono uscire più liberamente, il loculo, allora è l’unico ambiente davvero sigillato.
Quindi nella capsula ermetica del feretro quell’umidità unita ai gas e ai liquidi sprigionatisi dal corpo di Padre Pio, se iniazialmente si sono depositate sulle superfici interne della bara in un secondo momento per alimentarsi hanno dovuto aggredire lo stesso cadavere. Perciò il processo trasformativo e la decomposizione sono state sì fortemente rallentati (per via della blindatura) ma per i materiali usati per le bare questi non sono stati arrestati, hanno lentamente continuato in 40 anni ad attaccare il corpo. Vale a dire, impossibile la mummificazione, si è giunti ad una totale corificazione: le tegumenta intrise di liquame hanno assunto il colore e la consistenza del cuoio, e si sono strette intorno alla struttura ossea fino ad aderirvi, quasi a rivestire lo scheletro di una strettissima tuta anatomica che mette in rilievo sia i rilievi che le depressioni dello scheletro. Allora possiamo dire che il corpo di Padre Pio ha subito processi trasformativi e di parziale ma grave decomposizione, anche perché i migliori risultati in termine di conservazione si ottengono quando la cassa di lamiera è interna e, dunque, a stretto contatto con il cadavere, perché la “concia dei tegumenti”è dovuta ai sali metallici, probabilmente derivati arsenicali contenuti nelle impurità dello zinco .
I primi testimoni Hanno affermato che le parti declivi del corpo erano aderenti alla base della bara: accadde pure per papa Giovanni XXIII, e ciòha un significato ben preciso: molti liquami del cadavere sono fuoriusciti e si son depositati sul fondo della cassa, essi essendo acidi (e contenedo anche altissime quantità di ammoniaca) hanno fatto marcire le superfi cutanee posteriori insieme al dietro delle vesti e del rivestimento della bara, creando una poltiglia scura che subito colliqua, ma dopo lentamente si riassorbe e s’asciuga.
Questa forte presenza di liquidi post mortali ha praticamente fatto aderire, quasi incollare il cadavere alla cassa. Inoltre si è detto che gli arti superiori e parte del cranio, quindi della teca cranica, hanno subito una scheletrizzazione. Ecco un altro dato: in importantissime zone della metà superiore del corpo il processo di corificazione ha cessato il suo decorso, siccome ha già aggredito quelle parti di tegumenti più sottili proprio perchè meno ricche di tessuti e dunque di residui liquidi, necessari alla corificazione; i tessuti prosciugati si sono, dunque, consunti e seccati, a causa di questo processo si sono assottigliati e lentamente polverizzati.
Se diverse parti del corpo che non si sono ancora scheletrite è per via dell’umido presente nella bara e per i liquami sul fondo che gradualmente ancora rilasciano fluidi cadaverici funzionali alla corificazione, in modo da macerare e consumare le parti molli, che poi son quelle più ricche di masse muscolari, tessuti e ancora di umori… come l’addome, le cosce…