L’immemoriale per ricordare quanto non ha memoria (scritta)

Una delle questioni di maggiore delicatezza in materia di gestione cimiteriale è quella che riguarda “posizioni” cimiteriali per cui non siano, allo stato, disponibili documenti circa la loro origine.
Allo stato, nel senso di riferirsi alla documentazione probatoria disponibile. In molti casi potrebbe risolversi con una adeguata ricerca d’archivio, che può comportare tempi anche lunghi, ma molto dipende dallo stato in cui siano stati tenuti gli archivi storici che possono, nel tempo, essere anche stati oggetto di eventi lesivi, ma, forse più spesso, oggetto di tenuta non sempre curata.
A ciò va aggiunto anche il mutamento delle modalità che portavano (o, avrebbero dovuto essere praticate all’epoca) al sorgere di concessioni cimiteriali, dovendosi anche tenere conto del fatto che molti cimiteri sono sorti in epoche pre-Unitarie, dovendo fare riferimento a fonti che ormai pochissimi conoscono e, comunque, di non pronta accessibilità.
L’assenza dell’atto originario diventa una criticità quando si tratti di individuare le persone che, oggi, abbiano titolo sulla concessione o che possano vantare diritti, sia in termini di utilizzo, ma altresì in termini di obblighi e responsabilità.
A volte, si cerca di affrontare queste situazioni di carenza del “titolo di fondazione”, ricorrendo alla scappatoia del ricorso all’istituto denominato “immemoriale”, scoprendo che molti di chi lo citino non ne conoscano la portata.
In tali casi, frequentemente, si registra il fatto di introdurre, in via regolamentare, un procedimento amministrativo in costituzione della funzione giurisdizionale, cosa sempre improponibile.
Tra l’altro, il fatto che l’istituto dell’”immemoriale” non sia particolarmente noto ha una motivazione nel fatto che è stato istituto soppresso con l’entrata in vigore del C.C. del 1865 (in altre parole, non può pretendersi che, oggi, siano note disposizioni delle normative pre-Unitarie) per quanto riguarda la sua applicabilità nel campo del diritto privato.
Di tanto in tanto, la questione dell’”immemoriale” ritorna, in particolare in pronunce, generalmente della giurisprudenza di legittimità.
In proposito un cenno merita la pronuncia del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, Sez. unica, 2 novembre 2023, n. 170, reperibile per gli Abbonati PREMIUM nella Sezione SENTENZE, così come la coeva del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 9446 (viene da chiedersi se vi sia stata una qualche intenzionalità nel far sì che la loro pubblicazione avvenisse esattamente il giorno della Commemorazione dei Defunti …).
In essa, si affronta il tema delle concessioni cimiteriali che, allo stato, risultino prive di documenti probatori della avvenuta, a suo tempo, formazione del regolare atto di concessione, richiamandosi anche all’istituto dell’”immemoriale”, per il quale si richiamano precedenti pronunce della Corte di Cassazione in proposito (verrebbe da chiedersi se oltre che essere citate siano state anche lette e colte nella loro portata).
Si tratta di rinvii che afferiscono alle competenze del giudice ordinario e non della giustizia amministrativa.
Non basta, avendosi presente come vi siano state pronunce, sempre della Corte di Cassazione, più o meno risalenti a mezzo secolo addietro, in cui erano state affrontate le questioni circa i casi in cui l’istituto dell'”immemoriale” poteva trovare applicazione quale mezzo di prova in assenza di documenti idonei, ma anche delle forme di prova, nel corso del giudizio di accertamento, che ammettevano anche la prova testimoniale, precisando che i testimoni dovessero avere una certa età (nel 1963 si parlava di un’età superiore ai 50 anni compiuti, età per la quale, forse, andrebbe tenuto conto di quella che poteva essere all’epoca la c.d. “speranza di vita” in termini attuariali) e che attestassero non solo la piena ed inequivoca conoscenza dei fatti ma altresì che una tale identica conoscenza fosse stata presente anche nei loro genitori. Non si tratta di aspetti secondari.
Però vi è un aspetto che appare incoerente, dal momento che, nella fattispecie oggetto della pronuncia, si fa riferimento a c.d. “concessioni di fatto”, formula su cui non può che sollevarsi qualche perplessità.
Nelle realtà territoriali del contesto si erano formate prassi di consentire, per ragioni affettive, l’uso di sepolture in siti laddove erano già stati sepolti in precedenza persone della medesima famiglia, prassi comprensibile in piccole realtà e con forti relazioni familistiche, anche se un tale uso (prassi) non poteva portare a parlare di “concessioni di fatto”, ma semmai ad un’appropriazione (si intende, in via di bona fide!) di singoli luoghi di sepoltura.
Parlare di “concessioni di fatto” appare del tutto fuorviante. Se, poi, si aggiunge la presenza di un riferimento temporale (prima metà degli anni ’40 del ventesimo secolo …), cioè attorno (poco prima o poco dopo) all’entrata in vigore e prima vigenza del R. D. 21 dicembre 1942, n. 1880 (in vigore dal 1/7/1943), non si fa certo riferimento a remote legislazioni e procedure pre-Unitarie, quanto a situazioni normative relativamente recenti e le cui fonti sono sostanzialmente accessibili.
A differenza ai cimiteri il cui impianto risalga ad epoca pre-Unitaria. L’uso del termine “concessioni di fatto”, collocato in questi contesti temporali, non potrebbe essere utilizzabile per quelle che, in precedenza, sono state denominate “appropriazioni” originate in contesti specifici, in cui le prassi si sono registrate.
Possono comprendersi (e se ne conoscono) situazioni locali, anche se di prassi, meno che queste, ed in epoche relativamente (cimiterialmente parlando) recenti, assumano la valenza di costituire veri e propri diritti soggettivi, giurisdizionalmente tutelabili.
Di qui, la non congruenza o, se lo si voglia, improprietà, col richiamo all’istituto dell’”immemoriale”.

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Sereno Scolaro

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