Istituto della “Revoca”, una mission impossible – 2/2

[…omissis…] Anche la quarta condicio sine qua non, affinché si attui la revoca, almeno come delineata nei panneggi dell’art. 92 comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285, è agevolmente accertabile, sulla base dei libri cimiteriali di cui all’art. 52 D.P.R. 285/90 e degli (eventuali) alti “data recording systems”, sussidiari, di cui il comune si sia munito.
Infatti, non mancano esperienze lodevoli, per altro (in cui il Comune, oltre alle annotazioni minime prescritte dalla Legge, tenga altre registrazioni, a carattere complementare, volte a garantire  contezza, per ciascuna singola concessione cimiteriale, di alcune noti zie basilari quali i riferimenti all’atto di concessione, alla persona (o, alle persone) del concessionario, alle salme tumulatevi e quanto altro sia utile ai fini dell’ordinaria gestione, anche dal punto di vista amministrativo, della singola concessione cimiteriale giusta anche l’Art. 102 D.P.R. 285/90, il quale impone per ogni nuova immissione di spoglie mortali in un sepolcro privato una specifica autorizzazione volta ad appurare il pre-esistente titolo di accettazione ex Art. 93 commi 1 e 2 D.P.R. 285/90.

La quinta, perché si dia luogo all’istituto della revoca, è strettamente connessa alla successiva, ma ha valenza qualificatrice e di specificazione nel senso che non qualsiasi situazione di “insufficienza” è in se stessa idonea, ma quest’ultima deve essere integrata da componenti, appunto, di gravità (inaudita?), e ciò comporta che la saturazione del cimitero (o il suo prossimo collasso per mancanza di sepolture, purché rigorosamente a sistema d’inumazione in campo comune) nel suo complesso, non possa altrimenti essere superata.
In parte, la connotazione della gravità si interseca con l’ultima condizione, la sesta, ossia quella sulla “impossibilità” a procedere, “tempestivamente” all’ampliamento del cimitero o alla costruzione di un nuovo camposanto.

Proprio per questo intreccio “perverso”, va subito detto come il riferimento alla “impossibilità” rechi, in sé, un quid di oggettività difficilmente smentibile, at tenendo ad una stato di fatto generato “esogeneamente”, laddove cioè non riscontrassero elementi di volontà, di scelte, a questo punto scellerate, da parte di soggetti politicamente legittimati a tradurle in atto, come potrebbe essere nell’evenienza che siano state edificati, fino al limite della fascia di rispetto cimiteriale, fabbricati tali da non permettere l’ampliamento del cimi tero (ovviamente, se non vi siano gli estremi per un’eventuale riduzione della cintura di rispetto quale attualmente determinata ex Art. 28 L. 166/2002), mentre, a titolo di esempio, non vi sarebbe reale impossibilità quando le aree, su cui potrebbe compiersi l’ingrandimento del cimitero, o la costruzione di un nuovo sepolcreto, non fossero di proprietà del comune, poiché a questo impasse potrebbe rimediarsi con la loro acquisizione al demanio comunale, anche in termini di espropriazione per pubblica utilità giusta il D.P.R. n.327/2001.

Tuttavia il coefficiente della “impossibilità” va raccordato con quello ulteriore,  della tempestività che ha qualità di ordine temporale, se si vuole sollecitatorio, e va pure rapportato verso l’esigenza primaria del comune di assolvere i propri obblighi legali in materia di approntamento di sepolture, cioè rispetto al c.d. “fabbisogno” di campi d’inumazione, dovendo, sempre ed in ogni momento, il comune assicurarne la sussistenza operativa.
Ma, se il fabbisogno del comune è quello anzidetto, la revoca non è certo “autorizzata” dalla mancanza di sepolture a sistema di tumulazione, al contrario: tenendo presente, oltre tutto che quest’ultima, data la sua radicalità, per queste stesse motivazioni, servirebbe a liberare area cimiteriale dall’occupazione di sepolcri a tumulazione, demolendo i manufatti a ciò preposti ed in essa insistenti, per destinarla a ripristinare la superficie minima destinata a sepolture a sistema d’inumazione.

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Carlo Ballotta

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