I reati contro la pietà dei defunti, che hanno per oggetto il sepolcro, contemplano due fattispecie diverse:
- la violazione di sepolcro,
- il vilipendio delle tombe.
La violazione del sepolcro
L’art. 407, c.p., commina la reclusione da uno a cinque anni a chiunque violi una tomba, un sepolcro o un’urna cineraria.
Quindi la condotta antigiuridica, che il giudice dovrà pur sempre valutare, deve necessariamente riferirsi a fatti e/o atteggiamenti che la comunità sociale davvero consideri come gravi oltraggi ai sentimenti di pìetas verso i morti.
Ad esempio, la dottrina considera tra gli illeciti penali tipici e più ricorrenti, l’abbattimento, lo scoprimento o lo scoperchiamento delle tombe o del sepolcro.
Nello specifico, entrambi i termini indicano il luogo atto a dare riposo eterno ai cadaveri e loro trasformazioni di stato.
Il sepolcro, spesso cappella privata e gentilizia a sistema di tumulazione, è caratterizzato da una maggiore monumentalità e dal pregio architettonico dell’edificio adibito ad uso funerario, rispetto alla semplice tomba (loculo monoposto?).
La giurisprudenza ha precisato che commettere reati di violazione di sepolcro, occultamento di cadavere ed estorsione, dopo avere sottratto da un loculo di una cappella cimiteriale di confraternita una salma, prefiguri la restituzione delle ossa solo a fronte dell’esborso di una somma di non poco conto, apparentemente legittimata come dovuta ad una confraternita per lavori di restauro della cappella, ma sostanzialmente e sicuramente del tutto arbitrariamente pretesa perché assolutamente sproporzionata ai lavori da compiere (Trib. Bari, 18 giugno 2004).
La sussistenza del reato di violazione di sepolcro non è esclusa dalla circostanza che il sepolcro, la tomba o l’urna oggetto dell’azione dissacratoria non si trovino in un cimitero consacrato.
Qui si potrebbe ragionevolmente affacciare l’ipotesi dei cimiteri particolari antecedenti al R.D. n. 1265/1934 e soprattutto delle sepolture extra cimiteriali di cui agli artt. 340 e 341 T.U.LL.SS.
La fattispecie di cui all’art. 407, c.p. protegge il sentimento della pietà verso i defunti, il quale è suscettibile di offesa a prescindere dalla situazione in cui si trovi il luogo profanato. (Cass. Pen., sez. II, 10 giugno 2003, n. 34145, in Cass. pen., 2005, 12, 3894).
Per un certo filone del dibattito accademico, però, per concertare l’elemento soggettivo non basta la coscienza e la volontà di violare la tomba o l’urna.
Resta necessario che l’agente abbia almeno la consapevolezza di potere ledere il sentimento di pietà verso i morti cioè la riverenza ad essi dovuta.
Il dolo è escluso nella carenza di tale consapevolezza da parte di chi commetta l’azione (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, agg. a cura di L. CONTI, 1977, 663).
La dottrina sottolinea che il deprecabile gesto deve ricadere su di una tomba o un’urna contenente resti umani.
L’art. 407, c.p. tende a tutelare i cadaveri e le ceneri umane mediante la salvaguardia delle tombe in cui sono deposti; la norma de qua non è tesa a garantire le tombe in sé come oggetti del culto funerario o dell’arte commemorativa.
Il delitto viene meno in tutti i casi in cui il fatto commesso sia coperto da cause di giustificazione.
Ad esempio nel caso di esumazioni ordinarie, che si eseguono solitamente dopo un decennio dalla inumazione, ex art. 82, D.P.R. 285/1990, o di esumazioni straordinarie ordinate dall’autorità giudiziaria (Cass. Pen., sez. III, 1 aprile 1971, in Cass. Pen. Mass., 1971, 1699).
Nella fattispecie, anche un’estumulazione non autorizzata o effettuata “abusivamente”, dunque senza titoli di legittimazione, potrebbe concretare la figura giuridica di cui all’art. 407 c.p.
La fattispecie prevista dal reato è sostanzialmente diversa dai comportamenti meramente contrari alle disposizioni del regolamento della polizia mortuaria, il quale disciplina, tra l’altro, la gestione delle operazioni cimiteriali, per il buon governo del camposanto.
Nella normazione speciale di polizia mortuaria, invero un poco vetusta ed anacronistica in primis con l’art. 108, D.P.R. 803/1975, il legislatore stabilisce, senza troppa fantasia, che i contravventori alle disposizioni della polizia mortuaria siano soggetti alla sanzione dell’ammenda indicata dall’art. 358, R.D. 1265/1934.
La trasgressione è stata successivamente depenalizzata dall’art. 32, L. 24 novembre 1981, n. 689.
Pertanto, l’illecito amministrativo è ora sanzionato con la sanzione pecuniaria di cui all’art. 107, D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (G. FIANDACA, Pietà defunti – delitti contro la – in Enc. Giur., 1990, 2).
Sulle peripezie e vicissitudini del sistema di diritto punitivo delineato dal D.P.R. n. 285/1990 (quando ovviamente non si ricada in ambito espressamente penale es. Art. 87 D.P.R. Cit., ad es.) si rinvia il lettore agli studi di Sereno Scolaro presenti e reperibili sempre qui, su funerali.org.
Il vilipendio delle tombe
L’art. 408, c.p., punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, commette vilipendio di tombe, sepolcri o urne, o di cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri.
Quindi l’elemento oggettivo del reato consiste nel vilipendio.
Secondo la dottrina per stabilire quando sussiste vilipendio delle tombe ci si deve riferire a concetti definiti normativi sociali (G. FIANDACA, Pietà defunti – delitti contro la – in Enc. Giur., 1990, 3).
La modalità di realizzazione del fatto è a forma libera; il vilipendio, pertanto, può realizzarsi con atti, parole o scritti.
Inoltre, l’ambito di tutela della norma incriminatrice comprende oltre alle tombe, ai sepolcri e alle urne anche gli altri oggetti destinati al culto dei morti come croci, lapidi, o altre immagini simboliche di culto poste ad ornamento dei cimiteri.
La giurisprudenza ha ravvisato il delitto di vilipendio delle tombe, previsto dall’art. 408, c.p., nel fatto volontario e cosciente di chi intenda esternare il proprio dispregio su cose poste nei luoghi destinati a dimora delle persone decedute ed aventi la funzione di richiamare e ricordare la pietà dei defunti, danneggiandole, lordandole o imprimendovi segni grafici vilipendiosi, o anche rimuovendole in tutto o in parte ed eventualmente sostituendole con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale.
In conclusione, il fine del vilipendio non rileva.
Pertanto, il reato consiste anche se l’agente abbia commesso il fatto per arrecare offesa non al defunto, ma alla persona che aveva fatto sistemare la tomba per onorare e ricordare il defunto stesso. (Cass. Pen., sez. III, 29 marzo 1985, in Cass. pen., 1986, 1559).
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