Il cambiamento climatico produce, come noto, effetti su differenti piani.
Uno di questi è quello di una risalita delle acque salate del mare (es. quello un tempo denominato Golfo di Venezia, oggi noto con l’aggettivo tratto da un comune non costiero) nell’entro terra, il ché incide sulla produzione del … radicchio di Chioggia.
Questa penetrazione dell’acqua marina salata nel sottosuolo richiama la memoria della previsione del’art. 57, commi 5, 6 e 7 [1] D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m..
In esso sono individuate caratteristiche, di base, di adeguatezza del terreno utilizzabile per le inumazioni, sia che si tratti di quelle considerate dall’art. 58 che dall’art. 90, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Tale caratteristica va letta tenendo presente come nel comma 5 [1] sia indicato che il terreno, oltre che sciolto, debba (dovrebbe?) anche essere asciutto e dotato di un adatto grado di porosità e di capacità per l’acqua, per favorire il processo di mineralizzazione dei cadaveri.
Cosa che potrebbe apparire contradditoria, ma la contraddizione viene a cadere distinguendo in relazione ad un’opportuna quantità d’acqua (anche meteorica) rispetto ad una eccedente quantità, che produce un consistente imbibimento del terreno.
Tra l’altro, sempre al citato comma 5 si richiama una data profondità, riferita alla “scioltezza” del terreno, mentre all’art. 72 (nonché all’art. 73) D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m- si prevede che le fosse debbano avere una profondità non inferiore a metri 2.
Per cui – del tutto accademicamente – vi dovrebbe essere uno strato di circa 50 cm (o, anche meno) intercorrente tra la profondità della fossa e la condizione di … “scioltezza”.
Queste indicazioni originano dall’esigenza (espressa chiaramente all’art. 57, comma 5 citato) di favorire il processo di mineralizzazione dei cadaveri.
Cioè, in altre parole, di permettere lo svolgersi della funzione della pratica funebre dell’inumazione, consistente nel realizzarsi dei fisiologici processi di trasformazione dei cadaveri, raggiungendo lo stato considerato dall’art. 85 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.
Quell’esigenza di una profondità “non inferiore a metri 2” comporta delle criticità, alcune delle quali erano meno evidenti nel passato.
Oggi queste richiedono di tenere conto anche di disposizioni di altra fonte, tra cui quelle dell’art. 119 D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.” e s.m., prescrizioni del tutto rilevanti.
Dato che si tratta di aspetti che sono agevolmente riconducibili alla materia della “tutela della salute” il richiamo, in termini di competenza legislativa (nonché, regolamentare!), all’art. 117, comma 3 Cost. è conseguente.
Alcune (non moltissime, anzi …) regioni infatti sono intervenute su questi aspetti.
In maggioranza con disposizioni non di pari rango rispetto al D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. (cioè norme di rango secondario in senso proprio).
Altre, ricorrendo, con una certa prevalenza tra le poche regioni intervenute, ad atti amministrativi.
Si tratta di modalità che possono sollevare perplessità, anche quando il ricorso ad atti (meramente) amministrativi discenda da espressa previsione di legge regionale, che abbia attribuito ad altri “strumenti” (e/o “soggetti”) di intervenire in proposito.
Ciò in quanto l’esercizio della potestà regolamentare, trovando fonte nell’art. 117, comma 6 Cost., dovrebbe comportare una valutazione di quali siano i soggetti che ne siano titolari sulla base delle previsioni degli statuti di ciascuna singola regione.
Spesso, il rinvio ad atti meramente amministrativi nasce dal fatto che lo statuto regionale prevede procedure ritenute eccessivamente complesse, riconoscendo nel solo consiglio regionale la titolarità dell’esercizio della potestà regolamentare. Ergo.
Il ricorso ad atti meramente amministrativi è strumentale a giungere ad esiti, operativi, quali dovrebbero essere intervenendo con norme concretamente regolamentari.
Fino a qui manca (continua a mancare) un fattore, quello di operare scelte, anche regolamentari, che rispondano alla funzione della pratica funeraria.
Probabilmente, individuare misure di profondità minori (di quel “non inferiore a metri 2”) può derivare da sollecitazioni, comprensibili, di “alleggerimento” delle situazioni che comportano l’applicazione di quanto disposto dal sopracitato art. 119 D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, oppure da considerazioni a queste prossime.
Con una visione maggiormente “cimiteriale” sarebbe auspicabile che venissero avviate indagini, debitamente strutturate sotto il profilo della ricerca scientifica, in cui oggetto della ricerca siano le condizioni – oggettive – del terreno, ma anche dei materiali impiegati (feretri, essenze vegetali, spessori, imbottiture, ecc.).
Questi dovrebbero favorire realmente lo svolgimento dei naturali processi trasformativi cadaverici, dal momento che la gran parte delle indicazioni in proposito sembrano avere origine dalla mera prassi utilizzata negli ultimi 150-200 anni, non supportata da approfondimenti scientificamente argomentati.
[1] – d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. – Art. 57
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5. Il terreno dell’area cimiteriale deve essere sciolto sino alla profondità di metri 2,50 o capace di essere reso tale con facili opere di scasso, deve essere asciutto e dotato di un adatto grado di porosità e di capacità per l’acqua, per favorire il processo di mineralizzazione dei cadaveri.
6. Tali condizioni possono essere artificialmente realizzate con riporto di terreni estranei.
7. La falda deve trovarsi a conveniente distanza dal piano di campagna e avere altezza tale da essere in piena o comunque col più alto livello della zona di assorbimento capillare, almeno a distanza di metri 0,50 dal fondo della fossa per inumazione.
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