Contenziosi tra parenti, di diverso grado, in materia di cremazione

Il fatto
In una data realtà è deceduta una persona (accade un po’ dovunque) che aveva un’unica/o figlia/o (cioè, parente in linea retta discendente di 1° grado), la/il quale, in applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 3) L. 30 marzo 2001, n. 130, provvede a rendere, nelle dovute forme, all’Ufficiale dello stato civile la manifestazione della volontà alla cremazione della persona defunta, con la conseguenza che viene formata l’autorizzazione alla cremazione e il feretro perviene all’impianto di cremazione per l’esecuzione della cremazione.
Per inciso, la legge regionale del luogo fa rinvio, per questi aspetti, alla L. 30 marzo 2001, n. 130 (né potrebbe essere diversamente).
A questo punto, all’impianto di cremazione (e, sembrerebbe, anche all’Ufficiale dello stato civile che ha rilasciato l’autorizzazione alla cremazione) perviene comunicazione di posta elettronica da parte di un avvocato, incaricato da nipote della persona defunta (e figlia/o dell’unica/o figlia/o che ha reso la manifestazione di volontà, cioè, parente in linea retta discendente di 2° grado), con cui si ingiunge di non procedere alla cremazione, in quanto tale nipote affermerebbe che la persona defunta non voleva minimamente essere cremata.

Che fare?
La direzione dell’impianto di cremazione, in via del tutto prudenziale, non procede alla cremazione secondo la propria programmazione, per cui le singole cremazioni sono eseguite secondo l’ordine di conferimento dei feretri, ma prende contatto con l’Ufficiale dello stato civile, che riferisce di avere già provveduto a riscontrare all’intervento dell’avvocato precisando che il rilascio dell’autorizzazione alla cremazione è avvenuto nel pieno rispetto, anche letterale, delle disposizioni di legge in materia e che, conseguentemente, non vi sono le condizioni per una qualche (pretesa) riforma dell’autorizzazione già rilasciata, anche alla luce del fatto che la nipote della persona defunta non ha titolo, in quanto non riveste la posizione di parente più prossimo.

Non si entra qui nel merito se, nel caso in cui trovi applicazione l’art. 3, comma 1, lett. b), n. 3) L. 30 marzo 2001, n. 130, la volontà sia quella del “parente più prossimo” (nella fattispecie) o quella della “persona defunta” (anche se “rappresentata” da altri soggetti legittimati), essendovi linee interpretative disomogenee, alcune delle quali assumono ad argomento la circolare telegrafica del Ministero dell’interno n. 37 del 1° settembre 2004 (che non va oltre al riportare un’opinione del Dipartimento per la funzione pubblica), altre che si fondano sulla norma legislativa, la quale parla, come del resto già faceva l’art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., di volontà del …, non riferendosi alla persona defunta, bensì ai familiari di questa.
Ricordando come la questione sia sorta, non si può evitare di tenere presente come la norma legislativa parli di “processo verbale” che è tutt’altro che una dichiarazione di conoscenza.

Quello che lascia perplessi sulle modalità d’intervento dell’avvocato è il fatto che si sia rivolto, ingiungendo (sic!) all’impianto di cremazione di non provvedere, con le modalità già viste che, per quanto possano riconoscersi di rivestire la forma scritta, non tengono conto di come l’ordinamento giuridico consentirebbe alla nipote di richiedere, con ricorso, al giudice l’emissione di provvedimenti di urgenza che possano consentire di prevenire un pregiudizio imminente ed irreparabile, essendo la cremazione indubbiamente un trattamento irreversibile, avvalendosi di quanto dispone l’art. 700 C.P.C. Va osservato che le posizioni delle persone qui co-interessate, una quale parente di 1° grado e l’altro quale parente di 2° grado, così come la posizione della persona defunta afferiscono a diritti soggettivi, aventi carattere personalissimo, cosa che porta a dover riconoscere la sussistenza della giurisdizione ordinaria, in sede civile, diritti la cui (eventuale) tutela non può aversi, in situazioni di contenzioso, eludendo la giurisdizione.

Non solo, ma, ottenuta la comunicazione dell’Ufficiale dello stato civile secondo la quale il rilascio dell’autorizzazione alla cremazione era avvenuta nel pieno rispetto delle disposizioni di legge, l’avvocato si è rivolto al Prefetto-Direttore dell’Ufficio territoriale del Governo, quale organo di vigilanza sugli uffici dello stato civile (art. 9, comma 2 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.), vigilanza che non attribuisce un qualche potere sostitutivo, non tenendo conto che le attribuzioni di competenze, funzionale, all’Ufficiale dello stato civile poste dall’art. 3 L. 30 marzo 2001, n. 130 non attengono al servizio dello stato civile, bensì operano, per previsione di questa legge, nel campo degli istituti che regolano la cremazione e la dispersione delle ceneri (art. 1 Legge citata).
Più senso avrebbe se fosse stato fatto richiamo, ed applicazione, pertinente ed appropriato all’art. 95 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m., cosa che avrebbe richiesto l’intervento del tribunale, e quindi avendosi anche le condizioni di applicabilità dell’art. 700 C.P.C.
In una situazione quale quella descritta l’impianto di cremazione non si trova in una posizione che gli consenta di “decidere” se dare esecuzione alla cremazione quale autorizzata (e in presenza di regolare e completa documentazione), oppure di non darvi esecuzione, non avendo, per la propria posizione, alcuna titolarità che lo ponga nella condizione di assumere una qualche “decisione”, in un senso od in altro.

Al più, almeno nella fase iniziale, potrebbe adottare un atteggiamento di natura cautelare e prudenziale che importi una qualche “sospensione” nell’esecuzione della cremazione, fino a che il contenzioso così irritualmente apertosi, non trovi una qualche sua definizione.
Ma da ciò consegue anche la netta irritualità del fatto che l’avvocato si sia rapportato con l’impianto di cremazione e non – esclusivamente – con l’Ufficiale dello stato civile.
Qui occorre anche dire che l’impianto di cremazione non potrebbe mancare di far conoscere all’avvocato che ogni suo intervento non può che avere quale destinatario se non solamente l’Ufficiale dello stato civile che ha rilasciato l’autorizzazione alla cremazione.
Anzi, la direzione dell’impianto di cremazione, astrattamente, potrebbe anche porsi altra questione, cioè se possa essere chiamato a rispondere, magari anche in termini di responsabilità civile, della mancata esecuzione della cremazione già debitamente autorizzata, se non anche di responsabilità penale, considerando la fattispecie dell’interruzione di un pubblico servizio.
Sotto questi ultimi profili, appare sufficientemente chiaro che si tratterebbe di timori infondati, quando un’eventuale “sospensione” sia motivata dall’esigenza che si giunga ad una definizione del contenzioso sorto e doverosamente comunicata, in forma scritta, all’Ufficiale dello stato civile che ha rilasciato l’autorizzazione alla cremazione, richiedendo contestualmente di far conoscere le determinazioni che eventualmente siano assunte, in un senso o nell’altro, oppure l’esito di un qualche giudizio (incluso quello ex art. 700 C.P.C., che presumibilmente porterebbe a dover attendere un successivo giudizio di merito).

Viene da formulare una ipotesi maliziosa, cioè che l’avvocato non abbia fatto ricorso all’art. 700 C.P.C., avendo ben colto che nel contenzioso sorto tra parente di 1° grado e parente di 2° grado risulti indiscutibile quale tra questi sia parente più prossimo.
A titolo di memoria, si potrebbe anche fare cenno alla sentenza del T.A.R. Veneto, Sez. I, 21 giugno 2013, n. 884, anche se (sia permesso osservarlo …) questa sollevi dubbi sulla competenza del giudice amministrativo, dato che, vertendosi in materia di diritti soggettivi, si propenderebbe per l’individuazione di una competenza del giudice ordinario.

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Sereno Scolaro

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