D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285: modifiche intervenute e/o promesse, ma ancora inattuate – 2/2

Il ricorso a norme di rango primario (leggi) per modificare norma di rango secondario (regolamento) porta a ricordare come l’art. 358 T.U.LL.SS., R. D. 27 luglio 1934, n. 1265 e s.m., prevedesse che le norme generali per la applicazione del presente testo unico venissero emanate con R.D., sentito il Consiglio di Stato, o, in altri termini, che vi fosse norma denominata regolamento emanata dal potere esecutivo. Ovviamente il T.U.LL.SS. era antecedente alla Costituzione, che attribuisce la potestà legislativa al Parlamento, escludendone il potere esecutivo (Governo), salvi i due casi di cui agli artt. 76 e 77 (cioè, i decreti legislativi delegati e i decreti legge, questi oggetto di conversione entro 60 giorni).

Non dimentichiamo (vi sono memorie a breve termine) come, dopo circa un decennio, vi siano state le condizioni affinché il Consiglio Superiore di Sanità (Sezione 3^) elaborasse un testo di modifica o revisione (non importa il nome) del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
Tanto che quel testo era iscritto all’O.d.G. della Conferenza unificata dell’11/7/2001, poi ritirato per iniziativa ministeriale come effetto, secondo alcuni osservatori, di altre “visioni”, anche se col pretesto che, intervenuta la L. 30 marzo 2001, n. 130, si rendeva necessario re-intervenire sul testo per attuare i “principi” enunciati dal suo art. 3.
Nel frattempo veniva emanata la L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (non senza dimenticare la successiva L. 8 giugno 2003, n. 131 di adeguamento), modifica costituzionale non tenuta in debito conto, dato che risulta “girare” (anche se ufficialmente non dovrebbe) un testo datato 16/11/2001 in cui vi erano proprio quegli adeguamenti attuativi dei principi enunciati al richiamato art. 3 L. 30 marzo 2001, n. 130.
Gli effetti di queste “ondate normative”, sui quali non ci si addentra, sono sotto gli occhi di tutti.

Proprio il ricorso a fonti di rango primario (leggi), anziché di fonti di pari grado (cioè regolamentari), senza ricorrere ad un qualche “rinvio” (come fatto con l’incipit presente all’art. 1 L. 30 marzo 2001, n. 130), ha evitato che si determinassero situazioni di inerzia che non hanno favorito l’interpretazione e, quindi, l’applicazione delle norme.
Pur avendo quel “rinvio” comportato difficoltà interpretative (e, quindi, operative), non si esime dall’auspicare una certa maggiore chiarezza testuale (anche sulle fonti del diritto), al fine di non doversi scontrare con interpretazioni improprie (che generano comportamenti altrettanto – a volte anche maggiormente – impropri).
Che vi sia necessità di coerenza nei testi, nei diversi ranghi di forza normativa, è cosa innegabile. Non solo per il fatto che la mancata attuazione delle modifiche oggetto di tale “rinvio” è in sé critica, ma – soprattutto – per il fatto che i criteri, richiamati all’inizio, sul dimensionamento del “fabbisogno cimiteriale” risultano ormai inadeguati.

Basti considerare come sia mutata la “domanda” tra le diverse pratiche funerarie, acceleratasi nell’ultimo lustro, per cogliere come questa “domanda” richieda non solo, o non più, di considerare i defunti destinati all’inumazione, che si traduce in fabbisogno di superfici.
Chi si rivolge alla pratica funebre della cremazione sposta la “domanda” dalle superfici agli “spazi liberi interni” (cioè a volumi), di dimensioni nettamente inferiori rispetto a quelli per l’accoglimento di feretri.
Va, infine, considerato come ormai, dalle cremazioni, solo i 2/3 delle richieste producano una effettiva “domanda” di spazi (leggi: volumi) nei cimiteri, dato il ricorso alla dispersione delle ceneri e/o all’affidamento ai familiari delle urne cinerarie.

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