Cartolina…dall’INFERNO!

Il panorama sarebbe da cartolina sdolcinata: 120 ettari di lussureggiante bosco, su un’altura che digrada dolcemente fin sulla riva del fiume Tennessee.
120 ettari di fitta vegetazione selvaggia, tra piante arbustive ed alberi d’alto fusto, farebbero pensare ad un eden romantico nel cuore degli Stati Uniti, se queste lande dimenticate da Dio non fossero un vero e proprio “laboratorio per cadaveri”.

La denominazione ufficiale della BODY FARM è University of Tennessee Forensic Anthropology Facility (Istituto di ricerca antropologica (Forensic Anthropology Center), questa stazione di ricerca tanatologica accoglie discretamente cadaveri in decomposizione, lasciati marcire senza sepoltura ed in selvaggia balia degli agenti atmosferici.

Fondata dall’ antropologo forense William Bass nel 1971, partendo con un solo cadavere ed un piccolo appezzamento di terreno, qui, nel corso degli anni, oltre trecento corpi umani sono stati affidati all’impietosa aggressione della putredine, tra sciami d’insetti famelici e rivoli di denso liquame nerastro in questa vasta area recintata e completamente isolata dall’ambiente esterno.

Non siamo in presenza di una surreale fabbrica degli orrori dominata dall’oscura presenza di qualche fantomatico Barbablù, e, per una volta almeno, Jack lo squartatore ed i suoi infelici epigoni non c’entrano.
Le salme, infatti, non servono per i deliranti esperimenti di novelli dottor Frankenstein, ma sono abbandonate al disfacimento per meri scopi scientifici: ovvero, per studiare come il tempo agisca sul corpo umano senza vita ed elaborare una tecnica in grado di identificare i resti umani anche quando si debbano esaminare parti anatomiche non immediatamente riconoscibili o carcasse pesantemente sfigurate.

Una simile e così singolare opera ha reso questo centro, nato dalla collaborazione tra l’università del Tennessee e l’Oak Ridge National Laboratory, un’esperienza unica al mondo e molto apprezzata dalla polizia Usa; immortalata in un thriller del 1994 di Patricia Cornwell intitolato appunto “Body Farm”, essa aiuta gli investigatori nelle indagini sulle persone scomparse, sui corpi difficili da identificare e nelle ricerche delle cause di un crimine.

L’aria ammorbata profuma del lezzo disgustoso che i cadaveri emanano, mentre si spande nell’atmosfera quel classico odore acre e dolciastro tipico della carne guasta ed aggredita dai processi degenerativi a carico di sangue e tessuti.

Ha così ha inizio il nostro viaggio allucinante tra le gore infernali e gli umidi meandri di una raccapricciante fossa carnaia, a cielo aperto, del XXI secolo.

Le fotografie disposte in rete ci offrono uno scenario davvero agghiacciante: uno scheletro, con una zona della cassa toracica coperta da pelle incartapecorita, è disteso a faccia in su con la bocca spalancata tra i rami di caprifoglio, nelle sue orbite cave danzano sonnolente larve.
Un altro cadavere è stato trasformato in una sorta di spugna intrisa di liquame putrido, con il particolare di mani e unghie di colore nero a causa dell’acqua.

Un’ altra spoglia mortale ancora ristagna di una tale quantità di muffa e spore da esser praticamente irriconoscibile, ricoperto com’è dalle incrostazioni.
Alcuni corpi sono talmente corrosi e violentati dall’azione degli elementi da riuscire persino orrendamente deformati: o sono gonfi a dismisura, a causa dei liquami o della pressione dei gas putrefattivi; oppure, al contrario, si mostrano asciutti e conservati, nell’orrore della morte, come mummie senza un nome che non paiono nemmeno essere state, almeno tempo addietro, abitate dallo spirito della vita.
Sulla loro pelle, tesa sino allo spasmo, si sono formate nere chiazze violacee, gli occhi e la lingua sono come esplosi e sembrano schizzare fuori della loro sede.

Mente camminiamo con circospezione in questo pozzo nero del post mortem, un sacco di plastica sembra vibrare al sole, scosso da movimenti impercettibili, mentre una massa di vermi viscidi banchetta al suo interno.
Quest’incubo è un vero e proprio assalto, cruento e crudele, ai nostri sensi, senza alcun precedente.

I morti sono sistemati in ambienti che simulano e ricostruiscono potenziali scene del delitto, sono accasciati sul sedile posteriore, o rannicchiati nel bagagliaio d’automobili arrugginite.
Sono nascosti tra i cespugli, seppelliti in fosse superficiali (come spesso accade in caso di un improvvisato occultamento), oppure distesi nudi nell’erba o semplicemente lasciati nei maleodoranti e roridi sacchi di plastica per recupero salme nei quali sono arrivati dai diversi istituti di medicina legale che collaborano al progetto.

Per non alterare i processi naturali di disgregazione della materia organica, alla Body Farm non viene imposta alcuna limitazione alla libera e tumultuosa attività degli insetti necrofori e dei carnivori.
Grosse mosche iridescenti depositano spietate le loro uova negli orefizi dei cadaveri, sui lembi lividi e tumefatti d’eventuali ferite, o nei fori slabbrati procurati da qualche proiettile di grosso calibro.
Scarafaggi brulicanti e disarticolati ragni alle dimensioni mostruose fanno strame degli scheletri, sbranandoli con avidità dal teschio alle bianche tibie; avvoltoi, opossum, ratti e procioni si nutrono con gli arti ormai mollicci e strappano morsi sfilacciati di tessuto fibroso ancora in buono stato di conservazione.

Una salma, poi, ha il ventre completamente squarciato e possiamo “ammirare” le sue viscere ormai corrotte.
Non appena, nauseati, volgiamo lo sguardo in un’altra direzione abbiamo la(s)fortuna di goderci dal vivo un’autopsia dopo esserci gustati un invidiante repertorio di esiti da fenomeno cadaverico di tipo trasformativo-conservativo saponificati, macerati nell’acqua, corificati grazie all’effetto del metallo della cassa mortuaria o mummificati. Questi ultimi, con ogni probabilità provengono da un cimitero e sono stati esumati o estumulati dopo il periodo di sepoltura legale per studiare le mutazioni di stato che ne hanno impedito la normale mineralizzazione, durante la permanenza nel sepolcro.

L’anatomo patologo sposta attenzione il bisturi sull’addome di un cadavere, poi con una rasoiata netta e precisa lo incide.
Con sua “grande gioia”, il fegato è ancora in condizioni decenti. Ne asporta un frammento, come se si trattasse di una biopsia, lo lascia cadere in una provetta, poi passa alle gambe per analizzare alcune evidenti fratture scomposte, riportate dal de cuius, forse, nel sinistro stradale che gli costò la vita.

Ed intanto le nostre menti si fermano a contemplare lo scempio di alcuni miseri resti tra i quali banchetta una miriade di lombrichi bianchi.
Mentre con il voltastomaco usciamo da questo festival del terrore più splatter e granguignolesco tra poltiglia e frattaglie umane il più delle volte poco identificabili, riusciamo a cogliere un commento dei responsabili:
“Molti lasciano volentieri i loro resti alla Body Farm perché preferiscono decomporsi naturalmente piuttosto che essere siringati ed imbottiti con la formaldeide.”

Le persone interessate sono così tante che non riusciamo a contattarle tutte…almeno sino a quando sono ancora vive”.
Come risposta ci pare anche accettabile, di certo non interamente condivisibile, almeno per chi crede nella sacralità del corpo umano, anche dopo il decesso.

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Carlo Ballotta

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