Nei prossimi giorni riprendono i lavori parlamentari e anche quelli sulla riforma dei servizi pubblici per quanto riguarda il Regolamento attuativo. Nel frattempo sette Regioni hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale (Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria e Puglia) per ottenere la cassazione di parti della riforma, e in particolare per gli effetti dell’art. 15, comma 1 del Dl 135/2009 il quale prevede l’apertura al mercato come «via ordinaria» alla gestione del servizio e relega l’in house a una funzione «residuale». Le Regioni contestano inoltre la possibilità per il Governo di intervenire direttamente sulle gestioni locali. Le Regioni contestano il nucleo della riforma, cioè la distinzione fra la via ordinaria dell’apertura al mercato (nelle forme dell’affidamento al privato o delle gare per la scelta del socio operativo) e quella «in deroga» dell’in house. «La materia dei servizi pubblici – si legge nel ricorso della Toscana – rientra nella potestà legislativa esclusiva delle regioni» in virtù dell’articolo 117, comma 4 della Costituzione. In questo quadro, i poteri centrali sono limitati alla tutela della concorrenza, ma non sarebbe questo il caso. Il richiamo, anch’esso comune a molti dei ricorsi, è alla giurisprudenza Ue e in particolare al principio stabilito con la storica sentenza Teckal (causa C-107/98): in quella pronuncia la Corte Ue ha aperto all’in house quando l’ente esercita sul soggetto affidatario un «controllo analogo» a quello che ha sui propri servizi, portando quindi l’in house fuori dai confini del mercato. Se l’in house è fuori dal mercato, argomentano le regioni, non ci può essere alterazione della concorrenza, e intervento dello Stato.
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