Dalle catacombe agli spazi parrocchiali: continuità e svolta – IV–XI secolo

L'articolo è parte 1 di 1 nella serie Breve storia del cimitero in Italia dal VI secolo ad oggi

Comincia oggi una serie di articoli con l’intento di fornire ai lettori un breve quadro dello sviluppo dell’idea di sepoltura e in particolare dei cimiteri dal IV secolo ad oggi.

Con la svolta del 313 d.C. – le disposizioni di tolleranza promulgate da Costantino e Licinio, tradizionalmente ricordate come “Editto di Milano” – le comunità cristiane poterono organizzare culti e spazi funerari senza l’obbligo della clandestinità.
La sepoltura uscì progressivamente dalle catacombe e si avvicinò ai luoghi della vita liturgica: pievi rurali e chiese urbane.
Il trapasso non fu immediato: persistenze, adattamenti locali, disponibilità di aree consacrate e consuetudini determinarono una geografia funeraria composita, ma il baricentro passò stabilmente dalla periferia insicura ai poli parrocchiali, dove il sepolcro divenne “casa nella casa ecclesiale”.

Nel corso dell’Alto Medioevo (VI–XI secolo) la sepoltura assunse un marcato carattere comunitario.
Essere inumati in terra benedetta significava appartenere alla ecclesia locale anche oltre la morte.
In questa fase la Chiesa, attraverso vescovi e parroci, divenne autorità normativa e gestionale del sistema funerario: definì i luoghi (chiese, sagrati, cimiteri adiacenti), regolò il rito e amministrò le memorie.
Tra VI e Settecento essa custodì la funzione di registrazione degli eventi di vita (nascite, morti, talora matrimoni), costruendo – tramite registri parrocchiali e necrologi – il primo “censimento” sistematico delle popolazioni europee.

Che cosa significa ad sanctos e perché fu così ambito

L’aspirazione a riposare “accanto ai santi” – ad sanctos – è una chiave interpretativa della topografia funeraria tardoantica e medievale.
La vicinanza fisica alle reliquie dei martiri o agli altari non era un mero privilegio edilizio, ma un “dispositivo di prossimità salvifica”: la tomba in un’area permeata dalla memoria del santo era percepita come più vicina all’intercessione e quindi alla salvezza.
Da qui discese una gerarchia degli spazi interni alle chiese (cripte, presbiteri, navate prossime agli altari) e, per riflesso, dei sagrati e dei cimiteri annessi.

Ceti elevati e clero: accesso privilegiato a cripte, cappelle, presbiteri; lasciti e fondazioni di cappellanie rafforzavano il diritto alla memoria attraverso messe di suffragio.

Popolazione comune: inumazione nel sagrato e nei cimiteri esterni, con segnacoli lignei e deperibili; la memoria era affidata alla comunità, più che alla permanenza del monumento.

Poveri e senza famiglia: sepoltura in fosse comuni (carnarie), periodicamente riaperte; le ossa, dissepolte per far posto a nuove inumazioni, venivano raccolte in ossari sotterranei, spesso addossati ai muri di cinta o sotto i porticati.

Questa geografia rifletteva la stratificazione sociale e, insieme, una teologia della comunione dei santi che “accorpava” vivi e defunti nello stesso spazio liturgico.

Terra consacrata, confini e segni: l’infrastruttura minima del cimitero altomedievale

La condizione di “terra consacrata” qualificava lo spazio funerario. La delimitazione – fossati, siepi, muretti – era meno un fatto edilizio che un dispositivo simbolico-giuridico: marcare il confine tra locus sacer e territorio profano.
Il sagrato, pavimentato o battuto, svolgeva funzioni multiple (assemblea, mercato in alcuni contesti, processioni), ma custodiva sotto di sé una fitta trama di deposizioni.
I segni di tomba più diffusi erano:

  • Croci e pali lignei, rapidamente deperibili, sostituiti periodicamente;
  • Lastre lapidee semplici per famiglie o benefattori;
  • Cappelle funerarie per élites locali, spesso legate a fondazioni pie.

L’ossario – charnier – costituiva un elemento ricorrente: luogo di accumulo “secondario” per garantire la rotazione delle sepolture in spazi limitati.

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