La Tangentopoli dei funerali, l’inchiesta passò col raggelante nome in codice «vendita del morto», ha avuto bisogno, in appello, di una sola ora di camera di consiglio di verifica. Una sentenza senza intoppi, con una minima differenza rispetto al processo di primo grado. Degli undici imputati di corruzione, solo due ne sono usciti fuori indenni, con in tasca l’assoluzione. Degli altri nove, la gran parte si è vista ribadita la condanna di primo grado a 23 mesi, alcuni hanno usufruito di lievi diminuzioni di pena fino a un anno e 8 mesi. Il presidente della seconda Corte d’appello Alfonso Marra ha così concluso l’ultima puntata del racket tangenti sul «caro estinto»: tra gli imputati figurano dipendenti del Comune di Milano addetti al servizio obitoriale e titolari di imprese funebri. Secondo il capo di imputazione, i primi avrebbero ricevuto somme varie di denaro per segnalare agli altri i decessi appena avvenuti e metterli sulla strada delle famiglie e contrattare il funerale. Dei sedici mandati a giudizio dal Gup Maria Grazia Moi, alcuni erano usciti dalla causa con il patteggiamento. Gli altri, giudicati con il rito ordinario, in tribunale erano stati condannati il 16 luglio dello scorso anno a 23 mesi di reclusione con la condizionale. Otto i dipendenti dell’obitorio comunale allora condannati di aver intascato bustarelle per favorire un ristretto gruppo d’imprese funebri, rappresentate da tre «procacciatori d’affari», anch’essi condannati. Un decennio di mazzette sui funerali, decennio interrotto soltanto dal blitz della primavera del 1997. Le ditte, secondo l’accusa confermata sia in primo che secondo grado, versavano da 50 a 300 mila lire per aver «immediata segnalazione» dei decessi e anticipare la concorrenza. Le bustarelle venivano raccolte in una «cassa comune», per essere poi divise fra i dipendenti corrotti dell’obitorio. Le imprese versavano le mazzette ogni giorno. Per passare ai corruttori le segnalazioni dei decessi, i dipendenti dell’obitorio lasciavano fogliettini in nascondigli concordati, come il «monitor della sala cremazioni» o «lo sportellino in alto dell’ascensore». Alcune delle imprese condannate erano le stesse già coinvolte nel giro che portò in carcere Mario Chiesa, il dirigente socialista del Pio Albergo Trivulzio prima «vittima» di mani pulite. Lo scandalo venne scoperto grazie alle denunce dei cittadini indignati dall’insistenza degli emissari delle pompe funebri che presentavano anche moduli con timbri del Comune.
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