Sul morire in Italia – Il Rapporto 2022 dell’Istituto Cattaneo ai raggi X – 3/3

Questo articolo è parte 4 di 5 nella serie ORME

Se leggiamo bene le pagine del rapporto stilato dall’istituto Cattaneo di Bologna, i numeri su funzioni esequiali e riti del commiato rivelano livelli insospettabilmente elevati di radicamento della tradizione cristiano-cattolica in Italia, del tutto in controtendenza con la tanto decantata secolarizzazione degli usi funebri della società contemporanea.

Non dimentichiamo però la persistente mancanza, in molte realtà geografiche (grandi città comprese) di alternative serie e praticabili ai luoghi più classici deputati all’allestimento dei funerali, quali le parrocchie o la cappellina cimiteriale. Sono soluzioni sì sicure, ma scelte quasi per inerzia anche dai dolenti intimamente più restii alla cerimonia in chiesa.

In un Paese abbastanza disilluso in cui, secondo la stessa indagine, solo un italiano su cinque partecipa regolarmente alla Santa Messa, la quasi totalità delle cerimonie continua a essere di natura religiosa. Nel complesso il 93,4% dei funerali è celebrato con una liturgia in luogo di culto o, comunque, in presenza di un ministro officiante.

I funerali civili rimangono, quindi, una sparuta minoranza, da rispettare e tutelare, s’intende.

Solo nelle regioni settentrionali, e nelle grandi conurbazioni queste manifestazioni di cordoglio laico mostrano dati statistici non del tutto trascurabili, di poco inferiori al 10%.

Di conseguenza, anche il luogo in cui tali riti si tengono raggiunge tassi assai modesti di variabilità. La stragrande maggioranza delle cerimonie funebri si svolge in chiesa. Per la precisione si tratta dell’88,8% del totale. Le restanti cerimonie sono officiate in uno spazio all’interno di un cimitero o in un tempio crematorio (poco più del 6% del totale), oppure nelle funeral home realizzate da imprese di onoranze funebri (3% dei casi). Quest’ultima modalità cresce con la dimensione demografica dei Comuni e passando dalle regioni meridionali e insulari a quelle centro-settentrionali del Paese, laddove più forte e capillare è l’articolazione del servizio: “casa funeraria” sul territorio ed i tempi per lo svolgimento del funerale sono più compressi dalla generale frenesia del vivere (e morire?) della moderna metropoli.

Nonostante i numeri, ad una prima analisi, alquanto limitati e contenuti si tratta di una diversa forma di nuova ritualità in forte ascesa. È possibile, infatti, confrontare questa informazione tendenziale con quella riscontrata nell’indagine Prin del 2018.

In quell’anno, la quota di intervistati la quale dichiarava che l’ultima cerimonia funebre a cui avesse assistito si era tenuta in una casa funeraria era dello 0,8%.

Nell’arco dei 3 anni considerati, quindi, le cerimonie funebri celebrate nelle case funerarie sono cresciute con un tasso di incremento pari al 53,6% annuo.

La diffusione di ritualità legate ad una Fede vissuta e professata dalle famiglie in lutto suggerisce una certa persistenza della tradizione religiosa.

Tuttavia, questo dato in sé pare ingannevole, poiché potrebbe anche celare o dissimulare un fenomeno da non sottovalutare: i funerali di confessioni diverse da quella strettamente cattolico-romana, riconducibili in larga misura alla crescente presenza straniera.

Gli intervistati, infatti, pur essendo tutti cittadini italiani, possono avere partecipato a un rito religioso di altra confessione di un amico, un collega, o un parente acquisito di origine non italiana.

L’andamento dei flussi demoscopici mostra, poi, la persistenza di elementi cerimoniali propri di una lunga elaborazione culturale, tra cui spiccano i ricordini, e le processioni. Poco meno della metà dei partecipanti al sondaggio dice di avere ricevuto dalle famiglie del defunto un ricordino, sotto forma di foto del defunto stesso, o di immagine sacra stampata.

Oltre la metà, poi, ha asserito di avere partecipato a una processione – anche solo in forma ridotta e parziale si intende. Si tratta di un fatto rilevante, soprattutto stanti i divieti a cui i cortei funebri sono stati sottoposti in misura crescente negli ultimi anni in alcune grandi città.

Un ulteriore elemento che segnala una certa forza e radicamento della tradizione quanto meno “giudaico-cristiana, nelle sue diverse declinazioni (cattolicesimo, chiese riformate, ortodossia…), riguarda gli attori presenti sulla scena della cerimonia e titolati a prendere la parola.

Nel 90% dei casi a parlare durante l’omelia in onore e ricordo del de cuius è un sacerdote, prevalentemente un prete. Sempre più frequentemente al celebrante si aggiungono – nel 40% dei casi – parenti e amici del defunto e della famiglia, in particolare nelle regioni del centro-nord e nelle grandi città, e colleghi del defunto, in poco meno del 17% dei casi.

Non del tutto marginale o residuale, però, appare la presenza di un altro interessante profilo che lentamente sta cercando di affermarsi nell’officio delle esequie, specie se civili.

È la figura di un cerimoniere dell’impresa funebre, che pronunzia l’orazione funebre in poco meno del 10% dei casi.

Inoltre, più della metà degli intervistati afferma di avere reso omaggio direttamente alla salma in occasione dell’ultimo funerale a cui ha presenziato.

Nella maggior parte della casistica esaminata la visita è avvenuta a casa, dove è stata predisposta la camera ardente a cassa aperta meno frequentemente in un servizio mortuario sanitario di un ospedale o in una casa funeraria.

La quota di chi ha fatto visita a casa, però, cresce passando dalle regioni del Centro-Nord a quelle del Sud, mentre la percentuale del passaggio (un tempo tappa pressoché obbligatoria) alle camere ardenti ospedaliere aumenta progressivamente passando dal Sud al Centro Nord. L’esposizione della salma in una casa funeraria irrompe prepotentemente nei costumi funerari degli Italiani muovendo dal Sud e dal Nord-Est, al NordOvest, per raggiungere l’apice di diffusione nelle Regioni dell’Italia centrale.

La partecipazione, nel silenzio, al momento doloroso, ma necessario della chiusura feretro resta minoritaria, ed è spesso riservata ai congiunti più stretti.

Tuttavia questa pia pratica sembra crescere transitando verticalmente dalle classi superiori a quelle lavoratrici, e dai ceti più istruiti a quelli meno acculturati. Lo stesso avviene nel caso della presenza al momento della collocazione della bara a terra, o della tumulazione in cella muraria. È tra gli appartenenti ai ceti relativamente svantaggiati e quindi meno abbienti che questi due momenti (tra i più “duri” di tutto l’evento funerale) sono considerati più importanti, e quindi maggiormente frequentati.

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Carlo Ballotta

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