Di seguito si riporta l’estratto integrale della prolusione del cardinale Bagnasco, Presidente della CEI, all’apertura dell’Assemblea della CEI che si tiene da oggi 9 novembre 2009 ad Assisi. Vi si affronta il tema della morte e il ruolo dei cimiteri.
5. Una delle situazioni nelle quali un sacerdote in cura d’anime maggiormente vive l’afflato missionario è quella che riguarda la morte di qualche componente la comunità cristiana, evento ricorrente nella dinamica di una vita parrocchiale. Non a caso noi Vescovi stiamo sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie con l’intendimento di volerne esplicitare le virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù dinanzi al mistero della morte (cfr Gv 11,23-26). Questo mese di novembre, poi, è contrassegnato proprio dalla memoria per i fedeli defunti. L’Ottavario dei Morti, connesso con la Commemorazione dei Fedeli defunti, in calendario per il giorno 2 novembre, all’indomani cioè della Solennità di Tutti i Santi, resiste come formula tutt’altro che superata non solo per una preghiera più intensa, ma anche per una catechesi meglio centrata sull’esito finale della vita umana. Mi pare infatti che oggi sia diffusa la consapevolezza dell’urgenza di aiutare i nostri fratelli a pensare in maniera meno evasiva alla prospettiva dell’appuntamento con la morte come di una tappa non estirpabile dall’orizzonte concreto, comunque incombente sulla vita di ciascuno. E come la frequentazione di ambienti ospedalieri potrebbe talora rivelarsi quanto di più educativo per interiorizzare la fragilità connessa alla vita, così la capacità di vivere l’appuntamento con "sorella morte", allorché essa si materializza di fianco a noi, è un segno di intelligenza e un modo prezioso per imparare a vivere davvero. Capita sovente di trovarci a riflettere sulla tendenza a considerare privatisticamente anche l’esperienza della morte. L’individualismo, che è cifra marcata di questa post-modernità, raggiunge ai limiti della vita una delle sue esasperazioni più impressionanti. Anche quando la maschera della morte scende sul volto dei propri cari, dunque si fa più prossima e meno facilmente evitabile, anche allora non di rado si tende a rimuovere l’evento, a scantonarlo, a scongiurare ogni coinvolgimento. Il fenomeno determina la pratica sparizione dell’esperienza della morte e di ogni suo simulacro dalla scena della vita. Va da sé che la comunità cristiana non possa avallare una tale cultura così irreale: nascondere la morte e dimenticare l’anima non rende più allegra la vita, in genere la rende solo più superficiale. Contribuire, per la nostra parte, a mimetizzare la morte, affinché il suo pensiero non turbi, significa favorire anche pastoralmente un approccio scandito per lo più dalla fretta e dal formalismo. Invece, una perdita drammatica può essere l’occasione per lasciar emergere interrogativi, per costringere i protagonisti ad addentrarsi nei meandri scomodi del mistero, a sperimentare la crisi delle proprie certezze e delle proprie esuberanze, a meditare sulla possibilità di dare un’impronta diversa al resto della propria esistenza. Certo, occorre la prontezza e l’abilità di saper porre rimedio alle immagini imprecise con cui talora viene immaginato Dio, di raddrizzare le imputazioni di cui lo si carica a spiegazione dell’imponderabile. Sono i momenti nei quali ci si rende conto di una certa insufficienza catechistica, e anche dell’influenza di talune visioni spurie o paganeggianti. L’annuncio del Dio vero, amante della vita, che non fa scherzi macabri, il richiamo che con la morte la vita non è tolta ma trasformata, e che chi è vocato all’altra sponda non ci viene sottratto ma resta a noi più vicino di prima e ci attende: ecco ciò di cui c’è bisogno, in una cultura che progressivamente sembra slittare verso forme post-cristiane: "Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza: le creature del mondo sono sane, in esse non c’è il veleno della morte" (Sap 1,13). Ma questo implica pure che nella pastorale ordinaria noi riusciamo a far passare l’idea che comportarsi bene non è di per sé una garanzia contro il dolore e la morte. Gesù ha imparato "l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto" (Eb 5,8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Infatti, per stare in mezzo ai figli dell’uomo, il Dio cristiano ha scelto la via del Figlio prediletto che si incarna nella povertà e muore in croce, lui il Giusto per gli ingiusti: questo è il paradigma che spiega e salva. "Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo" (Sap 2, 23-24); questi infatti è "omicida fin dall’inizio" (Gv 8,44). A partire da qui, con l’aiuto indispensabile della Parola e dei Sacramenti, noi abbiamo la possibilità di veder trasformati il lutto e la sofferenza in una visione più realistica e autentica dell’esistenza, fino ad intravedere la paternità di Dio e la sua misteriosa provvidenza, a sperimentare mediante un itinerario anche accelerato – quale la morte talora induce a compiere – la grazia nella disgrazia. Ma per questo ci vogliono pastori pronti e non evasivi, comunità cristiane vive, reattive, affettivamente coinvolgenti, che non tacciono sull’interezza del disegno che Dio va dispiegando. Morte, giudizio, inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli. Rappresentano invece il traguardo da lumeggiare con la Parola risanatrice di Dio, senza fatalismi o sotterfugi scaramantici. Sono tappe di una vita che va oltre la morte (cfr 2Cor 4,14) e sfocia nella vita eterna. Ciò che saremo non sappiamo descriverlo, ma esiste. "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano" (1Cor 2,9). Ecco l’annuncio sconvolgente: "Dov’è o morte il tuo pungiglione?" (1Cor 15,55; anche Is 25,8 e Os 13,14); e soprattutto: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43). Ogni dolore nasconde il mistero di un dono, di una medicazione benefica, di una risurrezione. L’idea che la vita sia solo capriccio, solo giovinezza, solo sciupio di salute e di risorse, solo benessere gaio e spensierato, è falsa e assurda anzitutto nell’ottica della storia e della scienza. Dobbiamo bonificare l’immagine della vita per imparare a godere realmente della stessa. Dobbiamo imparare ad invecchiare, per saper contare i giorni e apprezzare i doni, e per non sprecare né gli uni né gli altri (cfr Sal 90,12). Dobbiamo includere anche il camposanto tra i luoghi cari alla famiglia e alla comunità. Saper visitare il cimitero – il luogo dei "dormienti" in attesa della resurrezione finale ? e lì pregare, è un modo per bandire il macabro e per esorcizzare il troppo demonismo della nostra cultura. Le nostre parrocchie abbiano sempre il cimitero nel perimetro della loro pastorale ordinaria, in modo che questo non sia un’area separata e ghettizzata, cui rivolgersi una volta l’anno, ma spazio della vita così concretamente trascendente da non affievolirsi mai, santuario della memoria che ci fa vivamente umani, ponte che unisce la comunità cristiana con la comunione dei suoi Santi già presso Dio. Una realtà ? quest’ultima ? "che infonde una dimensione diversa a tutta la nostra vita" (Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 novembre 2009).
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