Le origini degli abbandoni dei sepolcri – 1/3 – Il fenomeno dell’abbandono per incuria delle sepolture private

L’ultima disposizione del Capo X D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., Capo rubricato “Costruzione dei cimiteri – Piani cimiteriali – Disposizioni tecniche generali“, è data dall’art. 63, articolato su due commi; col primo (che non accidentalmente segue l’art. 62) si dà atto che la manutenzione dei manufatti cimiteriali, eretti sulle aree avute in concessione, spetti sui concessionari e per tutta la durata della concessione, mentre col secondo si affronta il caso delle sepolture private abbandonate per incuria o per morte degli aventi diritto.
Come noto, questo “caso” è abbastanza diffuso e tendenzialmente crescente, determinando criticità non lievi nelle gestioni cimiteriali.
Innanzitutto, va considerato come l’art. 63, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. prenda in considerazione le sepolture private, le quali sono individuabili alla luce del successivo Capo XVIII D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m..
Per curiosità storica, ma, soprattutto, per non perdere la memoria di quanto è stato alle origini dell’attuale sistema cimiteriale italiano, si può ricordare quanto il R. D. 6 settembre 1874, n. 2120 “Regolamento per l’esecuzione della legge 20 marzo 1865 sulla sanità pubblica e della legge 22 giugno 1874, numero 1964“, prevedesse per le sepolture in via generale e, distintamente da queste, per le sepolture private [1].
Per inciso, l’introduzione del turno ordinario di rotazione decennale è avvenuta proprio con l’art. 58 di tale Regolamento, essendo in precedenza fissato in 6 anni (art. 70 R. D. 8 giugno 1865, n. 2322 “Regolamento per l’esecuzione della Legge 20 marzo 1865 sulla Sanità pubblica“, elevamento motivabile con il fatto di come fosse emerso (dopo solo 9 anni, cosa che costituisce il segnale di come, all’epoca, fosse attiva un’attenzione a valutare gli effetti delle norme che sembra non più così attuale, nonostante le varie AIR (analisi di impatto della regolazione), ATN (analisi tecnico normativa), VIR (verifica di impatto della regolazione), istituti introdotti a partire dall’art. 5 L. 8 marzo 1999, n. 50 e s.m. …) che non in tutte le realtà, sia per struttura del terreno che per motivazioni di ordine climatico, il termine sessennale risultava “efficiente” (leggansi: sufficiente) ai fini di un normale completamento nei processi trasformativi cadaverici.
Il richiamo alle predette norme di lontana datazione non è fuori luogo, né senza significato ricordando come, al di là delle “percezioni sociali” variamente venute a formarsi ed stratificarsi nel tempo (e nello spazio, non essendo uniformemente distribuite), il sistema cimiteriale italiano è fondato sull’obbligo per i comuni di:
(a) disporre di almeno un cimitero a sistema d’inumazione,
(b) sulla disponibilità di capi per sepolture a sistema di inumazione, dimensionata in ragione di una “domanda” (ricordando che è stato solo col D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. che si sono considerati i dati statistici delle inumazioni nell’ultimo decennio, mentre, in precedenza, si consideravano i dati statistici dei defunti nello stesso periodo), ovviamente incrementata, a fini prudenziali, nell’eventualità di eventi eccezionali (incidentalmente osservandosi come nella “domanda” vadano considerate altresì le inumazioni conseguenti ad estumulazioni, per avvenuta scadenza della durata della concessione).
Come noto, questo dimensionamento, altrimenti qualificabile quale fabbisogno cimiteriale [2], è dettato all’art. 58 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., cosa che porta a ricordare come esso non possa essere interpretato senza considerare l’immediatamente successivo art. 59 per il quale nel fabbisogno cimiteriale non vanno calcolati altri spazi, eventualmente, aventi altre destinazioni (rinviando al relativo testo). Non sussistono al di fuori di questi due, altri obblighi per i comuni, anche se, nel tempo, il panel delle “allocazioni” nei cimiteri si sia ampliato a tipologie di vario ordine, che, qui o là, possono anche essere divenute maggioritarie, favorendo il formarsi di quelle “percezioni sociali” cui è stato fatto cenno.
Ora, la questione delle sepolture private può essere semplificata riconoscendo come tali tutte le “allocazioni cimiteriali” diverse dall’inumazione in campo comune, estese, in termini di indipendenza dallo “stato”, anche alle possibili diverse condizioni delle spoglie mortali (es.: feretri contenenti cadaveri (a prescindere dalla pratica funeraria richiesta), cellette ossario, urne cinerarie).
Delineato la portata della formulazione di sepolture private, è possibile passare alle motivazioni, per le quali l’anzi richiamato art. 63, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. ne individua sostanzialmente due:
(a) l’incuria, oppure
(b) la morte degli aventi diritto.


[1] R.D. 6 settembre 1874, n. 2120:
… (omissis) …
Art. 58
Il terreno destinato a cimitero deve essere dieci volte più esteso dello spazio necessario pel numero presunto dei morti, che debbono esservi sepolti in ciascun anno, e dev’essere chiuso all’intorno da un muro.
Art. 59
Nello spazio destinato a cimitero non è compresa quella estensione che il municipio può destinare per le sepolture private, o riserbare a titolo di onoranza per la sepoltura dei cittadini illustri e benemeriti del paese.
… (omissis) …

[2] Termine richiamato anche all’art. 92, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., in cui non ha, né può avere diverso significato.

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Sereno Scolaro

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