La chiesa dell’angelo nero

La cappella di Sedlek è collocata nel suburbio di Kutna Hora, una cittadina della Repubblica Ceca, sorge alla fine di un’interminabile fila di alberi secolari; dove un’immensa navata centralecancellata, dalle precarie fondamenta in mattoni, cinge un piccolo sepolcreto, da secoli abbandonato.
Un sentiero accidentato ci conduce, attraverso lapidi sconnesse e croci ormai divelte dall'”insultar dei nembi” (Foscolo), dinnanzi all’elegante facciata della pieve cimiteriale, dominata da due torri campanarie.

Qui, sotto un possente arcone a sesto acuto, si aprono due antichi portali in legno, databili attorno alla seconda metà del XIV secolo. Sui lati si possono anche notare i possenti contrafforti che ripartiscono le pareti esterne in sezioni ben definite e ritmate.
Solo il nostro passo nervoso, che risuona sordo, tra lastre tombali e cupe steli funerarie, infrange l’agghiacciante silenzio delle navate, i cui sacri arredi furono ricavati dalle “motales exuviae” di circa 40.000 individui, sepolti, da tempo immemorabile, nel vicino camposanto.
Nel 1870 Frantsek Rint, un prestigioso scultore di opere lignee, attese, su indicazione dell’abate, ad una singolare ristrutturazione degli interni, reperendo, in grande economia, tutto il materiale necessario dagli ossari del monastero cistercense attiguo alla basilica.
Dalle alte coperture con volte a crociera scendono immensi lampadari incorniciati da teschi; racchiudono ogni genere d’ossa, anche le più minute, che appartengano al corpo umano come coccigi, falangi e patelle.

A fianco dell’altare, entro due nicchie ricavate nell’arcata absidale, si levano due maestosi ostensori, incorniciati da una raggiera di femori; mentre una sequela di crani orla gli archi traversi.
Un ventaglio di costole, assieme a fasci di ossa lunghe forma calici, croci e candelieri, in una sacrilega parodia del Divin Sacrificio Eucaristico.
Quattro raccapriccianti piramidi di crani delimitano l’area del “Sancta Sanctorum”, sono coronate dal lieve ed impertinente volo di graziosi putti, nella loro spensierata giocosità.
Improvvisi fasci di una luce tagliente illuminano le profonde celle, nascoste da massicce grate, dove sono stipate, con maniacale precisione, sterminate quantità di resti mortali ormai consunti.
Quest’indistinto ammasso di spoglie affastellate indica una concezione prettamente medioevale dell’ambiente funerario, perché lo spazio benedetto che accoglie nei suoi segreti cunicoli le sepolture riveste maggior importanza semantica del singolo monumento o edicola.
Poco importa, allora, la precisa destinazione dei defunti, purchè riposino “fisicamente” nel grembo di Santa Madre Chiesa, presso l’effige della Vergine o nelle vicinanze del tabernacolo.

Su di una sbarra, a perenne monito della putredine che corrompe e divora, è stato sistemato, quasi per ghiribizzo, uno sgraziato e macilento rapace, intento a fendere conputti spensierati il becco tagliente, la calotta di un polveroso teschio privo di mandibola.
Questa occulta propensione dell’autore per l’iconografia macabra tradisce una sadica ma inconscia volontà di raffigurare, seppur simbolicamente, il trionfo del nero angelo sterminatore, che devasta la bellezza di volti e lineamenti nell’orrore di bianche ossa avidamente spolpate.
L’arte smarrisce così il suo specifico ruolo didascalico, che secoli di tradizione le avevano affidato.
Non è più, quindi, un linguaggio allegorico funzionale alla retta espressione del culto cristiano; a Sedlek il genio dell’artista sviluppa uno sfarzoso codice, istintivo ed ermetico, fondato unicamente sulla brutale reazione emotiva che immagini raccapriccianti inevitabilmente suscitano, senza alcuna mediazione di carattere deduttivo.
L’apparente ordine razionale, quasi algebrico, in cui l’ossame estrinseca la propria efferata forza comunicativa è, dunque, indice non di ineffabile armonia, ma di quel continuo logorarsi dell’animo proprio dell’epoca moderna, nell’inesorabile decadimento di precordi millenari ed ideali assoluti.
La morte con il suo ghigno scheletrico, in un crescendo di tragica e sguaiata onnipotenza, s’insinua beffarda nel santuario del Dio vivente, dilaga lungo le navate, invade con sicumera il presbiterio, sino a stendere la sua ombra malefica persino sul Crocefisso.
L’angelo nero celebra la propria terribile gloria con spettacolari metamorfosi, sempre più blasfeme ed irridenti, per apporre, come supremo gesto di sfida, il proprio emblema anche nel cuore dell’ostensorio, dove, comunemente, si conserva l’Ostia consacrata, pegno di vita eterna per i seguaci del Nazareno.
Dinnanzi agli occhi attoniti del visitatore, in una coreografia così imponente e spettrale, si svolge una scena apocalittica che rievoca, con i suoi gelidi simboli, il cruento racconto del Calvario.

Tutti gli arredi mortuari, dunque, si orientano, con tensione inarrestabile, verso la croce, vero entro ideale della liturgia cristiana, ed il Cristo con il volto sofferente e malinconico, attorniato dallo scherno di vessilli mortiferi, esprime un senso di fatale ed inconsolabile sconfitta esistenziale.
Le masse debolmente sospese godono di una notevole, anche se nefasta, plasticità.
Sono pervase da un sinistro dinamismo, capace di plasmare, con quei miseri resti, forme bizzarre e sontuose, grazie a continue, laboriose torsioni delle linee.
Le spire di ossame variamente disposte, contribuiscono a creare un effetto di fortissima ed indefinita profondità spaziale, ma suscitano anche, con la loro artificiosa collocazione, un viscerale senso di sacrilega violenza verso la pietà per i defunti.
Il loro tortuoso sviluppo, in effetti, stempera il solido alternarsi dei moduli costruttivi, annacquando ritmi e volumi dell’originale impianto architettonico in un turbine di estrosi dettagli tardo barocchi.
Il risultato di questa coraggiosa sintesi tra diverse culture e stili figurativi è un’atmosfera eterea, nella sua immaterialità gotica, ma al tempo stesso, così straordinariamente avvolgente e grave da incombere sui fedeli spauriti con le sue lugubri icone .
Simili motivi, più che ai raffinati costumi del XVII secolo, paiono ispirarsi a quella temperie prima romantica, poi decadente, che, con i suoi vagheggiamenti sepolcrali, imperversò durante l’intero Ottocento europeo.
La basilica, nell’apoteosi del caos e del disfacimento di spoglie consumate ed inaridite dal tempo, diviene un ambiente metafisico, è il vestibolo di un universo dominato dal potere delle tenebre, dove, tra abbagli e raggiri ottici, la speranza della redenzione si risolve, al pari delle fatue decorazioni, in un’illusoria certezza.
Trecce di tibie, assieme a ghirlande di vertebre si avviluppano mollemente attorno a pilastri e colonne, delimitano le campate, per sovrapporsi poi alle nervature delle volte e disegnare così le vele dei soffitti.

Gli ornamenti effimeri, quindi, in una sorta di processo osmotico, si integrano con la pietra di paramenti lapidei ed archi d’imposta, per rivelarsi come la vera ossatura su cui la chiesa debolmente si regge.
Se il verticalismo di diafani diaframmi murari abbinati a gracili sostegni a polistilio deve suscitare una sensazione di estatico rapimento verso il cielo immateriale e la beatitudine celeste, le tetre geometrie, costruite con migliaia di spoglie,invece, ci richiamano, ossessivamente, a quell’orizzonte di drammatica fisicità in cui si esauriscono i nostri affanni terreni.

Questo sottile drappo di resti umani che, con i suoi panneggi voluttuosi, s’appoggia sinuosamente anche sulla più ardite architetture, nella sua vertiginosa ascensione verso pinnacoli e chiavi di volta e trasforma l’intera chiesa in un esile involucro di perversa energia, trattenuta, a fatica, dalla sola, inviolabile sacralità del tempio.
Nelle fantasie più insane dei visitatori l’infinita successione di crani, ordinata a modo di orridi festoni si trasfigura rapidamente in un’empia corona del rosario che la morte, leziosamente, ora dipana, ora attorciglia in un capriccioso gioco di rimandi e simmetrie. Questi nastri d’ossa, con le loro infinite evoluzioni, riproducono l’effetto chiaroscurale di una galleria, in grado di interrompere la monotona continuità delle superfici murarie.
Si genera così un inquietante contrasto tra il chiarore che irrompe dalle ampie vetrate ed il buio che invade la desolazione delle orbite cave.
Una luce vivida, infatti, penetra e si diffonde con generosa prepotenza dalle ampie bifore; evidenzia contorni e particolari di teschi dal tenue colore perlaceo, prima di disperdersi nella densa penombra dei sotterranei e delle nicchie. L’autore si rende sublime interprete di uno stile solenne, ambiguo, nella sua coerenza formale, che cela, però, un’effettiva fragilità di contenuto logico, tale da confondere la verità del reale con la più plateale finzione.
Nella sperticata lode dell’innaturalità, o dell’inganno prospettico l’architetto, quindi, decanta, con malcelato compiacimento, il capriccio della natura o della forzatura poetica, con una formula intricata ed intrisa di ebbrezza artistica.

L’esasperato pittoricismo, le ardite costruzioni in profondità, assieme, ad un saldo senso di relazione tra i diversi elementi, nell’esperienza artistica di Rint, si traducono in lampadariouna pericolosa estetica, enigmatica nel suo contenuto teologico. Questo nuovo stile così ambiguo ed estremo si configura come una categoria astratta ed indecifrabile di un gusto eccessivamente sofisticato e vanesio.

Nella chiesa cimiteriale di kutna Hora l’arte tende a deformare lo spazio religioso dello spirito e della devozione in uno scenario instabile, su cui si articolano pirotecnici apparati decorativi con effimere e truci traiettorie, appena delineate, capaci però di intersecarsi in una fittissima ragnatela di oscuri messaggi allegorici.
Questo “mirabil composto”, secondo la celebre formula del Bernini, di incerti ornamenti ossei sovrapposti a soluzioni architettoniche permanenti dilata a dismisura i ben definiti confini della struttura muraria su cui si fonda il sacro edificio.
Il torvo spettacolo di stemmi e lampadari ricavati da scheletri riesce, infatti a modellare e distorcere, con facilità impressionanti i limiti fisici dei canoni costruttivi, sino a renderli una feconda dimensione fittizia, puramente immaginativa e ricca di complessi, straordinari effetti suggestivi.

Temi eccentrici ed esasperati modelli rappresentativi come, appunto, l’allestimento di abomini macabri, l’esaltazione di orrorifiche presenze, oppure la messa in scena di deliranti visioni, rivelano soprattutto la precisa volontà di turbare e sconvolgere profondamente lo spettatore, in un torbido vortice di immagini oniriche.
Una spontanea disposizione al fantastico, per narrare remoti incubi di dannazione e recondite paure per il greve corrompersi della materia, si rivela, così,un prezioso strumento anche per gli artisti che vogliano indagare l’ignoto ed interpretare la misteriosa verità di cui è sottesa la dimensione reale con le sue poliedriche mutazioni.

Written by:

Carlo Ballotta

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