Corte di Cassazione, Sez. II civile, 12 aprile 2018, n. 9100

Corte di Cassazione, Sez. II civile, 12 aprile 2018, n. 9100

MASSIMA
Corte di Cassazione, Sez. II civile, 12 aprile 2018, n. 9100
Anche nel caso di una comunione, afferente a cappella funeraria familiare, il partecipante alla comunione il quale intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo (“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di “interversio possessionis” alla stregua dell’art. 1164 cod. civ., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui, mentre non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad un’estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore

NORME CORRELATE

Art.823 Cod. Civ.

Art. 337 RD 25/7/1934, n. 1265

Corte di Cassazione

Civile Sent. Sez. 2 Num. 9100 Anno 2018
Presidente: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI
Relatore: FEDERICO GUIDO
Data pubblicazione: 12/04/2018
SENTENZA
sul ricorso 19613-2013 proposto da:
C. GIUSEPPE, elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE DELLE MEDAGLIE D’ORO 160, presso lo studio dell’avvocato JACOPO DI GIOVANNI, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZA RITA MARIA PIRRACCHIO;
– ricorrente –
contro
C. FEBRONIA, M. SEBASTIANA, Elettivamente domiciliate in PALAGONIA, PIAZZA PONTE, IO, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CALANDUCCI, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 686/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 29/O3/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/01/2018 dal Consigliere GUIDO FEDERICO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Esposizione del fatto
Con atto di citazione ritualmente notificato Giuseppe C. conveniva innanzi al Tribunale di Caltagirone – sezione distaccata di Grammichele, Febronia C. e Sebastiana M., spiegando nei loro confronti domanda di reintegra nel possesso dell’accesso alla cappella di famiglia, ubicata presso il cimitero di Palagonia.
L’attore si doleva essergli stata preclusa la possibilità d’ingresso nella suddetta cappella, ove era sepolto il padre, mediante cambio della serratura da parte delle convenute, che ne avevano altresì mutato
l’intestazione.
Le convenute, costituitesi, premesso che la cappella era di loro proprietà, deducevano di averne consentito l`accesso per mera tolleranza, onde non era configurabile una situazione di possesso tutelabile in capo all’attore.
Il Tribunale di Caltagirone – sezione distaccata di Grammichele – in accoglimento della domanda attorea ordinava la reintegrazione nel possesso della cappella di famiglia di C. Giuseppe, ordinando alle convenute la restituzione della chiave.
La Corte di Appello di Catania, con la sentenza n. 686/2013, in riforma della sentenza di primo grado, riconosceva in capo all’odierno resistente una situazione di mera detenzione, non idonea a fondare un’azione possessoria, e ne rigettava la domanda.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, Giuseppe C.
Resistono con controricorso Sebastiana Martelli e Febronia C.
Considerato in diritto
Con il primo motivo di ricorso viene contestata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cpc, per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché degli artt. 342 – 345 e 346 c.p.c. , per avere la Corte d’Appello pronunciato su motivi diversi rispetto a quelli contenuti nell’appello proposto dalle controricorrenti, in relazione all’art. 360 nn. 3) e 4) c.p.c.
Il secondo motivo denuncia il difetto assoluto di motivazione, ovvero la motivazione apparente della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 n.5 cpc, in forza di un’errata interpretazione del secondo motivo di appello delle odierne controricorrenti, fatta propria dalla Corte territoriale.
I motivi, che, in quanto strettamente connessi, vanno unitariamente esaminati, sono destituiti di fondamento.
Conviene premettere che l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce attività riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata, tenuto conto della formulazione testuale dell’atto, nonché del contenuto sostanziale della pretesa (Cass. 22893/2008).
Ciò posto, nel caso di specie l’impugnazione della sentenza di primo grado, proposta dalle odierne controricorrenti con il secondo motivo di appello, si fonda sulla consegna delle chiavi al ricorrente a titolo di mera cortesia, contestandosi dunque, specificamente, la configurabilità di una situazione di possesso in capo a quest’ultimo.
Con detto motivo di gravame è stata dunque censurata la statuizione di riconoscimento del possesso effettuata dal primo giudice all’esito della valutazione delle prove testimoniali e della credibilità riconosciuta ai testi escussi.
Non sussiste dunque la dedotta nullità della sentenza per vizio di ultra petizione, né è ravvisabile alcuna errata interpretazione del motivo di appello.
Con il terzo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione di legge ex artt. 360 nn. 3 e 4 c.p.c. in relazione all`art. 352 cpc per avere la Corte territoriale accolto l’appello, sebbene la controparte non avesse riproposto le proprie domande in sede di precisazione delle conclusioni.
Il motivo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, infatti, nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o (presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico) vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate (Cass. 22360/2013), fermo restando che la mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata non autorizza alcuna presunzione di rinuncia in capo a colui che ebbe originariamente a proporla, essendo, a tal fine, necessario che, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, possa desumersi inequivocabilmente il venir meno dell’interesse a coltivarla (Cass. n. 17582 del 14/07/2017).
Nel caso di specie, la Corte territoriale, con adeguato apprezzamento di fatto, ha ritenuto che, anche in virtù del rituale deposito della comparsa conclusionale, la mancata partecipazione dell`appellante all’udienza di precisazione delle conclusioni non implicasse il venir meno dell`interesse della parte alla decisione sulle domande già ritualmente proposte.
Con il quarta motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 703 e 669 bis c.p.c., in relazione agli artt. 360 nn.3) e 4) cpc, per violazione delle norme in materia di formazione della prova nel procedimento possessorio, nonché in riferimento alla norme che presiedono alla valutazione delle prove, per avere la Corte d’Appello, ai fini della decisione, utilizzato le informazioni assunte dai testi nella fase a cognizione sommaria e non avere adeguatamente valutato le prove assunte nella fase a cognizione piena.
Il motivo è inammissibile per genericità.
Conviene premettere che, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio ove assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale, mentre quelle raccolte ai fini dell’eventuale adozione del decreto “inaudita altera parte”, ex art. 669 sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo utilizzabili anche ai fini della decisione quali indizi liberamente valutabili. (Sez. 2, Sentenza n. 107 del 07/01/2016).
Orbene, nel caso di specie non risulta neppure allegato che le dichiarazioni rese in sede di giudizio sommario di cognizione, fossero state assunte senza l’osservanza di quelle cautele in relazione alle quali le stesse potessero equipararsi ad una prova testimoniale.
In ogni caso, il giudice di merito non si è limitato a fondare il proprio convincimento sulle risultanze della fase interdittale, ma ha altresì sottoposto a valutazione l’insieme delle acquisizioni istruttorie, comprensive di quelle relative alla fase di merito, complessivamente considerate.
Con il quinto, articolato, motivo di ricorso, si censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 324 c.p.c, per violazione del principio di non contestazione, per avere la Corte territoriale ricostruito la vicenda in modo difforme da come esposto dal ricorrente e mai contestato da controparte, anche in relazione alla formazione del “giudicato intemo” su una questione decisiva, nonché per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti.
Con il sesto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140 e ss., 1168 c.c. in relazione agli artt. 360 nn.3 e 4 cpc, e si censura la sentenza impugnata per aver qualificato la situazione del ricorrente come mera detenzione e non possesso.
I motivi, che in quanto strettamente connessi vanno unitariamente esaminati, sono fondati.
Si osserva infatti che la Corte territoriale ha posto a fondamento della sua statuizione, di mancanza di prova del possesso in capo all’odiemo ricorrente, la circostanza secondo cui la nuova intestazione della cappella funeraria, fondata da C. Giuseppe, era stata effettuata dal ricorrente medesimo nel 2002, facendo da ciò discendere la conseguenza che tale iniziativa fosse stata intrapresa poco dopo la consegna delle chiavi, “rendendo dunque inverosimile un loro possesso da svariati anni” e con l’ulteriore conseguenza di rendere parimenti inattendibili le dichiarazioni rese da alcuni testi indicati dal ricorrente.
Risulta, al contrario, secondo quanto esposto nel ricorso introduttivo dall’odierno ricorrente, che furono le controricorrenti non solo a cambiare il lucchetto posto sul cancello di accesso, ma anche a sostituire l’intestazione della cappella medesima.
Tale circostanza non e stata mai contestata, né fatta oggetto di impugnazione dalle controricorrenti.
Del pari, non condivisibile l’affermazione della Corte territoriale, secondo cui sarebbe incontroverso che furono le controricorrenti a consegnare le chiavi a C. Giuseppe, senza mai dismettere il proprio possesso esclusivo, con la conseguenza che tale consegna doveva ritenersi effettuata a titolo di mera cortesia.
Va anzitutto rilevato che la stessa sentenza impugnata ha confermato la statuizione della pronuncia di primo grado, di irrilevanza e non utilizzabilità, nel presente giudizio, della scrittura privata di trasferimento della proprietà del bene in favore del dante causa delle controricorrenti, in conseguenza della mancata proposizione dell’istanza di verificazione, con statuizione che non è stata specificamente impugnata dalle odierne resistenti.
Orbene, a fronte dell`originario compossesso della cappella, pacificamente fondata da C. Giuseppe, nonno del1’odierno ricorrente, ed in assenza di un diverso titolo, posta la non utilizzabilità della scrittura di trasferimento su menzionata, non risulta provato, in data anteriore al denunciato spoglio, alcun atto o fatto da cui possa desumersi l’esclusività del possesso delle controricorrenti, con esclusione degli altri compossessori, e segnatamente del ricorrente, succeduto ex art. 1146 c.c. nel possesso del proprio genitore e dante causa, deceduto nel 1984.
Ed invero, il partecipante alla comunione il quale intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo (“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di “interversio possessionis” alla stregua dell’art. 1164 cod. civ., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui, mentre non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad un estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore (Cass. 16841/2005).
In accoglimento del quarto e quinto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, per nuovo esame, innanzi ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania, al fine del1’accertamento della configurabilità di un possesso esclusivo in capo alle controricorrenti, e correlativa situazione di mera detenzione in capo al C., in data anteriore agli atti integranti il denunciato spoglio.
P.Q.M.
La Corte, respinti il primo, secondo, terzo e quarto motivo, accoglie il quinto e sesto motivo di ricorso.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania, che provvederà anche alla regolazione delle spese del presente giudizio.
Cosi deciso in Roma il 31 gennaio 2018
Il Cons. est. (Guido Federico)
Il Presidente (Luigi Giovanni Lombardo)

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Sereno Scolaro

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