La terra dei morti: una landa popolata da spettri

Nell’Europa cristiana, intorno all’anno mille, i cadaveri venivano malamente ammassati in gran numero entro approssimate fosse carnaie, a causa soprattutto della scarsità di campi adibiti ad inumazione rispetto al consistente numero di decessi.
L’enorme, dilagante quantità di materiale organico guasto, anche negli strati più superficiali del terreno provocava un’insufficiente capacità depurativa del suolo.
Così, dalle zolle smosse e dai cumuli di terra, si sprigionavano facilmente fetide esalazioni maleodoranti e pungenti miasmi, che ammorbavano l’aria, anche a grandi distanze dal sacro recinto.
Questi nauseabondi composti aeriformi, prodotti dalla putrefazione, erano costituiti da gas fortemente accensibili, che creavano il sinistro effetto dei fuochi fatui, visibili soprattutto di notte.
A simili, inquietanti fenomeni la fantasia popolare ha sempre attribuito significati magici ed occulti.
L’alto medioevo dovette, allora, affrontare la spinosa questione dell’imbarazzante presenza dei morti nelle terre dei vivi, siccome gli afflati emotivi e più mistici della religione non erano certo indifferenti ad morboso fascino decadente che la morte, in tutta la sua tragicità, esprime.
Il cristianesimo celava in sé un intimo paradosso difficilmente spiegabile: l’elaborazione dottrinale della fede in un Dio che si era fatto carne e storia nella persona del Cristo approdava a precetti tanto rigidi quanto contraddittori.
Si celebrava, infatti, l’incarnazione del Verbo, ma allo stesso tempo la Chiesa rifuggiva ogni rappresentazione fisica e materiale dell’uomo, in quanto gravato dal peccato e dall’abietta corruzione degli istinti. Il cadavere era allora il più drammatico segno di questo dilacerante dualismo tra l’anima e la carne. La salma era sì “caro data verminibus”, ovvero una carcassa gettata ai vermi, ma, come tempio dello Spirito Santo, un giorno sarebbe resuscitata, ed era quindi degna di grande attenzione.

I defunti, dunque, terminato il rito delle esequie, erano, de facto, affidati al grembo di pietra della cappella cimiteriale, intesa come reale arca di salvezza. Avvolti solo in un lenzuolo, venivano deposti, tralasciando di indicare con un cippo oppure una lapide la sepoltura, ad sanctos, vale a dire presso gli avelli dei Santi e dei martiri, perché potessero partecipare della loro gloria nel radioso Giorno della Resurrezione.
Questa pratica tradiva una teoria escatologica stranamente ottimistica ed ingenua per un periodo così travagliato da frequenti carestie e disordini politici. Nel corso dei secoli, infatti, tale concezione subì profondi mutamenti, siccome il clero si orientò sempre più verso il registro del terrore per ammonire con immagini violente, come la ricorrente minaccia delle gore infernali, i fedeli distratti dalle gioie terrene..
Prima di questa torsione macabra della Chiesa si riteneva, infatti, che la “parusia”, ossia la seconda venuta del Signore sulle nubi del cielo non avrebbe comportato il raccapricciante Dies irae, ossia il giorno del terribile giudizio divino, quando il mondo, come recita la straordinaria Sequentia della Messa da requiem, si sarebbe dissolto tra scintille e strida nell’eterna rovina.
Nessun giudice, dunque, né la dannazione tra le fauci dei demoni.
I morti che riposavano tra le sacre mura inviolabili di una chiesa, custode dei loro corpi, si sarebbero svegliati dal sonno della pace per entrare nelle celeste Gerusalemme.
I peccatori ed i reietti, invece, che non si erano addormentati nell’abbraccio del sacro edificio, non sarebbero sopravvissuti, si sarebbero smarriti in un luogo di oblio e buio senza fine, un’angosciante zona di non essere.
La chiesa assumeva così la funzione di fortezza e riparo per preservare i cristiani ed i propri morti dalle lusinghe del male.

La legislazione civile, dove si vietava la costruzione di cimiteri all’interno delle mura cittadine, ben presto decadde perché la presenza di sacelli benedetti dove giacevano le spoglie dei Beati inevitabilmente attirava nuove sepolture. La differenza tra la pieve cimiteriale e la basilica era sostanzialmente annullata, la stessa cattedrale si prestava ad accogliere i morti che prima avevano invaso solo i sobborghi ed i quartieri più periferici.
Ormai chiesa e sepolcreto si sovrapponevano, realizzando nello spazio reale dell’urbanistica il dogma della comunione dei santi: il piano terreno ed il regno oltremondano si intersecavano in una mirabile armonia, influenzandosi reciprocamente con un linguaggio misterioso, grazie alle sacre reliquie ed alle tombe dei martiri, capaci di prodigi e fonti di miracolosi eventi.
La tipologia costruttiva “ad atrium” del cimitero prevedeva alte mura di cinta, di cui un lato addossato alla chiesa, dove ampie arcate perimetrali avrebbero accolto le umili fosse comuni.
Organizzare uno spazio secondo precise linee, misurandone sapientemente i volumi e le ritmiche ripartizioni dei moduli costruttivi, in modo che le architetture traducano realtà sublimi ed ineffabili dimensioni dello spirito, non è mai un atto casuale o politicamente neutro. Al contrario è sempre un’operazione massimamente sottesa da una precisa ideologia, in grado di permeare con i suoi valori rutto il progetto.

L’epoca medioevale, infatti, è pervasa da una ben precisa concezione algebrica dell’ordine universale. L’arte e quindi l’architettura debbono sempre trasmettere un messaggio didascalico sulle verità rivelate nei sacri testi.
Ogni opera è sempre improntata a questa esigenza: raffigurare con i miseri mezzi umani la grandiosità e lo splendore adamantino del paradiso.
Guglie e pinnacoli, allora, testimoniano una potente volontà di elevazione, l’imponenza della navata centrale che con i suoi esili paramenti murari si slancia verso l’alto, mostrando la fitta trama di pilastri e nervature deve comunicare la vertigine e l’estasi.
Nell’immaginario collettivo dell’epoca, invece, il cimitero ricopre una posizione più ambigua, la sua “funerea campagna” (Foscolo) con la disordinata distesa di anonimi tumuli e lastre ormai logore non esprime nessuna speranza di redenzione, è solo lo specchio della drammatica condizione cui l’uomo è condannato.
La città dei morti sorgeva sì su terra consacrata, ma conservava un aspetto nefasto, quasi che il maligno vi esercitasse il proprio dominio, trasformandola in un tempio di putredine e distruzione.
Nella sua battaglia contro le potenze infernali la Chiesa cercherà sempre con preci e benedizioni di sottrarre a Satana il controllo del cimitero, dove, secondo la tradizione popolare, si riunivano le streghe per invocare con orridi riti il Principe delle tenebre.
Il camposanto allora conservava questa infida doppiezza, conteso da Satana, era un passaggio dimensionale verso l’Aldilà, luogo, quindi, favorevole per compiere sortilegi ed evocare le anime maledette.
Entro il suo recinto le barriere del mondo reale perdevano significato, si diceva, infatti, che nel cimitero avvenissero episodi oscuri capaci di infrangere la struttura essenzialmente logica ed ordinata che regge da sempre l’universo.

Proprio da questi racconti trae origine la leggenda dei revenants, cadaveri, spinti da impulsi malefici, che, di notte, avrebbero abbandonato la tomba per vagare nelle strade del villaggio in cerca di vittime da trascinare nel buio della loro fossa.
La naturale evoluzione di questo filone della letteratura popolare fu il tema de “La danza macabra”.
Nelle prime rappresentazione iconografiche di questo tetro ballo della morte, spesso dipinto sulle pareti delle stesse chiese cimiteriali, protagonista indiscusso è il fantasma di una carcassa in decomposizione, con il ventre squarciato, che indossa solo i brandelli di un sudario logoro e strappato.
Nella parlata gergale più diffusa tra la popolazione il termine “chiesa” non indicava solo il tempio, ma l’intera area che circondava l’edificio, teatro di celebrazioni liturgiche, processioni solenni e feste popolari.
Tutta la vita pubblica del borgo si svolgeva in questo spazio poliedrico ed assoluto, sempre in grado di assumere nuove forme, dove i morti con i loro sgradevoli vapori o con l’ossame che sporgeva da qualche nicchia erano sempre presenti.
Questa massa di cadaveri malcelata incombeva sugli abitanti come un costante monito sulla fallacia dei piaceri mondani che, tuttavia, creava anche una rassicurante continuità, siccome lastre tombale e cippi corrosi rappresentavano pur sempre la circolarità dell’esistenza e l’ineluttabile trascorrere di anni e stagioni.
Le salme venivano sepolte nelle navate, nascoste dai lastroni del pavimento, contro le mura o sotto gli interminabili porticati che si articolavano lungo il perimetro delle basiliche paleocristiane.
Chiesa e sepolcri si legittimavano a vicenda, infatti se l’edificio adibito al culto sorgeva sulla tomba di un Santo traeva da questo avello privilegio, forza e prestigio e la sua area, racchiusa nella penombra da possenti mura, era investita di una nuova sacralità.
In quello stesso luogo, solennemente consacrato, che ospitava i sepolcri si celebrava anche il Divin sacrificio e dimorava sotto le specie Eucaristiche lo spirito dell’onnipotente, pegno di vita eterna per i seguaci del Nazareno.
Il tempio era dunque uno spazio perfetto dove si consumava tutta l’esperienza religiosa dei fedeli, in questo insolito connubio tra tombe e liturgie di immortalità.
L’organizzazione del cimitero, anche se era più il portato confuso di diversi stili ed esigenze, che un progetto unitario e razionale, non rifuggiva certo dalla ricerca di curiosi effetti decorativi.
Nelle celle che si aprivano nelle gallerie e nei porticati si conservavano i resti mortali, rinvenuti nelle periodiche esumazioni: femori, membra e crani erano disposti con geometrica precisione in eccentriche composizioni di bizzarro gusto.

Ai fedeli poco importava la destinazione delle spoglie mortali, purchè rimanessero in terreno consacrato, magari anche affastellate in una botola, nei pressi dell’altare.
La Chiesa vantava un diritto metafisico sul corpo dei defunti, era sua prerogativa decidere sulla collocazione delle ossa: nella fossa comune o sotto il pavimento, bastava solo che le conservasse al riparo dalla profanazione sino all’ultimo giorno.
Il camposanto era dunque una fabbrica in continua trasformazione: le frequenti operazioni cimiteriali si svolgevano assieme alle altre attività lavorative che interessavano l’intero complesso di edifici, addensati attorno alle tombe.
Sotto le gallerie era solita sostare una curiosa folla di mercanti, librai o sarte, questa turba vociante con disarmante indifferenza e tollerando miasmi asfissianti assisteva allo spettacolo di ossa che affioravano o di salme inconsunte, riemerse dal fango, senza intimorirsi per quelle profonde occhiate cieche che provenivano dai teschi gettati nell’ossario.
Quest’insana promiscuità con i cadaveri, quindi, non impressionava i vivi, siccome l’uomo del medioevo aveva sviluppato una certa famigliarità con i temi macabri e sopportava l’idea della morte o l’esperienza del lutto con una serena accettazione della divina volontà.

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Carlo Ballotta

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