Il rito delle esequie nella tradizione laica:modelli e prospettive a confronto

s6Iniziamo questo nuovo anno in redazione con un’’indagine sul fenomeno dei funerali laici attraverso questa lunga e dettagliata intervista rilasciataci dal Dottor V.P., autore di una brillante tesi di laurea proprio su ritualità ed esequie civili.

Mi potrebbe illustrare, alla luce della sua tesi di laurea, anche in modo schematico, di quali fasi principali si possa comporre un rito laico?

Mi pare difficile rispondere alla domanda in modo schematico, così come mi sembra problematico proporre, alla luce di una ricerca, uno “schema” valido per un generico “rito laico”. Ritengo che, qualora non si decida di adottare una formula proposta da qualche Ente esterno – come accade a Torino da parte della Fondazione Fabretti – o consolidata tradizionalmente, siano le persone coinvolte più direttamente nell’elaborazione del lutto a dover stabilire le “fasi” di cui ritengono più proprio comporre il funerale.

Ciò premesso, ritengo che un rito laico debba semplicemente essere scandito conformemente ai suoi fini, ossia in funzione di una proficua rielaborazione e condivisione della figura del defunto e della ricomposizione e rifondazione del gruppo lesionato dalla perdita.

A questo proposito sarà necessario costituire – anche emotivamente – l’assemblea che dovrà condividere il rito e dovrà elaborare collettivamente la perdita, per poi mettere in atto e compiere quella elaborazione stessa, ossia comprendere e sceglierecosa il defunto sia stato per il gruppo e come egli sarà ricordato, nuova componente delle rappresentazioni comuni dei superstiti.

Solo quando tale compito sarà stato svolto si potrà sciogliere l’assemblea, consapevole del nuovo assetto del gruppo e del suo nuovo fondamento ideale.

Sulla scorta di Durkheim, Van Gennep, Turner e Bourdieu, porrei l’accento sulla fase centrale del rito, quella in cui si sarà realizzata nell’assemblea una concordia d’animo capace di renderne i prodotti ideali rappresentazioni condivise da tutti.

In questa fase così caratterizzata si darà luogo alla istituzione della nuova rappresentazione della persona mancata. Può essere anche interessante – e soprattutto utile – compiere riti di comunione con il defunto, così daa sancirne la permanenza nel patrimonio ideale dei superstiti e, successivamente, riti di comunione senza di esso, a confermare comunque la consapevolezza della sua effettiva mancanza, prendendo atto della nuova composizione del gruppo e riaffermandone l’unità.

  • Il ritmo del funerale in Italia è davvero così frenetico da indurre la famiglia ad optare per la più classico e rassicurante cerimonia in chiesa?

Bisogna semplicemente considerare che, in Italia, un funerale avviene uno, massimo due giorni dopo il decesso della persona. In questa situazione, quando manchino strutture adeguate, immediatamente disponibili per un funerale laico, quando manchi l’informazione su come muoversi nel caso di questa necessità, quando manchi la consapevolezza della possibilità di questa scelta né una tradizione consolidata e legittimata socialmente venga in soccorso, è comprensibile che in un momento di estrema fragilità e difficoltà quale quello del lutto, dati i tempi a disposizione, ci si rivolga verso l’opzione più sicura, immediatamente disponibile, tradizionalmente consolidata e socialmente accettata, la chiesa, appunto.

  • Nella nostra chiacchierata è emerso un dato abbastanza importante: per supportare la scelta ideale di un funerale laico occorre un cultura forte capace di uscire allo scoperto e di farsi “codice comune” ed elemento fondativo nella comunità. Mi può puntualizzare in modo più completo questo concetto?

La questione non riguarda una cultura “forte”, ma una cultura condivisa. È la sua condivisione, accettazione e diffusione a far sì che una cultura possa essere considerata legittima, così come le sue espressioni. Se intendiamo con “forte” una cultura socialmente rilevante o i cui portatori abbiano un forte grado di adesione consapevole e di convinzione, allora possiamo usare questa espressione. Una cultura che, nel panorama delle possibilità, risulti marginale e, soprattutto, non sorretta da un tessuto sociale tale da corroborare l’adesione ad essa, non può non essere percepita come poco rassicurante in un momento delicato come quello del lutto.

  • Dal Suo racconto sulla “rissa verbale” quasi sfiorata tra un sacerdote ed una maggioranza di dolenti chiaramente laica che ha cercato di ricavare durante la santa Messa un proprio spazio per una liturgia atea della parola si potrebbe evincere questo principio: se il percorso simbolico non è condiviso gesti ed espressioni verbali tendono a smarrire la loro connotazione di senso, rivelandosi formule vuote?

Premesso che il termine “rissa” è sicuramente esagerato, anche se la tensione, in quel momento, è stata certamente palpabile, il presupposto per una plausibile elaborazione del lutto è sicuramente la condivisione dell’orizzonte che sottende il rito. Tra le funzioni cardine di un rito funebre vi sono la ricompattazione del gruppo leso e il ridischiudere all’operatività i valori che orientano il suo agire. Ora, come può un gruppo ricompattarsi coerentemente intorno a valori non propri? E come può un orizzonte di valori dimostrarsi attivo attraverso un rito che non è ad essi conforme?

Certo, l’aggregazione tra le persone lese svolge una funzione fondamentale in un rito funebre, ma essa deve anche dar luogo a rappresentazioni condivise.

Nel caso del funerale religioso, si assiste spesso ad una delega delle funzioni rituali a persone, di fatto, estranee al defunto e alla sua famiglia, alle loro relazioni e al loro reale vissuto.

Marina Sozzi, a proposito della crisi del tradizionale rito cattolico, “scelto in molti casi per conformismo, in mancanza di un’alternativa valida”, afferma che “tale rito, con la sua liturgia, può funzionare (cioè consolare i superstiti e onorare i defunti in un modo socialmente condiviso) solo nel caso in cui contribuisca a rinsaldare una fede autentica nei valori che esso esprime” (Sozzi 2001: VII).

Quando questa fede non rappresenti che un’adesione di facciata, il rito non riesce ad assolvere appieno la sua funzione consolatoria.

Martine Segalen sostiene, con un’evidente eco durkheimiana, che il rituale crolli col venir meno di una credenza condivisa: “anche quando si celebra un funerale religioso, spesso il rito è assente nella misura in cui il gruppo dei presenti non è una «collettività» che condivide un’emozione comune” (Segalen 2002: 51).

Quando non esista una reale convinzione nella vita dopo la morte o nel sacrificio del Cristo per la salvezza degli uomini, rimarrà un senso di incompiutezza e rassegnazione, rimarrà la questione del “cos’altro avremmo potuto fare?”, che, a fronte di una possibilità di scelta non soddisfacente, non trova ancora nella società la proposta di forme rituali valide e conformi alle esigenze contemporanee dei luttuati.

Una risposta plausibile è vista da diversi studiosi in forme rituali più personalizzate, sganciate dalla liturgia tradizionale e maggiormente concentrate sulla vita del defunto. Questa strada è già percorsa in paesi diversi dal nostro, in particolare nel Nord Europa e negli U.S.A.

  • Alla fine il funerale serve più ai vivi, per elaborare un ricordo, o al morto rimanere idealmente nel cuore di amici e famigliari?

A mio giudizio, un funerale serve ai vivi per definizione. Un morto non può usufruirne perché non è più. Tuttavia, come si è colto già con l’Illuminismo, il pensiero di un buon giudizio postumo può essere goduto già in vita. È proprio su questo che si basa la capacità di una morale laica di avere la stessa presa sulla coscienza di una morale religiosa. Lo stesso dicasi per l’idea di lasciare di sé un buon ricordo. Essa può soddisfare quella stessa esigenza di sopravvivenza soggettiva oltre la vita – a fronte di una cessazione oggettiva di essa – cui dà risposta la credenza in una vita dopo la morte. Altrettanto, essa può influenzare il comportamento in vita. D’altronde, quanto più ci si avvicina ai valori della propria società, quanto più si incarna un ideale di buona socialità, tanto più si potrà essere riconosciuti e ricordati come esempio. Comunque, per rimanere sulla domanda, l’elaborazione di un ricordo del defunto da sovrapporre all’assenza della sua realtà e da introiettare come nuovo fondamento ideale del gruppo che si va a ricostituire ritualmente è una funzione fondamentale del funerale. Aggiungerei che il fatto di concepire un funerale come conforme alle volontà del defunto e l’idea stessa del rispetto di queste volontà, altro non sono se non un modo di rappresentarsi le proprie azioni come dettate da una volontà obbligante, quella del defunto, rafforzata dalla sacralità del contatto con la morte, e dunque di alleviare il peso della responsabilità delle scelte in occasione del funerale. Il defunto, infatti, viene ad incarnare contemporaneamente il dato che induce la crisi e l’imposizione sociale alla sua soluzione. Esso, inoltre, sarà presumibilmente portatore degli stessi valori dei superstiti, almeno di quelli a lui più prossimi. Pertanto, egli potrà ben assolvere la funzione di legittimare quella che invece è la volontà dei superstiti stessi. Per essere chiari: il rispetto della volontà del defunto non può aver luogo senza la conforme volontà dei superstiti.

  • Lei mi ha parlato dell’elaborazione del lutto come di un’interpretazione figurale del defunto che viene idealizzato nei valori testimoniati quand’era in vita, così da diventare insegnamento morale, principio esistenziale e memoria per chi resta. Come si sviluppa questo processo nella psicologia del dolente (basta anche una risposta sintetica e semplificata).

morgan2a7Sicuramente non sono in grado di dare una risposta in termini psicologici. Tuttavia ritengo che una funzione essenziale del rito funebre sia la scelta del modo in cui il defunto viene ricordato. Nel momento in cui si ricorda chi la persona scomparsa era stata per i superstiti, al contempo si prende atto del valore della perdita e della persona: si esplicita il perché quella persona fosse così importante, che cosa rappresentava e soprattutto che cosa rappresenterà d’ora in poi per i superstiti. Il fatto che ciò avvenga nel momento rituale è fondamentale per più motivi: questo processo diventa rappresentazione e scelta comune; dunque, intorno a questa scelta, si coagulerà il nuovo sentire del gruppo, la sua nuova costituzione ideale, la riaffermazione della sua coesione. Inoltre, come avevano osservato tra i primi Robertson Smith e Durkheim, il momento rituale costituisce un momento particolare di condivisione delle coscienze e dei sentimenti. Per questo esso è caratterizzato da prodotti emotivi ed ideali più forti ed incisivi di quelli dei momenti “quotidiani”, tali da impressionare le coscienze con maggiore efficacia e durata. È importante anche considerare che ciò che viene stabilito nel rito, e dunque anche la nuova identità del defunto, per il fatto di essere stato deciso collettivamente, ha valore immediatamente istitutivo; diventa cioè elemento condiviso tendenzialmente almeno dalla maggioranza dei partecipanti: una percezione con cui comunque bisognerà confrontarsi, anche in caso di dissenso.

In questa situazione, sul defunto sarà proiettata tutta l’energia rappresentativa del gruppo riunito e teso alla propria riaffermazione, e dunque tutti i suoi valori, eccitati dalla carica emotiva vissuta. Questi cercheranno riflesso e conferma nel vissuto del defunto, che verrà potenziato in questa accezione. Per questo egli diverrà un così forte esempio di questi valori e come tale si imprimerà nella memoria.

  • Qual è il ruolo sociale dell’evento funerale? Secondo Lei potrebbe sussistere un rito, ermetico ed intimistico, capace di ignorare la socializzazione della morte?

Sicuramente un funerale ha la funzione di rifondare un gruppo sociale lesionato da una crisi luttuosa e di consentire una rielaborazione e una reintroiezione collettiva della figura del defunto. Una elaborazione personale del lutto, complementare a quella collettiva e diversa da essa – anche se tutt’altro che escludente necessariamente la relazione – è comunque scontata.

Detto questo, forme rituali più intimiste ed ermetiche possono certamente sussistere. Tuttavia, esse trovano comunque il loro fondamento nel fatto di essere accettate e legittimate socialmente. Esse, anzi, riflettono certamente caratteristiche specifiche delle società e culture che le producono. La maggiore enfasi sull’aspetto socializzante o intimista dell’elaborazione del lutto non è, in buona sostanza, che un dato culturale. Certo, in un panorama complesso come quello di molte realtà contemporanee, c’è ampio margine per la scelta e l’interpretazione personale delle modalità del lutto. L’essenziale è che il risultato sia un’elaborazione e una rappresentazione soddisfacente per i superstiti.

Rifletterei sul fatto che molte cerimonie funebri contemporanee sono forzatamente “intimiste” nel senso che non vi si riscontra un’ampia partecipazione pubblica: questa è data dal vissuto sociale della persona. Può dunque capitare che una cerimonia basata su una forte aspettativa di “socializzazione”, nel senso di un’ampia partecipazione collettiva, si riveli invece, sotto questo aspetto, deludente. Forse è allora necessario rendere le persone consapevoli che una buona elaborazione del lutto non è solo un dato quantitativo, ma anche qualitativo. Tuttavia, ciò non potrebbe sussistere in un orizzonte in cui la quantità e la partecipazione costituissero, di fatto, la qualità ricercata.

  • Può esistere una spiritualità “laica” ed “atea”. Se sì In quali termini?

Non mi porrei neanche la domanda. Pur non sentendomi in grado di dare una definizione netta di spiritualità, mi sembra evidente che una spiritualità laica e/o atea esista e possa esistere. Mi sembra che la spiritualità attenga al valore ed al modo in cui i valori sono sentiti, e mi sembra che essa attenga ad un senso di trascendenza. Ora, la trascendenza può essere anche completamente umana, nel senso di trovare il suo fondamento, la sua legittimazione ed il suo fine nell’uomo ed in valori semplicemente umani. Personalmente ritengo che la religione stessa non sia che una rappresentazione metaforica di esperienze, esigenze e vissuti null’altro che umani. Per questo credo che una spiritualità laica non abbia assolutamente nulla in meno di una spiritualità religiosa. Essa, semplicemente, cerca e trova il suo fondamento nel valore umano e terreno piuttosto che in quello religioso, tributando all’uomo e alle sue possibilità, capacità, sentimenti e quant’altro e, aggiungerei, al mondo e alla natura, un rispetto, una considerazione, una fiducia e, soprattutto, una capacità di suscitare sentimenti totali e trascendenti l’individuo che non hanno bisogno di cercare fondamento altrove.

  • Come avviene in un funerale laico la comunicazione, anche non verbale, di emozioni ed ideali? Attraverso quali percorsi?

Farei alcune premesse: innanzitutto, data la complessità del mondo e delle persone e la possibilità di scelte espressive diverse per individui e culture, non ritengo di poter considerare un generico “funerale laico”. Inoltre credo, per alcuni aspetti, che le competenze necessarie a giudicare una comunicazione non verbale siano piuttosto ampie ed attengano a diversi ambiti, fino all’etologia.

Per quello che riguarda la comunicazione verbale, ritengo che la componente discorsiva sia fondamentale per la trasmissione di emozioni e ideali, sia questa componente a carattere “verticale” e formalizzato, con una persona che parla investita di questo compito dal gruppo o con l’attenzione regolata di esso, sia invece a carattere “orizzontale” e più informale, con discorsi più intimi che servono a stabilire e rafforzare legami ed anche a creare quella condivisione che può far sì che un gruppo di persone costituisca un’assemblea concorde e di comuni intenti. La componente discorsiva ha evidentemente un ruolo fondamentale nella creazione e circolazione di senso.

Per quello che riguarda la componente non verbale, le emozioni hanno il loro veicolo di comunicazione in tutte le componenti che conosciamo: il corpo, i gesti, gli atteggiamenti, i pianti, gli sguardi, l’abbigliamento e così proseguendo. Anche gli ideali si trasmettono secondo i loro canali più ovvi: i comportamenti e i simboli, sui quali torneremo.

Detto questo, mi chiederei anche: “in che modo questa comunicazione avviene in un funerale religioso?”. Siamo sicuri che questa comunicazione sia poi così diversa? Personalmente ritengo che la distanza tra un funerale religioso ed uno laico, sempre salva l’inopportunità di così ampie generalizzazioni, risieda fondamentalmente nei contenuti rappresentati, mentre, a livello di canali, il tipo di comunicazione è la stessa: la messa non è forse un discorso, ossia uno strumento ampiamente umano di comunicazione? E non è essa una mensa? La comunione, cioè, non è forse una commensalità, probabilmente il più antico atto di condivisione e di aggregazione, che sancisce una collaborazione, una società in senso stretto? Ed i veicoli di comunicazione dell’emozione non sono forse gli stessi?

Ritengo che la mia tesi di laurea mi abbia consentito di cogliere alcuni significati profondi dei funerali laici, ma anche che molti di questi significati, appartengano anche ai funerali religiosi, che, semplicemente, li esprimono attraverso rappresentazioni diverse. Tuttavia, essi agiscono nella stessa direzione: la trasformazione del defunto in un esempio dei valori condivisi e che è necessario riaffermare per rifondare il gruppo e tornare a vivere. Oppure, almeno, l’evocazione di questi valori attraverso la storia del defunto quando essa non si presta all’esemplarizzazione.

  • Quali sono i vessilli ed i simboli funerari di una coscienza laica dopo il tramonto delle ideologie totalizzanti?

Certamente non posso rispondere a questa domanda: non posso sapere quali siano i simboli che le persone sceglieranno di volta in volta per rappresentare se stesse, la loro vita, i loro affetti, i loro cari, la loro esperienza.

Tuttavia ritengo di poter dire una cosa abbastanza precisa: anche un funerale religioso non si può fare senza l’essere umano! In un funerale religioso il simbolo è presente come altrimenti non potrebbe essere. Tuttavia, al centro dell’attenzione è il defunto, o la bara. Ad essi il simbolo si giustappone e si associa: il defunto rappresenta la pietra dello scandalo, il motivo della crisi per la cui elaborazione collettiva ci si raduna. In un funerale è necessario proprio riuscire a trasformare la figura del defunto in nuovo fondamento per la vita che prosegue. È necessario trasformare la sua vita in valore positivo comune al gruppo per rifondarlo idealmente. Proprio per questo, in un funerale laico, il primo, vero simbolo è l’uomo in sé, la persona, con tutto il suo valore. Essa porta in sé la sacralità della morte e l’imperativo sociale al recupero della crisi. Le altre simbologie, gli altri significati chiamati in gioco nel rito saranno funzionali all’orizzonte degli specifici dolenti, degli specifici gruppi e alla loro intenzione rappresentativa. I simboli potranno essere scelti – e comunicati attraverso una esplicita trasmissione verbale che sia circolazione di senso – a partire dal vissuto stesso del defunto e di ciò che di questo si vuole rendere significativo.

  • Sino alla fine degli anni ’80 il funerale civile era una scelta di massa ed istituzionalizzata da una precisa fede politica e sociale, adesso come Le pare sia cambiato il rapporto tra cerimonie e politica?

Innanzitutto mi mancano i dati e l’esperienza per poter suffragare la sua affermazione. Io sono relativamente giovane e vivo in una realtà (Roma) diversa dalla sua (Modena). Inoltre, la questione mi pare essere più tra cerimonie e tessuto sociale che tra cerimonie e politica: la politica aveva una forte presenza all’interno delle cerimonie perché essa era centro e motore di una forte aggregazione sociale. Ora la questione è che la politica non sembra più assolvere questa funzione mentre tuttavia un preciso sentire laico, anche legato ad alcune visioni del mondo e della politica, rimane e pone l’esigenza di riti funebri ad esso conformi. Ciononostante, questo sentire non sembra sostenuto da forme di aggregazione e di socializzazione che possano essere il terreno di forme rituali condivise.

Inoltre, le ho esposto una mia ipotesi a riguardo, che tuttavia chiede di essere sostenuta da fatti, dati e numeri: una generazione fortemente politicizzata, quella del ’68, ha avuto una vita fortemente aggregata e partecipativa fino ad un certo periodo ed ha, infatti, rivoluzionato i costumi ad esempio per quello che riguarda il matrimonio, con l’introduzione del divorzio e la pratica dei matrimoni civili, ormai così diffusi che, recentemente, a Milano, il numero dei matrimoni civili ha superato quello di quelli religiosi. Dopo l’esplosione del fenomeno terroristico, si è assistito, negli anni ’80, ad un’ondata di riflusso, soprattutto per quello che riguarda le forme partecipative ed associative (spezzate spesso anche dalla strumentale accusa di essere comunque filoterroristiche). In questo periodo, la socialità di quella generazione si è disgregata, ma, soprattutto, mi sembra da considerare che tale generazione non è ancora arrivata o si affaccia appena alla soglia della mortalità. Per questo essa non ha potuto elaborare riti funebri propri e conformi al proprio vissuto. Quando si presenta il lutto, questa generazione non ha più quella coesione e quella abitudine alla pratica collettiva che sono necessari per avere la consapevolezza di quali forme le potrebbero essere proprie. Senza comunicazione e condivisione non si può avere un fondo comune che consolida le pratiche e le forme fondando una tradizione.

  • In una cerimonia religiosa il filo conduttore è l’azione salvifica di un Dio che accoglie (almeno si spera) il defunto e consola chi resta. In un funerale civile quale forza o convinzione etica sopperisce alla mancanza dell’elemento sovrannaturale?

Per rispondere di getto, personalmente ritengo che l’elemento sovrannaturale non sia null’altro che una modalità di rappresentazione di una morale tutta umana, ossia del rapporto dell’uomo con la sua società e con i suoi valori.

Parlando di convinzione etica, ritengo che in un funerale laico il valore sia semplicemente quello di aver avuto e condotto una buona vita e l’importanza che si riveste per i propri cari. Il metro con cui si giudica questa bontà è particolare di ogni gruppo sociale e di ogni distinto orizzonte culturale: si può propendere per l’enfatizzare le realizzazioni personali così come la socialità del defunto e la sua attenzione per il prossimo, il tutto secondo specifiche intensità e combinazioni.

Per i superstiti, ciò che può consolare è la consapevolezza di aver avuto presso di loro una persona valida ed importante, e di poterla tenere presso di sé nel ricordo.

Come si comprese fin dagli esordi di un rapporto laico con la morte, nell’Illuminismo, la dimensione del ricordo svolge un ruolo fondamentale a questo riguardo: il ricordo svolge la stessa funzione di premio assolta da paradiso e inferno.

Il presupposto del funerale laico è che non ci siano vite ulteriori dopo la morte. Questo dato si accoglie con quella che de Martino chiamava una “rassegnazione morale” (de Martino 2000: 20-21), che egli giudicava una forza. Per questo motivo, il valore della persona si valuta in funzione di questa vita, ma d’altronde anche in un funerale religioso, il giudizio si esprime riguardo a questa vita. La differenza consiste nel fatto che anche l’eventuale premio è goduto in questo mondo. Ma non è un premio goduto effettivamente dal defunto. Esso è semmai goduto in anticipo durante la vita come premio per la propria condotta. “Non vi propongo di vivere dopo la vostra morte. Ma vi propongo di pensare, mentre siete vivo, che sarete onorato dopo la vostra morte, se l’avete meritato” scriveva Diderot all’amico Falconet (cit. in Sozzi 1996: 101). Questo pensiero è in grado di influenzare preventivamente la condotta (“se l’avrete meritato”), e dunque di agire come sanzione della morale. I funerali laici a maggior carattere politico sono stati storicamente anche una messa in scena a beneficio dei vivi (o in loro funzione), un mezzo di trasmissione ad essi di valori, ideologie e regole di condotta. Si mostrava che, quanto più si era stati esemplari dei valori proposti nel funerale, tanto più la propria persona veniva innalzata e celebrata (l’argomento è trattato ottimamente in Mengozzi 2000). Questo meccanismo, seppur meno ideologizzato e politicizzato, mi sembra ancora una delle basi dei funerali civili. D’altronde, anche un funerale religioso può agire nello stesso modo, seppur rappresentandolo in maniera diversa.

  • Se non ricordo male un funerale civile, per avere successo, deve saper suscitare valori universali e concretamente vissuti. Quali?

Non è una questione di valori universali, né saprei dire di quali si debba trattare. Quello che intendo, facendo riferimento a Turner, è che, conformemente alle situazioni di communitas, proprie dei riti a carattere collettivo (ma non solo di quelli), i valori proposti siano intesi in un’accezione meno rigida e decisa di quanto non lo siano nelle situazioni strutturate quotidiane. Essi sono, per così dire, diluiti, intesi in un senso più ampio, in maniera tale da essere condivisi dal maggior numero possibile dei presenti, da essere maggiormente inclusivi, di modo che il gruppo che si andrà a ricostituire come effetto del funerale possa essere massimamente vasto, unito e concorde.

Certo, se devo citare valori specifici, è ovvio che il mio pensiero va a valori che siano espressione di socialità, quali l’attenzione reciproca, l’altruismo e la concordia. Il vivere concretamente questi valori è certamente un mezzo per ricostituire un gruppo leso e, a questo proposito, può facilmente accadere che siano individuati, nella vita del defunto, atti che siano esemplari di questo “atteggiamento pratico”, che si inviti dunque ad imitarli, costituendo così un indirizzo per l’azione, al fine di superare la crisi.

BIBLIOGRAFIA

  1. Bourdieu, Pierre 1982. Les rites comme actes d’institution, in «Actes de la recherche en sciences sociales».
  2. De Martino, Ernesto 2000 (ed. or. 1958) Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri, Torino.
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  5. Fondazione Ariodante Fabretti (a c. d.) 2004. Il rito del commiato, Torino.
  6. Mengozzi, Dino 2000. La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma.
  7. Robertson Smith, William 1972 (ed. or. 1889). Lectures on the religion of Semites, Schocken books, New York.
  8. Segalen, Martine 2002. Riti e rituali contemporanei, Il Mulino, Bologna.
  9. Sozzi, Marina 1996. La molecola immortale: trasformazioni della materia nel Settecento, in Tartari, Manuela (a c. d.) 1996. La terra e il fuoco. I riti funebri tra conservazione e distruzione, Meltemi, Roma.
  10. Sozzi, Marina (a c. d.) 2001. La scena degli addii: Morte e riti funebri nella società occidentale contemporanea, Paravia, Torino.
  11. Turner, Victor W. 1972a (ed. or. 1969). Il processo rituale, Morcelliana, Brescia.
  12. Van Gennep, Arnold 1981 (ed. or. 1909). I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino.

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Carlo Ballotta

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