La, difficile, posizione delle “partecipate”: spesso né carne, né pesce.

In taluni ambienti degli ambiti funebri (e, a volte, anche cimiteriali) non mancano atteggiamenti pre-giudiziali attorno alla natura “pubblica” o “privata” dei diversi soggetti, cosa che (almeno a titolo personale) è sempre apparsa come un falso problema, valutando di maggiore rilievo quello della qualità delle prestazioni rispetto alla titolarità del capitale sociale delle aziende.
Le società “pubbliche”, ma oramai emerge più corretto parlare di “partecipate” (dove la partecipazione può essere totale o parziale” e nelle quali andrebbero (correndo il rischio di imprecisioni sull’uso delle parole) anche questi soggetti che oggi ricadono nell’estesa accezione di “soggetti privati in controllo pubblico”), si sono venute a caratterizzare, anche come effetto delle mutevole evoluzione normativa (e che, in alcune fasi, è stata anche eccessiva, sia in termini di quantità, che di prossimità temporali), per la presenza di un ampio spettro di forme, in cui ciascuna di queste presentava “sfaccettature” distintive, anche accentuate (aspetto raramente colto da quanti sostenessero visioni meramente “privatistiche”). Queste diverse forme hanno prodotto, nel tempo, situazioni in cui coesistevano, e coesistono, elementi propri del diritto pubblico (pertinenti alla Pubblica Amministrazione) con elementi propri del diritto privato.
Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20684 del 9 agosto 2018 (reperibile, per gli abbonati PREMIUM, alla sezione SENTENZE), sono state chiamate ad affrontare una questione afferente alla forma degli atti negoziali (tra l’altro in altro settore dei servizi pubblici locali, ma la questione è generalizzabile ed estensibile anche alle attività funebri e cimiteriali. Non interessa qui molto se gli atti negoziali debbano avere una forma o l’altra, quanto sottolineare come le società “partecipate” (nell’accezione estesa di cui sopra) vivano una situazione di ibridazione nella quale non sempre è immediatamente discernibile se e quando debbano operare come “privati” oppure come “pubblici”. Si sottolinea – inoltre – come le Sezioni Unite intervengano quando siano in gioco questioni che richiedono un orientamento ermeneutico uniforme (al fine di evitare possibili conflittualità di indirizzo tra le diverse sezioni della Corte di Cassazione).
Tra le diverse forme che possono riguardare tali società vi sono anche quelle “miste”, specie quando parte del capitale sociale veda la partecipazione di soggetti privati, fenomeno che si sta diffondendo. In alcune realtà, talora il soggetto privato proviene dal medesimo ambiente, cosa che fa reagire i “colleghi” locali, che vi vedono una sorta di “tradimento”, il ché deriva sia da quegli atteggiamenti pre-giudiziali cui era stato fatto cenno inizialmente, sia da visioni imprenditoriali non ancora adeguatamente mature o limitate dalle singole potenzialità d’impresa.
Il punto non è, come non poteva esserlo nel passato, il discrimine tra “pubblico” e “privato”, quanto la capacità di fare impresa in termini adeguati alla “qualità” delle prestazioni rese alla clientela, con un apparato di prezzi che possa essere remunerativo, pur senza sconfinare in atteggiamenti predatori.

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Sereno Scolaro

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