Macabro post moderno

Un’iconografia davvero particolareggiata, avvolta nella tenebra dell’inconscio, ed apertamente ispirata all’opera visionaria dello scrittore H.P. Lovecraft assieme alle avanguardie di uno stile pittorico travagliato ed irrazionale, tipiche della belle epoque, cioè verso la fine del XIX secolo, sono il codice artistico che c’introduce all’opera dei fotografi e dei maestri più audaci, esponenti del filone macabro post moderno.
Tra le anime più sensibili, di quest’orizzonte crepuscolare, possiamo senza dubbio riconoscere il fotografo francese Eric Keller.
Egli si sente indelebilmente segnato dall’atmosfera così suggestiva e maledettamente magica della sua città natale, Dunkerque.
La cupa tristezza del suo porto, dove non si può ravvisare alcun barlume o riverbero di luce, se non ai margini della spiaggia arida e grigia, traspira dallo stile della sua produzione.

Qualche esposizione indovinata nelle mostre che contano, magari vagando per la Francia, assieme ad alcune fortunate pubblicazioni delle proprie foto, apparse in qualche raccolta antologica, hanno contribuito al successo di uno stile, artistico ed insieme esistenziale , accreditando questi autori presso il grande pubblico come nuovi sacerdoti di un gusto lugubre che predilige scenari malinconici ed ambienti crepuscolari, attraversati dai riflessi bui di inquietanti presenze.
Siccome si rapporta in maniera osmotica con il movimento novecentesco del pittorialismo, la poesia visiva del macabro post moderno declina ed esibisce tutte le possibilità grafiche nascoste nella più ardita articolazione plastica di cui il corpo umano nei propri movimenti sia capace.
I suoi soggetti, spesso, sono ritratti solo in discinte vesti da cui promana la bellezza statuaria delle membra spoglie e si tingono d’onirismo, in una fantastica ascensione irrazionale verso la bellezza pura delle forme umane.
Questo linguaggio visivo è permeato da una particolare venatura espressiva, grazie alle evidenti simmetrie con l’eros barocco di Witkins, o ancora, con la produzione intensissima di Jan Saudek.

Il culto artistico verso la morte ed il postumo gioca con i volumi e crea fittizie distanze, sovrapponendo tra loro gli oggetti, attraverso coraggiose disposizioni delle masse fisiche nella fittizia profondità delle superfici lineari di una foto o di una tela.
L’artista esperisce tutti i canoni della sua trasgressiva semantica, così intuitiva ed ermetica, mentre ricorre a diversi materiali e differenti tecniche di realizzazione per ampliare ulteriormente la ricchezza di significati delle immagini da lui riprodotte.
Questi spregiudicati artisti si collocano idealmente tra Bosch, Durer ed il simbolismo di Moreau perché i loro lavori ricamano sulle pagine delle nostre sensazioni uno tra gli universi iconografici più originali, nel contesto dell’arte mondiale contemporanea.
Per Keller le sue interminabili sedute dietro la macchina fotografica si traducono in una cerimonia, perchè sono composte di gesti ed atti rituali, cristallizzati nella loro meccanica sacralità, assieme ai soliti paesaggi e sfondi in cui domina il buio, un’oscurità dilatata come una sorta di teatro vuoto in cui s’aggirano ombre glaciali e fantasmi in cerca d’anime.

Durante lo sviluppo in camera oscura, con l’arte stregata di un alchimista che evoca gli spiriti dell’oltremondo, con improbabili pozioni ed elisir, egli manipola il negativo, con diabolica precisione, ed interviene pesantemente sul ritmico modellarsi delle immagini e della luce attorno ai volumi.
Come una citazione obbligata del neo pittorialismo i suoi ritratti vaporosi ed evanescenti offrono una distanza certa, marcata tra lo spettatore ed il soggetto.
Gratta il negativo, gli giustappone un fitto tratteggio per esaltare l’effetto chiaroscurale, o ancora, trasforma lo sfondo della carta in una superficie dalla tonalità buia, come nero di seppia, per poi completarlo con una trama color ruggine.
Dallo scatto sino allo sviluppo il lavoro sull’immagine ancora latente è una reale trasposizione di percezioni emotive e sentimenti, grazie al sapiente dosaggio della luce sulla pellicola fotosensibile.
Con quest’infinito giuoco di momenti luminosi, che si alternano a spazi d’angosciante oscurità, l’artista plasma il reale, mentre disegna contorni, nell’articolarsi dei piani secondo le tre dimensioni.

Per Keller lo strumento della fotografia è un media, ossia un supporto tangibile su cui imprimere, grazie ai segni certi di un alfabeto universale, il lato onirico e profondamente idealizzato dell’esistenza umana.
Ottenere una bell’immagine, non solo sul versante meramente estetico, ma anche sotto l’aspetto di un simbolismo profondo, quasi mistico, è per lui un percorso artistico e morale, da vivere nel tumultuoso rincorrersi di momenti felici e circostanze dolorose.
Si tratta di scandagliare il proprio ego più remoto e viscerale, con il contributo delle arti figurative, e di rappresentarlo, cristallizzando quell’istinto di cieca sopravvivenza presente nel cuore d’ogni uomo in una forma comprensibile per l’intelletto.
Questa poesia visiva è una liturgia della coscienza che permette di figurarsi, ma soprattutto di rammentarsi l’essenza stessa dell’esistere e del suo malinconico svanire nel tempo grazie all’interposizione di una corpo nimbato di significati allegorici ed immerso nelle profondità semantiche di un simbolismo mistico e trascendente.

Il mondo è intriso di una ricchezza simbolica di sogni e visioni che non potrà mai trasparire completamente nelle sole arti iconografiche. L’immagine, però, con il suo fascino, permette di immortalare la fisicità come prima e pura manifestazione della persona umana nel ciclo della vita terrena.
Sublime esempio di arte concettuale queste opere ricorrono ad una complessa antologia di segni e significati, interpretati come ricchi arabeschi, che esprimono una precisa idea sulla collocazione del corpo umano e della sua identità nelle dinamiche post moderne dove la natura è letta in contrapposizione alla cultura ufficiale, ed il mondo selvaggio diventa alternativa di sistema rispetto alla civiltà urbana.
Insomma, la fotografia di questi giovani artisti ci propone una dimensione fantastica che s’interroga su sogni, aspirazioni e derive paranoiche del nostro vivere sociale e politico in un contesto destrutturato, come, appunto, accade per il mondo occidentale dove, nel dilagare di tecnologie sempre più sofisticate, l’intimità, soprattutto del corpo femminile, è banalizzata in un volgare vortice di richiami osceni e mercantili, mentre la morte viene rifuggita con orrore o, addirittura, è paludata dietro formule e pretesti sdolcinati per paura di un confronto limpido e sereno con il drammatico capitolo conclusivo della nostra stessa esistenza.

 

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