Talora possono esservi in uso espressioni originate dalla prassi, ma che non trovano copertura (men che meno – a volte – definizione normativa), ma che sono utilizzate de facto per inerzia.
Al punto che si consolidano e, prima o poi, possono trovare accoglimento anche in testi normativi, specie quando redatti da soggetti cui sono estranei atteggiamenti di una qualche minima “pulizia” testuale.
Ne è esempio, anche frequente, l’espressione di constatazione di morte, che, per l’appunto non ha altra fonte se non l’uso materiale fattone.
Se questo uso potesse rientrare tra le fonti del diritto alla luce dell’art. 1, n. 4) “Disposizioni sulla legge in generale (spesso abbreviate in “Preleggi”) verrebbe d’obbligo ricordare quanto preveda il successivo art. 8, comma 1 delle medesime Preleggi.
Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati..
In materia di morte, va subito ricordato l’art. 103, comma 1, lett. a) T.U.LL.SS., R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 e s.m., che si riporta (unitamente al suo incipit).
“Art. 103. [I] Gli esercenti la professione di medico-chirurgo, oltre a quanto è prescritto da altre disposizioni di legge, sono obbligati:
a) a denunziare al podestà le cause di morte entro ventiquattro ore dall’accertamento del decesso; (omettendosi per non pertinenza quanto segua).
Si tratta di una disposizione che, in sede regolamentare, viene ripresa all’art. 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m..
Anche se nella fonte regolamentare vi è qualche passo aggiuntivo, operativamente utile e che risolve alcune potenziali criticità che potrebbero emergere da una lettura piattamente testuale della norma citata.
Ci si riferisce al fatto che il termine per questa “denunzia” (leggansi: comunicazione) appare decorrere a partire dall’accertamento del decesso.
Quando (ancora una volta, in sede regolamentare) questa “fase” è regolata dall’art. 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., che richiama l’art. 74, comma 2 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.
2. L’ufficiale dello stato civile non può accordare l’autorizzazione se non sono trascorse ventiquattro ore dalla morte, salvi i casi espressi nei regolamenti speciali, e dopo che egli si è accertato della morte medesima per mezzo di un medico necroscopo o di un altro delegato sanitario; questi deve rilasciare un certificato scritto della visita fatta nel quale, se del caso, deve indicare la esistenza di indizi di morte dipendente da reato o di morte violenta. Il certificato è annotato negli archivi di cui all’articolo 10.).
L’uso della parola “fase” appare utile per cercare di comprendere adeguatamente i diversi comportamenti che conseguono all’evento morte.
Per rendere più semplice l’esposizione si escluda il caso di morte considerato all’art. 72, comma 3 del già citato D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.
Ciò in quanto si tratta di “ambienti” in cui è, o dovrebbe essere, presente un certo grado di medicalizzazione, formulando semplicemente l’esempio della persona, magari di una certa età, che si trovi a casa, ammalata e affidata alle cure del medico di medicina generale (MMG) di elezione.
Consideriamo questa situazione in termini di assoluta normalità, di ordinarietà, senza alcuna particolarità, aggiungendo che questa persona coabiti con uno o più familiari (magari alcuni personale A.T.A. di un qualche istituto scolastico comprensivo, ma vanno bene ogni altra attività o condizione non professionale) rilevando unicamente che si tratti di persone che non dispongono di conoscenze mediche di sorta.
Quando la persona muoia, chi “coglie” che è intervenuto il decesso se non proprio il familiare (del tutto digiuno di conoscenze mediche), potendolo nella condizione di informare il MMG dell’evento che ha rilevato (constatato?), in modo da porlo nella posizione di poter adempiere alle sue funzioni?
Spesso il MMG arriva a distanza di qualche tempo, magari perché deve concludere l’orario di ricevimento in ambulatorio.
Se si tratti di una situazione “seguita”, può arrivare avendo già con se la modulistica più o meno compilata con le presumibili cause di morte.
Si narra che, talora, il MMG si auto-esenti dalla visita alla casa della persona defunta, chiedendo ai familiari di recarsi in ambulatorio per ritirare questa documentazione.
Cosa che può non scandalizzare né collocarsi necessariamente in valutazioni di c.d. mala sanità quando la situazione di morbilità sia ben nota e “seguita” da tempo.
In quante occasioni la morte è “attesa” come ormai prossima?
Dato che si è usato il termine “modulistica” va richiamato l’art. 1, comma 6 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., cioè (i.e. alla scheda ISTAT D.4).
Ci sarebbe anche la D-4-bis, ma vi è il rischio di uscire da quella normatività che era stata assunta come sussistente.
Qui e là possono esservi usi, magari anche consolidati e, comune, semplicemente risalenti a situazioni improprie lontanamente antecedenti al T.U.LL.SS., per cui vi siano anche altri moduli (impropriamente, a volte chiamati “constatazione” …; all’art. 1, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. si parla di “dichiarazione” e di “avviso” di morte …).
Ma non consideriamo più di tanto questi aspetti, salvo che per considerare come l’uso reiterato rimuova ogni valutazione sulla ratio e fondatezza di queste prassi.
Avendo richiamato l’art. 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., va citato il suo comma 1, per il quale. “… i medici …. debbono per ogni caso di morte di persona da loro assistita denuncia al sindaco la malattia che, a loro giudizio, ne sarebbe stata la causa.”
Quanto viene richiesto al medico non è la “statuizione” di quella che è stata, oggettivamente, la causa della morte, ma solo quella che (A) a loro giudizio, (B) sarebbe (potrebbe essere stata …) la causa della morte ….
E ciò trova coerenza proprio nel modulo della scheda ISTAT mod. D.4 laddove, nella parte in calce prima della firma da parte del medico si legge: “Dichiaro che le cause della morte secondo scienza e coscienza, sono quelle da me sopraindicate.
Quanto viene chiesto al medico non è la “certezza” della causa, quanto l’esercizio della sua qualificazione professionale.
La “certezza” è, piuttosto, richiesta circa l’effettività della morte, come visto dai già ricordati art. 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. e (ontologicamente prima) art. 74, comma 2 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.
Qui si scopre, come nel precedente art. 141 R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, che ad accertarsi dell’effettività della morte è l’Ufficiale dello stato civile, anche se … per mezzo …. (ah, la quotidianità ….), dal momento che se la morte non sia effettiva le operazioni oggetto delle autorizzazioni avrebbero un effetto …. effettivizzante.
Si tratta di un aspetto che sottostà all’istituto di cui al Capo V D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., rubricato: “Riscontro diagnostico”.
Il riscontro diagnostico può aversi in più situazioni, ma, permanendo in quell’impianto di generale normalità dell’esemplificazione, richiamiamo unicamente: “… quando i rispettivi direttori, primari o medici curanti lo dispongano per il controllo della diagnosi o per il chiarimento di quesiti clinico-scientifici, cioè il fatto che questo istituto può essere il canale attraverso cui si abbiano chiarimenti, laddove vi sia esigenza (scientifica) di chiarimenti.
Altrimenti, l’istituto del riscontro diagnostico perderebbe di significato.
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