La lex sepulchri: cosa è?

La lex sepulchri è atto a contenuto costitutivo e normativo (para-contrattuale, tra Comune e concessionario primo) in cui si imprime, nel momento genetico dello jus sepulchri, una determinata destinazione ad una tomba, spesso pluriposto, data in concessione.
Anche nell’antico diritto romano era eminente la rilevanza che assumeva la volontà del fondatore in ordine alla disciplina cui il sepolcro sarebbe stato sottoposto.
Mediante la lex sepulcri, esercitando un atavico potere normativo del paterfamilias riguardo ai sacra privata, il fondatore poneva il regolamento del sepolcro, che veniva proposto in epigrafe.
Essa, anche nella polizia mortuaria di oggi, governa, poi, l’uso ed il godimento della “cosa”, cioè del bene giuridico, conosciuto come sepolcro, per lo più con natura privata e gentilizia.
È la stessa lex sepulchri, dal punto di vista civile, e la sua trasposizione nella concessione amministrativa (per gli aspetti pubblicistici), a non consentire la circolazione del diritto sul sepolcro separato dal diritto primario.
Se la volontà del fondatore è decisiva nello stabilire la lex sepulchri, in linea con una ricostruzione del diritto di sepolcro, attenta sia alla tradizione che si perpetua attraverso la fonte consuetudinaria, sia ai valori espressi dalla Costituzione, le opzioni dell’autonomia privata si confrontano con i valori fondamentali nell’ordinamento.
La fattispecie del sepolcro familiare ricorre se il fondatore riserva lo ius sepulchri ai componenti della famiglia, così come da lui intesa, ma sempre nei limiti di un legame derivante da un rapporto di consanguineità o di coniugio.
Entro tale perimetro la volontà del fondatore può senza restrizione alcuna ampliare o contenere la sfera dei beneficiari del diritto, allo scopo particolare della titolarità del diritto in esame.

Nel sepolcro familiare, l’appartenenza alla famiglia come intesa dal fondatore (lo status familiae, il determinato rapporto di parentela previsto nell’atto di fondazione) è, dunque, un presupposto indispensabile per l’acquisto a titolo originario del diritto alla sepoltura.
L’atto solenne con il quale il concessionario primo fonda il sepolcro (solitamente) sibi familiaeque suae genera “[…] un particolare tipo di comunione fra i contitolari, caratterizzata dalla mancanza della quota come titolo per partecipare alla comunione, e dell’assoluta indisponibilità, con atti inter vivos o mortis causa, imprescrittibilità e irrinunciabilità del diritto del singolo titolare e dei suoi aventi causa” (G. Musolino 2001, 475).
Lo Jus Sepulchri determina, perciò, una particolare forma di comunione solidale ed indivisibile, regolata da norme non ordinarie, in cui tutti i portatori, in vita, dello stesso, per la fruizione, nel loro oscuro post mortem, del vano sepolcrale, sono posti su un livello di pari ordinazione.
Sarà, così, la cronologia degli eventi luttuosi (premorienza) a scandire l’accesso delle rispettive salme nella tomba, salvo – forse – un equilibrato e razionale frazionamento pattizio dei posti salma ancora disponibili tra gli aventi diritto, con atto inter-privatistico, da notificarsi al Comune (cui, l’Ente Locale resta, per altro, estraneo in caso di lite).
Il riferimento al diritto al sepolcro ci permette, allora, di leggere nelle maglie del nostro Ordinamento la concreta possibilità di individuare un bene (ossia la tomba pluriposto), con peculiari finalità ontologiche e caratteristiche, che richiede una regolamentazione non comune diretta a tutelarne l’effettivo scopo, nel caso concreto il culto del ricordo e la devozione verso i propri morti.
È utile, in ultima istanza, distinguere, in questa eclettica stratificazione tra più piani normativi, quasi meta-giuridica, uno Jus Sepulchri come diritto sul bene (suolo e manufatto) da avviare al ricevimento dei feretri. L’edificazione del sepolcro ha, infatti, un triplice obiettivo di sistema.

Il primo è definibile come generale e generico, relativo all’uopo di accogliere salme, comune alle costruzioni cimiteriali dedicate al culto dei defunti e non, quindi, con fini… abitativi, anche se pare pleonastico o quasi ultroneo ricordare come l’insana promiscuità tra vivi e morti (e, provocatoriamente … per le ceneri in affido ex L. n. 130/2001?) sia tassativamente inibita ex Art. 340 T.U.LL.SS.
Esso non va mai mutato, se non nei casi concessi dalla legge (ad es. soppressione del cimitero? Semplice novazione del rapporto concessorio?).
Il secondo poi, tipico o attuale, è quello familiare o ereditario in base alla lex sepulchri.
Infine, come terzo ed ultimo, si può riconoscere una postrema destinazione specifica, quasi nominativa, specie se i loculi sono in qualche modo già “prenotati”, riguardante le singole nicchie ove saranno tumulate le spoglie mortali degli aventi diritto.
Il sepolcro familiare è predisposto a questi usi, essi sono funzionali al principio di unità assoluta che lo caratterizza, salvaguardando l’indivisibilità della tomba gentilizia (ammessa affinché si mantenga l’obbligo di destinazione, trattandosi di cosa che, se divisa, cesserebbe di servire all’uso a cui è preordinata e preposta, ex art. 1112 Cod. Civile) e l’unità architettonica, che pure fa parte, e non certo secondariamente, della comunione.
Una volta statuita la lex sepulchri con la stipula dell’atto concessorio neppure con il consenso di tutti gli eventuali aventi diritto potrà più esser modificata, per tutta la durata della concessione.
Questa rigidità, magari unita al problema del regime perpetuo di ancora moltissimi sepolcri privati nei cimiteri italiani, è spesso foriera di criticità gestionali ad oggi ancora insormontabili.

Una volta accertato che al momento istitutivo della Lex Sepulchri (Art. 1372 Cod. Civile?) fu impressa al sepolcro natura familiare e non ereditaria, le successive vicende della mera proprietà dell’edificio sepolcrale nella sua materialità diventano ininfluenti.
L’identificazione dei soggetti titolari del diritto primario di sepolcro, inteso nella sua duplice accezione di diritto ad essere sepolti o a dar sepoltura in quel determinato sacello, va comunque operata in base al volere, espresso o presunto, del fondatore in stretto riferimento alla rosa dei familiari annoverati tra i destinatari (è la cosiddetta “riserva” formalizzata in norma scritta e generale ex Art. 93 comma 1 I Periodo D.P.R. 285/90).
Sicché il diritto del singolo deve ritenersi sorto ex capite e jure proprio sin dal momento della nascita (e per i nondum nati, ossia i nascituri?) e non può essere trasmesso nè per atto tra vivi nè per successione mortis causa, non si perde per prescrizione (in facultativis non datur praescriptio nonchè actio nondum nata non praescribitur) o rinuncia (???!).
La retrocessione dismissiva, con dichiarazione abdicativa sullo Jus Sepulchri è comunque sempre lecita, come atto personalissimo, unilaterale, scritto ed irrevocabile.
Inoltre, integra una particolare forma di comunione tra i contitolari (da non confondersi con la comunione di proprietà o di altro diritto reale sul bene) proiettata a persistere nel tempo sino al venir meno della pluralità degli aventi diritto; solo dopo il sepolcro si trasforma da familiare in ereditario (v., in tal senso, Cass. Civile n. 5015/1990 e Cass. 29.9.2000, n. 12957).

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