I sepolcri e la questione femminile – 1/2

Può sembrare argomento demodé, superato quanto meno dalla L. 19 maggio 1975, n. 151 e, prima – sia sotto il profilo cronologico e sia, maggiormente importante sotto il profilo del rango normativo) dalla Costituzione (esplicitamente con riferimento all’art. 3, ma non solo (es.: art. 29, comma 2) – riprendere il tema della questione femminile, in particolare per quanto ha riguardo al c.d. diritto di sepolcro o, altrimenti, al titolo sulla base del quale sussiste la condizione, personale, di appartenenza alla famiglia del concessionario, ai fini dell’accoglimento in un dato sepolcro privato nei cimiteri (art. 93 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.).
In realtà, non sempre è così, dal momento che possono ancora rinvenirsi, magari solo “tra le righe” (e, talora, anche esplicitamente), previsioni nei singoli Regolamenti comunali di polizia mortuaria in cui persistono approcci che lasciano trasparire concezioni della famiglia abbastanza retrò.
A maggiore ragione quando si considerino queste fonti normative, di rango secondario, vigenti nel passato. Ciò suggerisce una precisazione, una sorta di “premessa”, necessaria ed imprescindibile, consistente nel fatto che quando si citino formulazioni (anche se del passato), questi richiami non vanno considerati, letti come giudizi di valore, ma – unicamente – come indicatori di concezioni un tempo diffuse.

Alla base di tutto stanno concezioni della famiglia improntate ad una logica paternalistica, patriarcale: si pensi (prima della già citata L. 19 maggio 1975, n,. 151) la moglie non esercitava la patria potestà (poi, divenuta potestà genitoriale e, quindi, responsabilità genitoriale) sui figli (a prescindere dal genere), se non dopo la morte del marito o quando questi fosse lontano; oppure, la moglie non era erede del marito defunto, ma, con la morte di questi, assumeva una posizione di usufruttuaria rispetto ad alcuni beni compresi nell’asse ereditario; oppure, ancora, la moglie che avesse ricevuta (dalla famiglia di appartenenza pre-matrimoniale) una qualche dote, i beni totali erano attribuiti all’amministrazione del marito.
Non citiamo la lontana (soppressa nel 1923) autorizzazione maritale richiesta per porre in essere atti di straordinaria amministrazione, ma anche per svolgere altri funzioni (es.: far parte di organismi di pubblica assistenza o beneficienza); oppure, ancora, pensiamo alla questione del c.d. “cognome coniugale”.
Si tratta di esempi che, volutamente, afferiscono ad aspetti chiaramente distinti dall’appartenenza alla famiglia del concessionario del sepolcro, ai fini già enunciati, quelli dell’art. 93 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.

Va subito precisato che la questione femminile (o, se lo si voglia, il tema dell’appartenenza di genere) non coinvolge unicamente le “mogli”, tanto che, a volte, ci piace (scherzosamente, ritenendo che un sorriso sia sempre utile) porre la questione dubitativa se la suocera appartenga alla famiglia del concessionario, cosa che porta a dover prendere in considerazione non solo il rapporto giuridico di parentela, ma altresì quello, altrettanto rapporto giuridico, di affinità, con relative linee (ascendenti/discendenti e/o dirette/collaterali) e gradi (Art. 78, comma 2 C.C.).
Apparentemente, l’art. 29, comma 1 Cost. sembrerebbe fornire una qualche indicazione circa quale sia l’ambito della famiglia (La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.), se non ché difetta sia una definizione di famiglia, sia una definizione di matrimonio, mentre è la qualità/qualificazione di società naturale.
Certo vi sono orientamenti pregiudiziali, che tendono ad argomentare in modo diverso, traendone la conseguenza che questa norma pre-definisca sia la famiglia che il matrimonio.
Tuttavia, avendosi citata questa disposizione non si può sottrarsi dal richiamare altresì quella dello (stesso) art. 29 Cost., questa volta riferendosi al comma 2: “Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.”: se il principio sia quello dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, tuttavia è prevista una sua limitazione, se ed in quanto “a garanzia dell’unità familiare”, che per molto tempo ha costituito una remora ad una piena uguaglianza.
A volte verrebbe da pensare se non sia il caso di non parlare tanto di uguaglianza (Cfr. artt. 3 e 29 Cost.), né di parità, ma piuttosto di “indifferenza” dell’appartenenza di genere (non si fa cenno al concetto di “identità di genere”, poiché esso non sembra ancora essere patrimonio comune e condiviso nella società) rispetto a tutta una serie di situazioni giuridicamente rilevanti ….

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Sereno Scolaro

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