Una delle disposizioni della L. 30 marzo 2001, n. 130 è stata (purtroppo) quella dell’art. 8, che, sulla carta, prevedeva che dovesse essere emanato, entro il 4 agosto 2001, un decreto interministeriale di definizione delle norme tecniche (i) per la realizzazione dei crematori, relativamente (i-a) ai limiti di emissione, (i-b) agli impianti ed ambienti tecnologici, nonché (ii) ai materiali per la costruzione delle bare destinate alla cremazione.
La non avvenuta emanazione di un tale D.I. ha, tra l’altro, portato anche a effetti non prevedibili, come nel caso della pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 gennaio 2022, n. 14, con cui è stato dato atto che questa disposizione essendo “tuttora inattuata, e quindi ha lasciato un vuoto normativo in particolare quanto alla disciplina delle emissioni in atmosfera, vuoto che il Sindaco ha ritenuto di colmare esercitando la propria competenza ai sensi del T.U. 1265/1934”, per cui “il Sindaco ha ritenuto di esprimersi in primo luogo ritenuto che l’impianto in questione sia assimilabile agli “inceneritori”, che sono industrie insalubri di prima classe, in base alla parte prima, lettera C n. 14 dell’elenco relativo di cui si è detto, così come approvato dal D.M. Sanità 5 settembre 1994” (considerazione che taluni hanno colto come se il Consiglio di Stato avesse dichiarato che gli impianti di cremazione siano assimilabili agli inceneritori (industrie insalubri di 1^ classe), affermazione fatta dal sindaco proprio in ragione di quest’inattuazione).
Superando queste componenti, un cenno merita la questione dei materiali per la costruzione delle bare destinate alla cremazione, su cui anche qualche regione (e.g.: Friuli-Venezia Giulia, Toscana, ma non solo) ha fatto accidentali interventi all’interno di una logica ambientalista.
Non si può evitare di osservare come la tematica dei materiali per la costruzione delle bare non possa essere limitata alla sola pratica della cremazione, ma oggettivamente riguardi anche le altre pratiche funerarie.
In particolare, per l’inumazione si possono ricordare le numerose tracce di Regolamenti comunali di polizia mortuaria, anche risalenti agli anni ‘30 del XX sec. (quando non anche precedenti), in cui si prescriveva che le casse mortuarie fossero realizzate utilizzando legno ”dolce” come non ostativo ai processi trasformativi cadaverici. Non risultano (o, meglio, non sono noti) casi in cui si prescrivano caratteristiche sui legni per la costruzione di casse mortuarie destinate alla tumulazione, dato che (nel passato!) questa era meno utilizzata, anche se essa comportava una maggiore durata di conservazione del feretro e non considerava punto la questione di favorire i processi trasformativi cadaverici.
Si parla di legno, in quanto di prevalente impiego e che vedeva come aggiunzione l’uso di casse metalliche, ammettendosi unicamente lo zinco od il piombo, metallo questo pressoché dismesso de facto, ma non potevano, un tempo, immaginarsi altri materiali (anche se in epoca pre-Unitaria o per feretri provenienti dall’estero possono esservi stati impiegati altri materiali, come il ferro o la ceramica), cosa che solleva oggi di valutare un’eventuale legittimazione all’impiego di altri materiali (come accede per “contenitori” ammissibili per altre tipologie di spoglie mortali differenti dal cadavere).
Oltretutto, per quanto riguarda la pratica dell’inumazione, occorre ricordare la prescrizione dell’art. 75, comma 3 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. per cui l’impiego di materiale biodegradabile diverso dal legno deve essere autorizzato (con un procedimento che del tutto analogo a quello del precedente art. 31). Le previsione dell’art. 75 sembrano portare a considerare il legno nella sua interezza, come “tavole”, cosa che ricorda come in altri Stati, anche non lontanissimi, siano ammissibili all’uso anche casse mortuarie realizzate con rametti intrecciati, vimini od altro, che alla fin fine sempre porta a considerare si abbia a che fare col legno.
Vi è una aspetto che merita di essere sottolineato, nel senso che i materiali impiegati per la costruzione delle casse mortuarie possono essere individuati tenendo conto almeno di 2 livelli: ( A ) il fattore funzionale e ( B ) il fattore ambientale. Ovviamente, questo secondo è del tutto importante e condivisibile, ma non è il solo. Il primo appare talvolta sottovalutato, forse per ragioni consuetudinarie. Se nella cremazione la funzione ambientale si coniuga anche con quella funzionale, nell’inumazione la funzione è quella di favorire il fisiologico svolgimento dei processi trasformativi cadaverici, mentre nella tumulazione prevale quella della durata nel tempo (tanto all’inumazione si arriva comune, pur se dopo un tempo ben maggiore).
A questo punto ben si può porre la considerazione di come il fattore ambientale venga a collocarsi inequivocabilmente nella materia di cui all’art. 117, comma 2, lett. s) Cost., per cui si ha una competenza legislativa – esclusiva – dello Stato, cui, a valle, consegue altresì la competenza regolamentare (art. 117, comma 6, primo periodo Cost.).
Inoltre, questo livello di competenza viene ad avere anche altri effetti, quelli di offrire standard per la produzione delle casse mortuarie, che non sono più realizzate, sale rare eccezioni, in sede locale dal “mastro Geppetto” locale (ripetizione voluta) quanto da apparati produttivi degni della qualificazione industriale.
Ma i due fattori (funzione & ambiente) potrebbero essere realizzati anche riducendo il ricorso ad essenze vegetali di provenienza esogena, in quanto non si vede per quale motivo ricorrere ad esotismi nei materiali quanto la funzione e l’ambiente possono essere rispettati, e tutelati, anche con approvvigionamenti non esotici.
Certo, non si tratta di limitare le libertà di scelta, ma semplicemente procedere con semplicità (che importa anche economicità).
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