Sviluppi definitori dei “resti mortali”

L’art. 36 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. considera, accanto alle ossa umane, gli altri resti mortali assimilabili, prevedendo che, per entrambi, il loro trasporto non sia soggetto a misure precauzionali igieniche stabilite per il trasporto delle salme.
Si ha qui una distinzione tra ossa e resti mortali, ma, per questi, vi è l’aggettivazione di “assimilabili”, che non trova alcuna definizione (esplicita), cioè non vi è indicazione rispetto a che vi sia questa assimilazione.
Ne sono seguite, nel tempo, interpretazioni, ma spesso incentrate unicamente sul termine di “resti mortali”, meno (o, nulla) sull’assimilabilità.

La definizione di resti mortali nella prima circolare
Il primo, in ordine di tempo, momento in cui si è proceduto sulla via di dare definizioni di “resti mortali” si è avuto con la circolare del Ministero della sanità n. 24 del 24 giugno 1993, con cui (Punto 15, periodi da sei a nove, in cui si legge:
Si premette che:
– per cadavere si intende: “il corpo umano rimasto privo delle funzioni cardiorespiratorie e cerebrale”.
Con lo stesso termine si indica “il corpo in decomposizione e fino alla completa mineralizzazione delle parti molli”;
– per resti mortali si intendono “gli esiti dei fenomeni cadaverici trasformativi”.

In verità, il tema era già stato affrontato, nella circolare esplicativa appena richiamata al Punto 8.1), ma senza darne definizione di sorta, nonché con un cenno al Punto 13, 2), quarto e quinto periodo (anche qui senza definizioni).

Riprendendo la definizione di “resti mortali” così enunciata nella circolare, si fa notare come si considerino i fenomeni cadaverici trasformativi (cioè, con maggiore dettaglio: i loro esiti), ma non si affronti del tutto di prendere in considerazione il fatto che questi fenomeni possono risultare effettivamente trasformativi, ma anche (come insegna l’esperienza) avere caratteristiche conservative.

La definizione di resti mortali nella seconda circolare
Successivamente il Ministero della sanità è ritornato sulla definizione con l’ulteriore circolare n. 10 del 31 luglio 1998, che non casualmente inizia proprio con questo tema.
Infatti, al n. 1) se ne fornisce una definizione, indicando che
Si definisce “resto mortale” il risultato della completa scheletrizzazione di un cadavere ovvero, per salme inumate, l’esito della trasformazione delle stesse allo scadere del turno almeno decennale di rotazione per effetto di mummificazione o saponificazione e, per salme tumulate, l’esito della trasformazione allo scadere di concessioni della durata di oltre venti anni per effetto di corificazione.”.
In questa seconda definizione emerge la questione, non di poco conto, del fatto che gli esiti dei fenomeni trasformativi possano risultare non (pienamente) trasformativi, ma presentino la caratteristica della conservatività.

Viene qui a doversi ricordare l’art. 86 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. dove (comma 5) si considera l’ipotesi della completa mineralizzazione, caso nel quale non trovano applicazione le misure dei precedenti commi 2 e ss..

La definizione di resti mortali con fonte regolamentare
La questione è stata ri-affrontata con norma regolamentare, cioè con il D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254 (che, incidentalmente, si ricorda sia stato emanato su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro della salute, in attuazione della L. 31 luglio 2002, n. 179, cioè esercitando la potestà regolamentare dello Stato nella materia di cui all’art. 117, comma 2, lett. s) Cost., materia che, per questo in quanto di competenza esclusiva, non è esercitabile dalle regioni, difettando, nel caso, quella delega ammessa dall’art. 117, comma 6, primo periodo Cost. (ma è avvenuto anche questo, come noto).
In questa sede, cioè con norma regolamentare, il contenuto definitorio si è avuto con l’art. 3, comma 1 D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254, che recita (se ne riporta altresì la rubrica):
Art. 3. Parti anatomiche riconoscibili e resti mortali derivanti da attività di esumazione ed estumulazione
1. Si definiscono:
a) parti anatomiche riconoscibili: gli arti inferiori, superiori, le parti di essi, di persona o di cadavere a cui sono stati amputati;
b) resti mortali: gli esiti dei fenomeni cadaverici trasformativi conservativi risultanti dalla incompleta scheletrizzazione di un cadavere per effetto di mummificazione, saponificazione, corificazione, decorso il periodo di ordinaria inumazione o tumulazione, pari, rispettivamente, a 10 e 20 anni.

Si va notare l’evoluzione, considerandosi ora – con norma regolamentare – l’ipotesi della conservatività, come elemento sostanziale della definizione di “resti mortali”.
Per completezza richiamiamo anche lo stesso art. 3, nei suoi commi 5 e 6 con cui si affrontano la sepoltura in cimitero, la cremazione, il trasporto sia in termini di competenze funzionali, territoriali e di documentazione presupposta.

Conseguenze e conclusioni
La prima conseguenza che si può trarre è quella per cui, una volta data – con norma regolamentare – una definizione di resti mortali, non possano più tenersi in conto le indicazioni temporalmente precedenti per l’elementare considerazione che le circolari non hanno, né possono assolverla, natura di fonte del diritto.
La seconda conseguenza è quella per cui gli effetti di conservatività dei fenomeni cadaverici trasformativi sono integrati dalla previsione di considerare un periodo temporale (10 oppure 20 anni, a seconda che vi sia stata inumazione o tumulazione), decorso il quale considerare la fattispecie.
Si tratta di un arco temporale non nuovo, essendo il medesimo termine presente nell’art. 3, comma 1, lett. g) L. 30 marzo 2001, n. 130, che, per altro, si discosta da quello esposto nell’art. 3, comma 1, lett. b) citato D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254 per il fatto – importante per le conseguenze che determina, anche sotto l’aspetto dei procedimenti autorizzatori – di non prendere minimamente in considerazione se, decorso il termine differenziato a seconda della pratica funeraria antecedente, vi sia una qualche “completa mineralizzazione”, oppure risultino elementi di “conservazione” negli esiti dei fenomeni cadaverici trasformativi.
In altre parole, questa disposizione prescinde dallo stato in cui si trovino le spoglie mortali decorso il termine temporale indicato.

Per altro, queste due disposizioni hanno indotto, in alcuni contesti, a ritenere che una volta decorso il termine (come sopra individuato) vi sia una sorta di presunzione di avvenuto completamento dei processi cadaverici trasformativi, presunzione che non può argomentarsi (ma vi sono anche posizioni affette da superficialità e non conoscenza di quanto in realtà si registra sotto il profilo fattuale), impostazione che è contraddetta, esplicitamente per la pratica funeraria dell’inumazione, dall’art. 82, commi 2 e 3 e, altrettanto esplicitamente per la pratica funeraria della tumulazione, dal già citato art. 86, commi da 2 a 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.

In questo percorso di evoluzione delle linee interpretative sul contenuto oggettivo del concesso di “resti mortali”, conclusosi con norma regolamentare, non possono ignorarsi come, qui o là, corrano anche altre impostazioni, come è il caso di norme a valenza territorialmente localizzata, che sono pervenute all’invenzione di ulteriori terminologie, in particolare quella di resti ossei, che non trova riscontro in norme, siano esse di rango primaio o di rango secondario, nazionali, ma che sembrano risentire una sorta di tabù linguistico, come non fosse “elegante” parlare, molto semplicemente, di quello di cui si tratta: le ossa (Cfr.: art. 85, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.) o, se proprio si voglia, di ossa umane (art. 36, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.).
Ricorrere a termini ulteriori alimenta la difficoltà di interpretazione. Il che porta a considerare come in questi percorsi non sia stata affrontata la questione posta all’inizio, cioè a che cosa siano assimilabili i resti mortali nell’art. 36, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., questione che forse potrebbe trovare una soluzione semplice (le soluzioni semplici sono sempre le migliori), cioè che si tratti di assimilazione alle ossa umane, limitatamente ai fini dell’applicazione o meno delle misure precauzionali igieniche per il loro trasporto.

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Sereno Scolaro

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