Memorie di pietra

I cimiteri sono silenziosi depositari di una complessa e suggestiva ricchezza storico-artistica, dai diversi significati simbolici.
L’allinearsi, lungo camminamenti e sentieri, di cappelle e monumenti si propone sempre più, tra l’otto ed il novecento, come un riflesso del microcosmo borghese, diventa così una “riproduzione in mortem dell’habitat dei vivi”. [1]
Ecco allora giustificato lo sforzo concettuale, architettonico e decorativo, capace di produrre risultati di sublime fattura. L’arte funeraria fu un importante laboratorio, anche in ambito provinciale, del Liberty italiano e di svariate, sottili variazioni dei tradizionali canoni estetici.
La dottrina più autorevole rileva nell’esperienza del grandioso cimitero urbano, comune alle città di Milano e Genova, un cammino dai tratti unitari.
In questo fecondo percorso culturale, tra stili multiformi ed espressioni poliedriche, si compendia l’intera arte commemorativa del XIX secolo dell’Italia settentrionale.

La Municipalità di Milano indisse, nel 1837, un concorso pubblico per l’edificazione di un nuovo camposanto monumentale che fosse agli occhi della cittadinanza un superbo esempio d’architettura civile.
Nell’intenzione dei committenti l’impianto, con le sue proporzioni maestose e le sublimi misure, avrebbe dovuto celebrare degnamente il primato politico e culturale della città. Milano, in effetti, in pochi anni era stata prima capitale del napoleonico regno d’Italia, poi sede del governo austriaco per le ricche province imperiali del Lombardo-Veneto.
Soltanto dopo 1859, ormai all’alba dell’unità nazionale, tuttavia, iniziò il laborioso processo che, in diverse fasi, avrebbe condotto all’effettiva costruzione dell’ambiziosa necropoli moderna.
Nel 1860 La congregazione comunale, costatando il fallimento del precedente bando, promosse un’ulteriore gara, ma solo nel 1863 fu finalmente approvato il brillante progetto di Carlo Maciachini.
Questi era un esponente di spicco di quella corrente di pensiero che predicava per l’edilizia uno stile eclettico di falsa e non bene intesa imitazione degli antichi modelli.
Il vero motivo che spinse la commissione ad accogliere lo studio del geniale architetto fu l’effettiva ragionevolezza della sua proposta.
Il Maciachini, infatti, sottopose alla giunta un piano che avrebbe richiesto solo modesti stanziamenti. Un simile risultato fu soprattutto merito di una filosofia costruttiva estremamente flessibile.
Il successo di quest’idea, dunque, consisteva nell’immaginare il grandioso sepolcreto come un’opera aperta, ossia come una fabbrica dinamica, in continua evoluzione.
Il nucleo storico del complesso cimiteriale presentava quindi la possibilità di essere integrato con successivi ampliamenti parziali, anche grazie ad una linearità compositiva che privilegiava il ritmico ripetersi di moduli architettonici facilmente riproducibili.
I lavori furono ultimati in breve tempo, dopo soli tre anni il sacro recinto venne ufficialmente aperto alle sepolture.
Il cantiere fu definitivamente chiuso nel 1887, quando le maestranze portarono a termine il fabbricato centrale del Famedio: l’edificio funebre destinato ad accogliere le “mortales exuviae” dei grandi personaggi.

Il Famedio, in origine concepito come basilica cimiteriale, subì diverse evoluzioni sino a trasformarsi nel sacrario che avrebbe raccolto le sepolture dei più illustri esponenti della società ambrosiana.
Concluso nel 1887, esibisce una solida architettura a pianta centrale, ossia con quattro navate di eguali dimensioni che, a modo di croce greca, s’intersecano formando un angolo retto.
L’armoniosa struttura è sormontata una stupenda cupola ottagonale. Quest’imponente copertura, con il suo vertiginoso effetto prospettico di sfondamento verso l’alto dei soffitti, produce nei visitatori un’intensa sensazione di estatico rapimento. All’interno, lo spazio ampio e solenne testimonia un’accorta ripartizione dei volumi. Le campate sono rischiarate dalla generosa illuminazione naturale che le grandi finestre circolari, poste sulla sommità dei frontoni, garantiscono.
Eleganti rosoni, infatti, si aprono, all’altezza del timpano, sulle pareti superiori che chiudono i bracci della croce. Una luce immateriale, debolmente filtrata dalle vetrate, irrompe con prepotenza nelle navate e dissipa la malinconica penombra che avvolge le arche ed i sacelli benedetti.
Questa celestiale atmosfera di diffusa luminosità contribuisce a creare un ambiente etereo, quasi trascendente che pare dilatarsi oltre gli stessi esili confini murari.
L’idea di un intenso lucore, che pervade intimamente le diafane masse, è trasmessa anche dai vari ordini di trifore e quadrifore, collocate su diversi livelli, e dalle enormi porte in ferro battuto su cui s’innestano pregiati pannelli di vetro finemente lavorati.
Le decorazioni si ispirano ai motivi cari alla tradizione medioevale ed offrono una vasta gamma di tonalità, svariando dai colori più caldi e rassicuranti come il rosso mattone ed il giallo ocra alle sfumature più fredde e scure del blu cobalto. Alla spalle del Famedio, un area di oltre 180000 metri quadrati è stata originariamente riservata alle tombe. Questa sterminata superficie è caratterizzata da un preciso assetto planimetrico che si sviluppa regolarmente secondo linee ortogonali.
L’asse di riferimento è orientato in direzione sud-nord, movendo dall’accesso principale verso l’ara crematoria, mentre in corrispondenza del suo punto mediano sono collocati gli stabili adibiti ad ossario.
Gli elementi cardine, su cui si fonda l’intero schema, sono le “edicole”: piccoli edifici simili a nicchie, che, sull’esempio del Famedio, ripropongono una sezione planimetrica a pianta centrale.
Questi chioschi cimiteriali, dalla vaga forma di tabernacoli, riprendono lo stile degli antichi battisteri lombardi di epoca romanico-gotica, esibendo una fitta trama di loggette architravate.
Le cappelle funerarie si articolano tra logge, gallerie e portici che, con le continue variazioni di profondità, conferiscono all’insieme una generale impressione di leggerezza e cristallina trasparenza.
L’ordinata successione delle edicole, dunque, ha lo scopo di suddividere in sezioni simmetriche zone e percorsi del camposanto secondo un severo canone razionale, improntato ad una lineare chiarezza.

Il linguaggio architettonico del Maciachini si distingue per un gusto sacrale ed austero che predilige geometrie essenziali, nitide suddivisioni degli spazi e contenuti ornamenti.
Le ali ed i colonnati che fiancheggiano il Famedio consentono una particolare visuale panoramica di notevole fascino. Lo sguardo dell’osservatore, infatti, sembra penetrare le fragili pareti per protendersi oltre lo stesso tempio.
Così la sagoma incorporea del santuario si dissolve placidamente nella pace della “funerea campagna” (Foscolo, I Sepolcri.) retrostante, dove si addensano con coerenza sobri sacelli e signorili tombe di famiglia.
In questa immota distesa di cippi e lapidi, che sembra estendersi oltre l’orizzonte, lo spirito del visitatore naufraga dolcemente dimenticando ogni affanno e tumulto del cuore.
Anche il cimitero monumentale di Staglieno (GE) è uno straordinario, intricato giardino di marmo. Ernest Hemingway, durante i suoi viaggi in Europa, lo definì con sincera ammirazione una delle meraviglie del mondo.
Questa onirica città dei morti offre un’immensa antologia di scultura ed architettura, ma è anche un prezioso florilegio di culture e memorie.
Il primo studio per l’area cimiteriale di Genova risale al 1835 e fu commissionato all’architetto Carlo Barbino che però scomparve qualche mese dopo. L’incarico venne così affidato al suo promettente allievo: G.B. Resasco.

Il piano originale subì revisioni ed ampliamenti in più riprese, sino a divenire una colossale costruzione neoclassica i cui lavori saranno ultimati solo alla morte del Resasco, nel lontano 1872. Nel 1891 problemi di sovraffollamento resero necessaria la realizzazione di un padiglione semicircolare e di nuove quadre dove ospitare le sepolture di ebrei, inglesi ed ortodossi.
Da questa data inizia per il camposanto del capoluogo ligure un’espansione sempre più caotica ed estemporanea.
Cippi e steli, confusamente affastellati in pochi, preziosi metri quadrati, trasformano le umbratili gallerie in un irreale luogo di preghiera, consacrato al culto di soavi rimembranze. Angeli, croci collocate sulle lastre tombali e rappresentazioni della Pietà, che troneggiano sulle fosse, rendono poi Staglieno una zona sottesa di un fortissimo significato religioso.
Parallelamente all’originaria impostazione classicheggiante, il cimitero offre stupendi esempi di arte neogotica, cui si affiancano sontuose e ieratiche testimonianze di iconografie neobizantine.

Appena entrati dal prestigioso ingresso principale, che si affaccia sul fiume Bisagno, ci si trova nel vestibolo dinnanzi alla “Statua della Religione”, realizzata nel 1876 dallo scultore Santo Varni.
Dietro la leggiadra scultura, raffigurazione solare dello spirito che si eleva verso il cielo e le sue bellezze, si staglia il Tempio dei Suffragi.
Questo sacrario di forma circolare è una riproduzione in scala del Pantheon di Roma, già contemplata, per altro, nell’originario disegno del Barbino.
Ai lati del fabbricato si dipartono sconfinate successioni di cippi e minute lapidi. Lastre e colonnine votive si estendono capillarmente sui due campi di terra adibiti alle inumazioni.
Gli interminabili porticati che si dipartono dall’entrata, per svolgersi lungo tutte le mura perimetrali, sono scrigni di autentici tesori neoclassici della nobiltà cittadina, abbandonati dall’incuria sotto una spessa coltre di opaca polvere.
All’interno delle gallerie si sviluppa una magnifica rassegna di statue.
Miriadi di figure e malinconiche espressioni di una Genova ormai scomparsa, sono cristallizzate nell’eternità della pietra e creano un’atmosfera davvero unica ed ineffabile.
Nell’ideale creativo di queste tombe ottocentesche era chiara anche una precisa volontà didascalica per le nuove generazioni.
Lo sfarzo di iscrizioni ed urne avrebbe celebrato il successo delle assidue attività economiche e di un’ imprenditoria diffusa nel tessuto sociale.
Il nido famigliare, inteso quale nucleo di affetti e memorie, anche dopo la morte, veniva esaltato come tiepido grembo materno. L’arca marmorea e la levigata lastra tombale sarebbero così divenute il rifugio sicuro, in cui riporre e scolpire, idealmente, il ricordo dei propri cari scomparsi.

Staglieno si configura come il museo funerario di una borghesia commerciale che, dopo un’esistenza di sacrifici ed austerità, mostrava la sua opulenza, deponendo i propri congiunti entro ricchi sacelli di marmo finemente istoriato.
La decadenza del cimitero monumentale si presta anche ad una dotta interpretazione sociologica. Con il culto reso ai defunti sembra estinguersi anche quel ritratto benevolo di un mondo tradizionale, fondato sui severi valori borghesi cui fu improntato l’intero XIX secolo.
La Genova del dopoguerra è una città fluente, ormai avvezza a sperperare fiumi di denaro pubblico attraverso le aziende di stato. La sua classe dirigente rifugge l’imbarazzante confronto con gli autorevoli e gravi personaggi che popolano l’abbandonata necropoli.
Staglieno diviene così un sublime esempio di paesaggio con rovine.
È una visione spettrale di un’epoca ormai perduta che certo susciterebbe l’ammirato interesse di Dennis ed altri spiriti romantici, attirati dalla poesia delle antiche vestigia.


[1] CFR. “Pietre della Memoria”, Le arti nel cimitero monumentale di Mantova. A cura di Giovanni Ginex. Publi Paolini editore, Mantova 2000

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Carlo Ballotta

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