Questioni d’affinità

L’art. 93, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. non definisce per nulla quali siano, o possano essere, le persone familiari del concessionario ai fini della titolarità ad essere accolti in un sepolcro di famiglia. Ora, senza approfondire oltre tale qualificazione quando conseguente a vincolo di matrimonio (od istituto che ne produca effetti consimili), oppure a vincoli di parentela (dove il primo prevale sui secondi), qualche approfondimento merita il rapporto giuridico di affinità, in particolare per il fatto che, spesso nel linguaggio comune, possono aversi fraintendimenti in termini di estensione a persone che affini non sono.

Per una maggiore chiarezza espositiva si ritiene utile ricordare, riportandola, la disposizione dell’art. 78 C.C.:
Art. 78. (Affinità).
[I] L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge.
[II] Nella linea e nel grado in cui taluno è parente d’uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge.
[III] L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati. Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4.
Il suo comma 2 fornisce un criterio di “calcolo” per linee (ascendenti o discendenti, rette o collaterali), nonché per grado (e, incidentalmente, richiamiamo la previsione dell’art. 74, 2° periodo C.C. per il quale è statuito che non sorga il vincolo di parentela in date situazioni, che indichiamo al plurale per il fatto che, accanto all’adozione di persone maggiori di età, vi sono altri istituti adottivi che producono i medesimi effetti).
Tuttavia, la sostanza del rapporto di affinità è data dalla formulazione del comma 1, cioè dal rapporto giuridico (correttamente qualificato quale vincolo) tra coniuge e parenti dell’altro coniuge.

Proviamo a rappresentare questa situazione ricorrendo a qualche “schemino”: si abbia una MG (= moglie) e un MT (= marito), trascurando per ragioni di semplicità il caso considerato dall’art. 1, comma 20 L. 20 maggio 2016, n. 76, caso che produce anch’esso gli effetti dell’affinità), i quali possono avere ciascuno proprie SR (= sorelle) e FT (= fratelli).
Questi ultimi sono affini della/del coniuge, in relazione a quale dei due sia parente in linea collaterale di 2° grado (cioè, SR o FT).
Ma questo importa anche effetti sia “a monte”, sia “a valle”, come quelli che si hanno nei confronti dei genitori della coppia MG/MT, oppure dei figli della stessa coppia, figli che individuano SR o FT come “zie/zii” (parenti in linea collaterale di 3° grado).
In precedenza è stato fugacemente fanno cenno al linguaggio comune, che a questo punto può essere meglio definito.
Infatti, quando SR e/o FT siano a loro volta coniugati, i loro coniugi vengono considerati, nel linguaggio comune, “come se fossero” affini – per cui i FG (= figlie/i) della coppia MG/MT li chiamano, indistintamente, “zie/zii” – e, MG/MT li chiamano, indistintamente, “cognate/cognati”.
Non affrontiamo, per brevità, i rapporti con i genitori di MG/ MT. Il fatto che i coniugi degli affini non siano a loro volta affini, porta ad effetti particolari in sede dell’applicazione dell’art. 93, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., cui non sempre si tiene conto in sede di definizione dei “familiari” del concessionario ai fini del sorgere del diritto d’uso del sepolcro, anche se non mancano casi in cui il Regolamento comunale di polizia mortuaria, nel determinare questa definizione possa regolare queste posizioni in un senso od in altro.
E ciò senza entrare minimamente nel merito di quale scelta venga fatta, anche se talora si possano notare, qui o là, formulazioni che possono indurre a pensare che non vi siano state scelte, ma impostazioni rispetto a cui non si siano valutati gli effetti che ne possano conseguire.

Il fatto che all’art. 78, comma 3, secondo periodo C.C. faccia un rinvio all’art. 87, comma 1, n. 4) C.C., cioè alla norma che individua “divieti” matrimoniali in relazione agli istituti della parentela, dell’affinità e dell’adozione suggerisce di tenere conto anche di questi aspetti e, per rimanere nell’ambito già affrontato, oltre al già citato n. 4), si valuti anche i n. 3), n. 5) e numeri da 6) a 9).
Si tratta di formulazioni che, come quelle afferenti alle disposizioni del Regolamento comunale di polizia mortuaria di definizione della qualità di “familiari” del concessionario, vanno sempre valutate nel loro significato proprio, giuridicamente parlando.
Anche se, come già visto, il Regolamento comunale di polizia mortuaria possa adottare formulazioni che portino a risultati di maggiore estensione.
Quello che è importante è che si operino “scelte” di cui siano conosciuti gli effetti di ricorrere ad una formulazione testuale piuttosto che ad altra.
Non sempre questa conoscenza degli effetti sembra essere stata presente, come nella formulazione: “il sepolcro … destinato ad accogliere le salme, i resti o le ceneri del fondatore stesso, degli ascendenti, del coniuge, dei discendenti e dei loro coniugi; sono esclusi i collaterali, anche se fratelli del fondatore, salvo che, utilizzando questa formula testuale, non si pensasse a chissà quale altra fattispecie.
Infatti, rimane poco, o nulla, comprensibile l’esclusione dei collaterali, che pur sempre sono “parenti”. E gli affini?
In questa formula gli affini, per quanto non nominati con questo termine, rientrano dalla finestra, quando si parla di “loro coniugi” dei discendenti.
Malignità finale (in cauda venenum): anche i “loro coniugi” degli ascendenti?
In altre parole, è essenziale che si valutino gli effetti che conseguano all’uso di una data formulazione del testo, possibilmente coordinata con la durata e la capienza del sepolcro.
Non occorrono “esperti” per fare le cose bene, ma solo un po’ di buon senso e di raziocinio, pensando a quanto si fa e agli effetti che ne conseguano.

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Sereno Scolaro

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