Agnus Dei: la compassione e la morte nel capolavoro di Zurbarán

Francisco de Zurbarán (Fuente de Cantos, Spagna, 7 Novembre 1598 – Madrid, Spagna, 27 Agosto 1664) pittore spagnolo tra i maggiori del XVII Secolo, dipinse il ritratto di un animale vivo come presentazione dell’annuncio del suo sacrificio.
L’opera è intitolata Agnus Dei, Agnello di Dio, annoverata tra le più importanti della raccolta del Museo del Prado di Madrid.
F. de Zurbarán era l’artista della compassione inflessibile, delle figure statiche risolte come se in qualsiasi momento “fosse l’ora” e ovunque “la chiamata”.
Conosceva perfettamente i calcoli per realizzare ombre perfette, e sapeva che i corpi “fratturati con incertezze di luce” mentono. Guardava le stelle, utilizzava con sapienza strumenti di precisione, non amava i colori troppo accesi ed era attratto dalle alcove oscure delle chiese, avvertendo in esse la stessa attrazione provata sulla soglia tra norma e smarrimento. Creava fondi scuri ai suoi ritratti per suscitare riflessioni sull’inderogabile condanna dell’ineluttabilità della morte.

Francisco de Zurbarán, Agnus dei, 1635 – 1640, olio su tela, Al. 37,3 x La. 62 cm. Museo del Prado, Madrid, Spagna

In Agnus dei un unico soggetto ha due soli elementi scenografici: lo sfondo scuro su cui si staglia e il piano orizzontale su cui posa, dipinto di colore grigio e a tutta lunghezza.
È un giovane agnello merino tra gli otto e i dodici mesi d’età, raffigurato ancora vivo con le zampe legate in un atteggiamento inequivocabilmente sacrificale, come alcune celebri immagini di santi martiri.
Del dipinto sono note altre cinque versioni da lui eseguite; tuttavia la rappresentazione conservata al Museo del Prado è considerata di qualità più elevata rispetto alle altre e quella in cui l’artista raggiunse la sintesi più raffinata per padronanza della tecnica, capacità descrittiva, massima espressività e sottigliezza emotiva.
Nell’opera, pur non essendo presenti elementi che associno direttamente questo agnello legato, al Figlio di Dio sacrificato – l’Agnello di Dio come viene definito Cristo nel linguaggio liturgico – è evidente il riferimento a Cristo.
All’epoca l’immagine ebbe un’enorme diffusione, tanto da rendere alquanto improbabile che un pittore spagnolo del XVII Secolo potesse rappresentare questo animale astraendone le connotazioni religiose, unicamente per dimostrare la propria altissima maestria tecnica, e forse l’esposizione di una preda che sarebbe stata presto “trasformata” in cottura con la migliore ricetta antica.

La rappresentazione di F. de Zurbarán mantiene le caratteristiche di un quadro storico classico con l’isolamento di un solo protagonista.
L’attenzione dell’autore si concentra sulla sua volumetria con la trascrizione sapiente del corpo attraverso la sua consistenza, esattamente come si procedeva per dipingere le opere di Natura Morta; una modalità associativa rivoluzionaria poiché determinante la confluenza dei due generi di pittura: quella religiosa e la Natura Morta.
Ciò che l’artista ottenne fu una sperimentazione di successo, tanto da conferire a questo capolavoro grande importanza nel contesto della storia della pittura di Natura Morta.
Un risultato di scena frutto dell’impareggiabile capacità di riprodurre texture, della creazione di un’illuminazione attentamente calcolata e diretta a creare ampie zone d’ombra, dell’uso di una meticolosa tecnica pittorica capace di guidare lo sguardo di chi osserva sull’espressione di estrema dolcezza dell’agnello nella disposizione di docile accettazione del suo destino fatale.
Un’opera terribilmente drammatica, un episodio della Bibbia trascinato sulla scena e raccontato con assoluta libertà.
Il riferimento è alla profezia nel Libro di Isaia 53 – Bibbia – Libri Profetici.
[7] «Maltrattato, si lasciò umiliare/e non aprì la sua bocca;/era come agnello condotto al macello,/come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,/e non aprì la sua bocca.»
F. de Zurbarán dipinge la bestia pronta per essere uccisa dalla mano di un essere umano, nello splendore della sua debolezza, in una scena dove l’espressione rassegnata stagliata sullo fondo scuro, esalti l’immaginazione della massima crudeltà del gesto che le toglierà la vita.

L’Agnus Dei è stato paragonato alla toccante scultura di Santa Cecilia (Roma, Lazio Italia, … – 22 Novembre 230) eseguita dallo scultore Stefano Maderno, o Maderni (Capolago, Ticino, Svizzera, 1576 – Roma, Lazio, Italia, 17 Settembre 1636) conservata nella Basilica di Santa Cecilia nel rione di Trastevere a Roma.
L’esecuzione di Stefano Maderno è considerata il suo capolavoro. Il corpo del cadavere di Cecilia – martire cristiana dal culto molto popolare, patrona della musica, di strumentisti e cantanti ricordata il 22 Novembre – è scolpito in marmo pentelico posto in contrapposizione ad uno sfondo di marmo nero.

Stefano Maderno, Santa Cecilia, 1600, marmo pentelico, Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma, Italia

La Santa è ritratta nella posizione in cui l’abbandona il carnefice dopo averla colpita ripetutamente tre volte sul collo senza riuscire a decapitarla, come riporta la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228 ca. – 1298). L’originale fu scolpita nel 1560, anno in cui furono fatti gli scavi per la ricognizione della salma che, pare, venne ritrovata esattamente nella posizione riprodotta dallo scultore.
Nella scultura sono messi in evidenza i tre tagli della spada sul collo, qualche goccia di sangue e la posizione delle dita: tre aperte nella mano destra e un dito aperto nella sinistra ad indicare tradizionalmente la sua fede nell’Unità e nella trinità di Dio.
Il sarcofago contenente il corpo di Cecilia fu anticamente collocato nelle Catacombe di San Callisto a Roma, posto sul terreno in una grande nicchia nella parete sinistra della cripta.
In quel luogo rimase fino all’821 quando Papa Pasquale I (Roma, Lazio, Italia, 775 circa – 11 Febbraio 824) oggi venerato come Santo, lo fece trasportare in Trastevere nella Basilica a lei dedicata. Oggi in quella nicchia è posta una copia della statua di Stefano Maderno.

L’Agnus Dei è, infine, legato con la corda ai polsi, come venne immobilizzato il martire San Serapione (Londra, Inghilterra, 1179 – Algeri, Algeria, 14 Novembre 1240) appartenente all’Ordine di Santa Maria della Mercede e canonizzato il 14 Aprile 1728 da Papa Benedetto XIII (Gravina in Puglia, Puglia, Italia, 2 Febbraio 1649 – Roma, Lazio, Italia, 21 Febbraio 1730).
F. de Zurbarán lo dipinse nel 1628 raffigurandolo morto, per il Convento della Merced Calzada di Siviglia. Oggi è conservato presso il Wadsworth Atheneum di Hartfold [Francisco de Zurbarán, San Serapione, 1628, olio su tela, Al. 120 x La. 103 cm. Wadsworth Atheneum, Hartford, Connecticut, USA].
L’opera, che in origine decorava la Sala De Profundis cioè la Camera Ardente dei frati, rappresenta un giovane uomo con i polsi legati ad un albero appena distinguibile tra l’oscurità dello sfondo. Vediamo scritto sopra un logoro biglietto B. Serapius; egli è vestito da un saio bianco, come candido e luminoso è il vello del piccolo agnello, un ampio panneggio su cui è appuntato lo scudo dell’Ordine di Santa Maria della Mercede.
Un altro capolavoro dell’autore che però, dal punto di vista iconografico, non espone con chiarezza i particolari del martirio sofferto da Serapione, non specificando quale fosse il contesto geografico in cui si svolse il supplizio e concentrando l’attenzione sull’espressione di intenso dolore del viso, a comunicare che la morte aveva posto fine all’enorme sofferenza.

Lascia un commento

Quando inserisci un quesito specifica sempre la REGIONE interessata, essendo diversa la normativa che si applica.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Di norma la risposta al quesito è data entro 3 giorni lavorativi.
Per quesiti complessi ci si riserva di non dar risposta pubblica ma di chiedere il pagamento da parte di NON operatori professionali di un prezzo come da tariffario, previo intesa col richiedente
Risposta a quesiti posti da operatori professionali sono a pagamento, salvo che siano di interesse generale, previa conferma di disponibilità da parte del richiedente.