L’art. 3, comma 1, L. 30 marzo 2001, n. 130, alla lettera conclusiva i), prevede tra i principi volti ad apportare modifiche al Regolamento di polizia mortuaria:
“i) predisposizione di sale attigue ai crematori per consentire il rispetto dei riti di commemorazione del defunto e un dignitoso commiato”.
Si tratta di un segnale su come chi ha redatto (e non solo) il testo avesse ben presente l’importanza dei riti di commemorazione e la dignità del commiato.
Del resto, un po’ tutte le culture presentano, pur se con diversità talvolta anche profonde, proprie “ritualità”.
Le diverse forme esequiali costituiscono un momento difficilmente rimuovibile di ausilio al distacco, con forti componenti sociali, spesso comunitarie.
Esse coinvolgono insiemi di persone che con la persona defunta hanno avuto relazioni, a volte molto strette, altre più distaccate, altre ancora di semplice frequentazione e/o conoscenza occasionale.
Entro il medesimo termine (inattuato) il successivo art. 6, comma 1 prevedeva che le regioni elaborassero piani regionali di coordinamento per la realizzazione dei crematori da parte dei comuni, anche in associazione tra essi.
Ciò tenendo conto della popolazione residente, dell’indice di mortalità e dei dati statistici sulla scelta crematoria da parte dei cittadini di ciascun territorio comunale.
E prevedendo, di norma, la realizzazione di almeno un crematorio per regione.
Disposizione questa largamente disapplicata, rinviata (dalle regioni stesse), al punto che un qualche piano è presente solo in un quarto delle regioni.
La funzione di questa disposizione era la promozione della diffusione degli impianti di cremazione, con equilibro territoriale, considerato che la cremazione non superava (fino al 1999) il 5%, scontando probabilmente l’allora rarefazione degli impianti di cremazione.
Questa previsione avrebbe dovuto utilizzare tre parametri: abitanti, mortalità, opzioni per la scelta crematoria.
E aveva anche il senso di “proiettare” gli impianti di cremazione come rivolti ad un bacino, ad un ambito territoriale da definire.
Lo scopo era di coniugare le “ritualità” alla popolazione e alle comunità, cercando di ridurre possibili distacchi e separazioni, nei casi in cui i singoli impianti di cremazione risultassero non collegati col territorio e la sua popolazione.
Anche all’estero, gli impianti di cremazione sono spesso coordinati (sia permesso il termine) con le ritualità commemorative.
Al punto che le famiglie sono poste nella condizione di operare una scelta tra eventuali plurimi impianti di cremazione nell’ambito territoriale di possibile riferimento, valutando le opportunità rituali che ciascun impianto di cremazione pone a disposizione.
A volte queste opportunità possono anche ridursi alla più o meno agevole raggiungibilità, a parità di servizi.
Rimane fermo però un aspetto, quello per cui spetta alle famiglie la scelta dell’impianto di cremazione cui avvalersi.
Non si ignora come, nei tempi trascorsi, ben raramente le famiglie ricevano indicazioni in proposito o ne ricevano in termini distorti.
Ad es.: il crematorio X consegna le urne cinerarie più tempestivamente, mentre il crematorio Y ha lunghe liste di attesa.
Dall’entrata in vigore della L. 30 marzo 2001, n. 130 ad oggi il numero degli impianti di cremazione è cresciuto insieme alla percentuale di popolazione che accede alla cremazione.
Non mancano territori in cui si può dare atto di una certa saturazione, rispetto alla domanda concreta, se non anche alla domanda che presuntivamente potrà aversi nei prossimi lustri.
Così come una capacità a fronteggiare un numero di cremazioni eccedenti la scelta crematoria, pur in aree ove non vige equilibrio tra i diversi parametri di cui tenere conto.
Va considerato come un impianto di cremazione richieda, ai fini di un equilibrio gestionale, di contare su di un determinato numero di cremazioni/anno.
Come pure il fatto che non mancano casi in cui il rapporto “fisiologico” tra bacino di servizio e presenza dei singoli impianti di cremazione venga (o, sia venuto) meno.
Per cui, in talune realtà, ciascun singolo impianto di cremazione non è più un servizio alla popolazione e al territorio (o viceversa), ferma la piena libertà di scelta, da parte delle famiglie, per altri luoghi a ciò utilizzabili.
Tale servizio non può essere scisso dai riti di commemorazione e dignitoso commiato (per riprodurre il testo presente nella legge e citato all’inizio).
A questo distacco dal senso di servizio al territorio e – principalmente – alla popolazione, si aggiunge, in tempi più recenti, la proliferazione di altri luoghi a ciò destinati.
Sono le case funerarie e le sale del commiato, che contribuiscono alla de-valorizzazione di luoghi maggiormente tradizionali, che poco hanno reagito per proprie temporanee carenze.
La trasformazione dell’impianto di cremazione da impianto rituale a mero impianto tecnico (o, tecnologico?) comporta il progressivo prevalere di indirizzi di acquisizione dei servizi, che superano il naturale ambito di bacino territoriale di riferimento.
Cosa che ha favorito anche il sorgere di iniziative in cui lo stesso trasporto funebre non è più una ritualità, svolta con mezzi dedicati.
Bensì un mero trasporto tecnico di oggetti (feretri e/o contenitori impiegati per resti mortali), senza rilevanza, senza alcuna individualità.
Come se le disposizioni del Codice Penale in materia di delitti contro la pietà dei defunti fossero mere enunciazioni.
Si ricorda come l’art. 20 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. preveda alcune specifiche per i carri destinati al trasporto dei cadaveri su strada, delle quali debba risultare attestazione in apposito registro.
Aspetti su cui qualche regione ha dettato disposizioni proprie, che esauriscono la propria efficacia al confine della regione che le ha emanate.
Difatti vi sono già state situazioni in cui autofunebri, regolari per la regione in cui ordinariamente operano, vengono sanzionati in altre regioni, in quanto non rispondenti ai requisiti d’impiego.
Non si può, infine, non ricordare come il riconoscimento dell’idoneità dei predetti carri da parte delle autorità sanitarie richieda una premessa.
Trattasi cioè di mezzi rispondenti alle caratteristiche di cui all’art. 93 C.d.S. (D. Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e s.m.).
E, per materia, all’art. 203, comma 2 D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 e s.m. “Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada”, il quale elenca (alla lett. n)) tra gli “autoveicoli ad uso speciale” esplicitamente le autofunebri.
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