Tar Lombardia, Sez. II, 4 dicembre 2014, n. 1328

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Tar Lombardia, Sez. II, 4 dicembre 2014, n. 1328
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 841 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Epis Felice S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco De Marini e Barbara Savorelli, con domicilio eletto in Brescia presso lo studio dell’avv. Giovanni Zanini, Via V. Emanuele II, n. 1;
contro
Comune di Bottanuco, rappresentato e difeso dall’avv. Sandro Campilongo, con domicilio eletto in Brescia presso la Segreteria del T.A.R., Via Carlo Zima, 3;
Ministero dell’Interno, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
a) per quanto attiene al ricorso introduttivo:
– della nota senza data, prot. n. 5603, con la quale si comunica che il servizio di illuminazione votiva del cimitero comunale affidato alla ricorrente “è cessato con decorrenza 31 dicembre 2012…”;
– di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale a quello impugnato ed in particolare, laddove occorrer possa, degli eventuali provvedimenti, se intervenuti, di assunzione materiale e diretta del servizio di illuminazione e di conseguente apprensione dei beni di proprietà della ricorrente e comunque di affidamento anche a terzi del servizio medesimo ed, inoltre, del D.M. 31 dicembre 1983, nella parte in cui individua le illuminazioni votive quali servizi pubblici a domanda individuale;
nonché per la condanna
dell’Amministrazione resistente al risarcimento dei danni patiti dalla ricorrente;
nonché per l’accertamento
del diritto della ricorrente al mantenimento della concessione del servizio di illuminazione votiva, al fine del riequilibrio del rapporto economico-finanziario;
b) per quanto attiene al ricorso per motivi aggiunti:
– della deliberazione della Giunta comunale n. 137 del 19 dicembre 2013, recante “approvazione relazione ai sensi dell’art. 34, commi 20 e 21 del D.L. 179/2012, convertito in L. 221/2012, relativa al servizio di illuminazione votiva”, pubblicato all’albo pretorio il 15 gennaio 2014;
– ove occorrer possa, della “Relazione sull’affidamento e sulla gestione del servizio di illuminazione votiva” predisposta dal responsabile del settore tecnico;
– di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale a quello impugnato ed in particolare, laddove occorrer possa, degli eventuali provvedimenti, se intervenuti, di assunzione materiale e diretta del servizio di illuminazione e di conseguente apprensione dei beni di proprietà della ricorrente e comunque di affidamento anche a terzi del servizio medesimo;
nonché per la condanna
dell’Amministrazione resistente al risarcimento dei danni patiti dalla ricorrente.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Bottanuco;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 novembre 2014 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il giudizio introdotto con il ricorso in epigrafe indicato verte sulla presunta cessazione anticipata ope legis – ai sensi dell’art. 23 bis del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 – del contratto di concessione del servizio di illuminazione votiva ed è, dunque, volto alla caducazione dei provvedimenti conseguentemente adottati dal Comune.
Il servizio di illuminazione votiva in questione è svolto, sin dal 1969, dalla ricorrente, in forza di una convenzione dell’originaria durata di quindici anni, ma più volta prorogata a fronte di ampliamenti ed estensioni dell’impianto votivo elettrico sino all’attribuzione, nel 1999, della scadenza al 31 maggio 2030. In tutte le proroghe si dava atto, secondo la ricorrente, del fatto che l’impianto sarebbe rimasto di proprietà della ricorrente, fatta salva la possibilità di riscatto a prezzo di stima.
Avverso il provvedimento che ha dato atto della sopravvenuta cessazione ex lege della concessione, la ricorrente ha dedotto i seguenti vizi:
1. Violazione dell’art. 42 comma 2 lett. e) e dell’art. 97 del D.Lgs. n. 267 del 2000, eccesso di potere per difetto di istruttoria, carenza di potere ed incompetenza, poiché il TUEL affida al Consiglio comunale le attribuzioni in materia di gestione e affidamento dei servizi pubblici;
2. Violazione degli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/90 per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento;
3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267 del 2000, violazione dell’art. 25 del R.D. n. 2578 del 1925, degli artt. 8 e ss. del D.P.R. n. 902 del 1986, eccesso di potere per travisamento e carenza dei presupposti e sviamento, in quanto l’atto non affronta in alcun modo la questione della proprietà privata della rete, attraverso una perizia di stima o comunque una valutazione degli impianti, nonostante la proprietà della totalità degli impianti sia il presupposto per mettere in gara il servizio o per gestire direttamente lo stesso;
4. violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del Capitolato collegato al contratto stipulato tra le parti nel 1969 e del successivo contratto integrativo sottoscritto nel 1986 a seguito di apposita deliberazione del Consiglio comunale n. 107 del 29 ottobre 1986 e dell’art. 25 del R.D. n. 2578 del 1925: premesso che nell’ordinamento non si rinviene alcuna ipotesi di acquisizione coattiva al di fuori delle garanzie dettate per i procedimenti ablatori e che, nel caso di specie, il contratto sottoscritto prevedeva la possibilità di riscatto solo a fronte della corresponsione di idoneo indennizzo, il Comune non si è soffermato sul riscatto, essendosi limitato, illegittimamente, al mero rinvio a “future determinazioni” per il ri-affidamento del servizio;
5. Violazione e falsa applicazione degli artt. 30 e 143 del D.Lgs. n. 163 del 2006 e dei principi dell’ordinamento in materia di concessione di servizi pubblici, eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto dei presupposti, violazione dell’art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008 in quanto:
I) se si qualifica il rapporto come concessione di servizio pubblico sarebbe violata la norma di legge (art. 30 del D.Lgs. n. 163 del 2006) che impone di adottare provvedimenti per il riequilibrio economico e finanziario degli investimenti effettuati al mutare delle condizioni di fatto e dei presupposti;
II) se si ravvisa l’esistenza di una semplice concessione a terzi (parere Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici 9/2/2011 n. 28), andrebbe esclusa l’applicazione dell’art. 23-bis.
6. violazione e falsa applicazione, sotto diverso profilo, dell’art. 4 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 e degli artt. 41 e 42 della Costituzione, in quanto, in ogni caso, l’art. 23 bis non avrebbe potuto trovare applicazione, essendo stato abrogato con referendum popolare (DPR 18 luglio 2011, n. 113) e il successivo D.L. 13 agosto 2011, n. 138 avrebbe escluso dalla decadenza tutte le concessioni di importo inferiore a 900.000 euro (poi ridotto a 200.000 con D.L. 1 del 2012) e prorogato tutte le concessioni in essere sino al 31 dicembre 2012.
Con ricorso per motivi aggiunti depositato il 3 marzo 2014, sono stati impugnati anche la deliberazione della Giunta comunale n. 137 del 19 dicembre 2013, recante “approvazione relazione ai sensi dell’art. 34, commi 20 e 21 del D.L. 179/2012, convertito in L. 221/2012, relativa al servizio di illuminazione votiva”, pubblicato all’albo pretorio il 15 gennaio 2014 e la correlata relazione.
Parte ricorrente, pur dando conto dell’orientamento già espresso da questo Tribunale con la sentenza n. 1132 del 2013, ha dedotto:
8. violazione e falsa applicazione dell’art. 34, commi 20, 22 e 26 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, in ragione del quale, secondo parte ricorrente, il servizio di illuminazione votiva non dovrebbe essere più qualificato come servizio pubblico locale;
9. violazione e falsa applicazione dell’art. 34, commi 20, 22 e 26 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 sotto diverso profilo: nel caso di specie, la concessione prevedeva un termine e la relazione è stata pubblicata entro il 31 dicembre 2013, ma la stessa avrebbe dei contenuti macroscopicamente errati e privi di fondamento di diritto. Essa dispone, in effetti, l’automatica cessazione della concessione, senza tenere in debito conto l’ulteriore principio di derivazione comunitaria (Direttiva ricorsi 2007/66/CE), volto a garantire la certezza giuridica degli effetti dei provvedimenti adottati dalle Amministrazioni, in ragione del quale, all’art. 120 del c.p.a. si è previsto che, nei casi in cui sia mancata la pubblicità del bando “il ricorso non può comunque essere proposto decori sei mesi dal giorno successivo alla data della stipulazione del contratto”;
10. violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio del procedimento preordinato alla redazione della relazione ex art. 34 del d.l. 179/2012 e alla successiva adozione della delibera di Giunta che ha sancito la cessazione del rapporto concessorio.
Si è costituito in giudizio il Comune, argomentando circa la corretta qualificazione del servizio come servizio pubblico locale di rilevanza economica, assoggettabile, dopo la caducazione dell’art. 23 bis del d.l. 112/2008, all’art. 34 del d. l. 179/2012. A tal fine ha espressamente richiamato la pronuncia del Consiglio di Stato che conferma tali conclusioni n. 2716 del 27 maggio 2014.
Parte resistente si è, quindi, soffermata sulla legittimità del proprio operato nell’applicazione dell’art. 34 citato ed, in particolare, nella redazione della relazione ivi prevista, nella quale si è dato conto della non conformità all’ordinamento comunitario dell’affidamento in essere, assentito direttamente e nell’individuazione dei presupposti di legge per dare atto, in assenza di validi elementi in senso contrario, della cessazione del servizio alla scadenza del 31 dicembre 2013. Il tutto nel pieno rispetto della normativa vigente, tenuto conto, in particolare, che gli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/90 non potevano trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui l’adozione degli atti risulta essere necessitata dalla puntuale previsione di legge.
Parte ricorrente ha, invece, in spregio al principio della sinteticità degli atti del processo, riproposto integralmente quanto già dedotto nel ricorso per motivi aggiunti, soffermandosi, in particolare sul fatto che, poiché la concessione in parola era in essere al momento dell’entrata in vigore del d.l. 179/2012 (grazie al d.l. 138/2011 e all’abrogazione dello stesso da parte della Corte Costituzionale), l’attività di illuminazione votiva è stata, proprio alla luce di tale norma, sottratta all’applicazione dell’art. 34 del d.l. 179/2012 e, in specie, dei commi 21 e 22, con la conseguenza che la concessione dovrebbe continuare sino al 31 maggio 2030.
In ogni caso, secondo la Epis Felice – puntualizzato che la scadenza non può essere intervenuta comunque al 31 dicembre 2013, in ragione dell’entrata in vigore dell’art. 13 del D.L. 30 dicembre 2013 che ha prorogato la stessa di un anno -, la relazione impugnata sarebbe viziata perché fondata su di un, non più esistente, automatismo tra affidamento diretto e cessazione anticipata del servizio, il quale non terrebbe conto che l’affidamento diretto e le successive proroghe della concessione rappresentavano, all’epoca in cui la convenzione è stata sottoscritta, una prassi conforme all’ordinamento comunitario, ma, soprattutto che il ridottissimo valore del servizio (12.000 euro/anno) renderebbe anche oggi giustificato l’affidamento diretto, la cui proroga sarebbe comunque giustificata dalla necessità di mantenere l’equilibrio economico-finanziario.
Anche i motivi del ricorso introduttivo di cui alla censura nr. 5 sono stati integralmente riproposti.
Alla pubblica udienza del 19 novembre 2014 la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
La prima censura, con cui sono stati dedotti violazione di legge, eccesso di potere per difetto di istruttoria, carenza di potere ed incompetenza derivanti dal mancato rispetto della disposizione del TUEL che affida al Consiglio comunale le attribuzioni in materia di gestione e affidamento dei servizi pubblici, è priva di pregio. La nota gravata rappresenta, infatti, la semplice presa d’atto della scadenza anticipata del rapporto contrattuale, fissata ex lege dal D.L. n. 112 del 2008, prescindendo da un’espressa manifestazione di volontà dell’Ente locale.
Nella doglianza successiva, ci si duole della violazione degli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/90 per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, trascurando, però, che proprio perché la decadenza è prevista ex lege, trattasi di atto dovuto, privo di quei profili di discrezionalità che avrebbero reso necessario assicurare la possibilità della partecipazione al procedimento. Pertanto, precisato che improprio risulta il richiamo all’art. 10 bis, che ha ad oggetto la comunicazione del preavviso di rigetto dell’istanza di parte, mentre nel caso di specie trattasi di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, alla luce dell’art. 21 octies della legge n. 241/90, dunque, il provvedimento, pur in assenza di comunicazione di avvio del procedimento non è suscettibile di annullamento.
Il terzo vizio dedotto è quello che discenderebbe dalla violazione e falsa applicazione dell’art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267 del 2000, violazione dell’art. 25 del R.D. n. 2578 del 1925, degli artt. 8 e ss. del D.P.R. n. 902 del 1986, in cui l’Amministrazione sarebbe incorsa adottando l’atto impugnato senza tenere in considerazione la proprietà privata della rete e senza, dunque, aver riscattato l’impianto stesso, benché ciò sia presupposto necessario per poter procedere all’indizione di una gara o alla gestione in economia.
A tale proposito va preliminarmente chiarito che la normativa sulla scadenza ex lege delle concessioni (salva la questione dell’esatta qualificazione della fattispecie, che sarà affrontata successivamente) investe la gestione del servizio, ma non interferisce con la titolarità delle reti, regolata da specifiche e diverse disposizioni, che non possono non tenere conto degli accordi contrattuali di cui alla convenzione con cui il servizio è stato affidato.
L’art. 4 del capitolato per la concessione del servizio di illuminazione allegato alla convenzione del 1969 prevedeva espressamente che “Allo scadere della concessione tutto l’impianto in esercizio passerà di pieno diritto in proprietà del Comune”. Tale clausola non risulta essere stata modificata successivamente, in quanto Comune e Epis Felice hanno sempre concordato e convenuto nuove scadenze del contratto (a fronte di ampliamenti dell’impianto), ma richiamando le condizioni di cui alla convenzione già sottoscritta e, dunque, al capitolato originario (fatti salvi, appunto, gli adeguamenti economici).
Ne consegue che, se la proprietà dell’impianto è senz’altro privata, la stessa è destinata ad essere trasferita al Comune alla scadenza del contratto. Posto, quindi, che l’acquisizione della disponibilità dell’impianto costituisce atto consequenziale e dovuto dell’amministrazione, la quale è tenuta a consegnare l’intero apparato a quello che sarà il nuovo gestore, la questione può porsi esclusivamente in termini economici e cioè di quantificazione dell’indennizzo dovuto per la cessazione anticipata. Sul punto è costante la giurisprudenza di questo Tribunale (cfr., tra le tante, sentenza breve sez. II – 16/3/2010 n. 1256) secondo cui il mancato raggiungimento dell’accordo sulla quantificazione del prezzo e il suo, conseguente, mancato versamento, non possono esimere il concessionario decaduto dal rilascio degli impianti a favore del Comune, ferma restando la facoltà del primo di agire nelle competenti sedi per ottenere la corretta quantificazione del prezzo ed il pagamento dello stesso.
Tutto ciò in linea con la disposizione sull’incedibilità della proprietà degli impianti, reti e dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici (art. 113 comma 2 del D.Lgs. n. 267 del 2000), che impone la proprietà privata, ma anche con la disciplina del patrimonio indisponibile dettata dall’art. 826 comma 3 del c.c., che esclude l’apprensione diretta da parte dell’ente locale nel caso in cui la proprietà sia ab origine ascrivibile a soggetti terzi e, di fatto, rimanda, per la soluzione della questione attinente alla titolarità dell’impianto, a quanto previsto dalla convenzione sottoscritta dalle parti.
Non essendo, dunque, in alcun modo controversa, la clausola che stabilisce l’obbligo di cessione degli impianti al Comune allo spirare della concessione, è peraltro evidente che il passaggio degli impianti deve essere accompagnato dal pagamento dell’indennizzo correlato al residuo valore degli impianti stessi, così da dare rilievo anche al fatto che, in caso di risoluzione anticipata, non potrebbe ritenersi essere stato garantito l’equilibrio economico dell’operazione che ha formato oggetto del contratto. Pena, in caso contrario, il verificarsi di un’espropriazione senza titolo, come evidenziato nella quarta censura.
La quantificazione della somma dovuta al gestore uscente quale controvalore degli impianti e degli interventi eseguiti, esula, peraltro, dalla giurisdizione esclusiva di questo giudice, cui sono sottratte le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi (cfr. art. 133 comma 1 lett. c del Codice del processo amministrativo). Tuttavia, in assenza di qualsivoglia statuizione del Comune, è preferibile accedere all’orientamento che ritiene di valorizzare la domanda di accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di acquisire l’impianto di illuminazione votiva – di proprietà della ricorrente – previa corresponsione dell’indennità dovuta, anche se la sua concreta determinazione è rimessa alla cognizione del giudice ordinario (cfr. T.A.R. Umbria – 12/8/2013 n. 445).
Conseguentemente, la nota impugnata con il ricorso introduttivo dovrebbe essere annullata nella sola parte in cui non ha previsto espressamente l’obbligo del Comune di provvedere a quantificare l’indennizzo dovuto, ma, con riferimento a tale specifico aspetto, il ricorso deve ritenersi improcedibile per effetto della sopravvenuta deliberazione della giunta comunale n. 137 del 2013, impugnata con ricorso per motivi aggiunti, che espressamente ha dato avvio al procedimento di riscatto di cui all’art. 25 del R.D. 2578 del 1925.
Con la quinta doglianza, parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008 (e, conseguentemente, degli artt. 30 e 143 del d. lgs. 163/2006) in quanto, se si dovesse qualificare il rapporto intercorrente con il Comune come concessione di servizio pubblico, ne risulterebbe violata la norma di legge (art. 30 del D.Lgs. n. 163 del 2006, la quale imporrebbe di adottare provvedimenti per il riequilibrio economico e finanziario degli investimenti effettuati al mutare delle condizioni di fatto e dei presupposti), mentre se si ravvisasse l’esistenza di una semplice concessione a terzi, andrebbe esclusa l’applicazione dell’art. 23-bis.
In subordine, si tratterebbe di un servizio privo di rilevanza economica per i ridotti margini di profitto che è possibile conseguire, con conseguente “non assoggettamento” ai principi e alle regole concorrenziali.
La censura merita, però, di essere trattata in uno con quella rubricata sub 8 (la prima del ricorso per motivi aggiunti, che riprende la numerazione dei vizi dedotti con il ricorso introduttivo, saltando, però, il nr. 7), non prima di aver dato atto dell’improcedibilità della censura n. 6
In essa parte ricorrente sostiene che la disposizione richiamata nel provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo non avrebbe potuto trovare applicazione a causa dell’intervenuta abrogazione dell’art. 23 bis e della sopravvenuta entrata in vigore dell’art. 4 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, che escluderebbe dalla decadenza tutte le concessioni di importo inferiore a 200.000 euro.
La disposizione invocata è stata, però, superata dall’entrata in vigore del d.l. 179/2012, il cui atto applicativo alla fattispecie concreta ha formato oggetto del ricorso per motivi aggiunti, traslando, così, l’interesse della ricorrente alla decisione sulla legittimità di tale ultimo atto, anch’esso adottato senza considerare tale specifica disposizione nel senso voluto da parte ricorrente.
Passando, quindi, all’esame del ricorso per motivi aggiunti, appare opportuno premettere che, nonostante i tentativi di parte ricorrente di superare l’orientamento sul punto già adottato da questo Tribunale (cfr sentenza n. 1132 del 2013), non si ravvisano ragioni di discostarsi da questo per quanto attiene alla qualificazione del servizio di illuminazione votiva tra i servizi pubblici comunali.
Come ha evidenziato il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza 11/8/2010 n. 5620, il tratto distintivo della concessione di pubblico servizio è dato:
“a) dall’assunzione del rischio a carico del concessionario per la gestione del servizio ( cfr.Corte Giustizia CE, Sez. III, 15 ottobre 2009, n. 196, caso Acoset);
b) dalla circostanza che il corrispettivo non sia versato dall’amministrazione, come nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, la quale, anzi, percepisce un canone da parte del concessionario (cfr. Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3333; Sez. V 5 dicembre 2008 n. 6049);
c) dalla diversità dell’oggetto del rapporto, che nella concessione di servizi è trilaterale (coinvolgendo l’amministrazione, il gestore e gli utenti), mentre nell’appalto è bilaterale (stazione appaltante – appaltatore).”.
I predetti connotati sono tutti rintracciabili nella convenzione del 3 maggio 1969, che ha previsto l’erogazione del compenso dovuto al Comune (punto 3° della convenzione, che lo quantificava in 100 lire annue per ogni lampada), l’instaurazione di un rapporto diretto tra gestore e utente con versamento a favore del primo di un corrispettivo in termini di prezzo di abbonamento pari a 2500 lire annue per ogni lampada – punto 3° della convenzione), l’esecuzione e la manutenzione dell’impianto a cura e spese del concessionario: ne deriva che la Società Epis ha assunto direttamente il rischio correlato all’equilibrio economico dell’operazione condotta.
Peraltro, riprendendo quanto già evidenziato nella sentenza 1132/2013, <>.
Va altresì pienamente condiviso quanto già affermato nella più volta citata sentenza n. 1132/2013, in ordine al fatto che “l’ illuminazione elettrica di aree cimiteriali da parte del privato costituisce oggetto di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza economica, perché richiede che il concessionario impegni capitali, mezzi e personale da destinare a un’attività suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto concorrenziale del mercato di settore (Consiglio di Stato, sez. V – 24/1/2013 n. 435). A conferma di ciò si può richiamare la regola generale sancita dall’art. 172 comma 1 lett. e) del D.Lgs. n. 267 del 2000, che impone di allegare al bilancio di previsione, fra gli altri documenti, le deliberazioni con le quali sono determinate le tariffe per i servizi locali. Sono considerati privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono un’organizzazione di impresa in senso obiettivo, e in questo quadro appare indubbia la riconducibilità del servizio di illuminazione votiva tra quelli che rivestono spessore economico (Consiglio di Stato, sez. V – 23/10/2012 n. 5409), e detta impostazione non è smentita dall’eventuale irrisorietà del guadagno che in concreto il servizio produca.
Anche nel caso di specie, dunque, non può essere l’ammontare limitato dell’importo complessivo del servizio ad escluderne la rilevanza economica.
Accertato di essere in presenza di una concessione di pubblico servizio, dunque, non possono ritenersi applicabili le invocate disposizioni di cui agli artt. 30 e 143 del D.Lgs. n. 163 del 2006, che imporrebbero di adottare provvedimenti di riequilibrio economico finanziario degli investimenti effettuati al mutare delle condizioni di fatto e dei presupposti. Premesso, infatti, che l’art. 143 riguarda le concessioni di lavori pubblici e non anche di servizio pubblico (cfr. sulla specifica questione Consiglio di Stato, sez. V – 29/3/2010 n. 1790), l’art. 30, invece, fa riferimento alla necessità del perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio nella predisposizione degli atti di gara e, dunque, con riferimento agli affidamenti a venire.
Nella fattispecie in esame le convenzioni stipulate tra le parti in sede di proroga delle scadenze del contratto hanno espressamente perseguito l’obiettivo del mantenimento dell’equilibrio del sinallagma, ma il mancato raggiungimento delle stesso a causa dell’imminente cessazione del rapporto concessorio, se può rilevare in termini di quantificazione del giusto indennizzo, non può, però, precludere gli effetti voluti dal legislatore, come già evidenziato più sopra.
Per quanto attiene alla esclusione del servizio di illuminazione votiva dall’elenco di cui al decreto del Ministro dell’interno 31 dicembre 1983, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 17 gennaio 1984 (censura n. 8), appare opportuno ricordare che, il comma 26 dell’articolo 34 del d.l. 170/2012 (convertito con legge 17 dicembre 2012, n. 221), recita: “Al fine di aumentare la concorrenza nell’ambito delle procedure di affidamento in concessione del servizio di illuminazione votiva, all’articolo unico del decreto del Ministro dell’interno 31 dicembre 1983, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 17 gennaio 1984, al numero 18) sono soppresse le seguenti parole: <>”. Secondo la ricorrente, poiché il D.M. citato elenca le categorie dei servizi pubblici a domanda individuale, l’eliminazione del numero 18 comporterebbe automaticamente l’individuazione del servizio di illuminazione votiva come uno di quei servizi per l’affidamento dei quali debbono essere applicate le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, e in particolare l’articolo 30 e, qualora ne ricorrano le condizioni, l’articolo 125 e non anche l’art. 34 del d.l. 179/2012. Quest’ultima disposizione sarebbe stata, dunque, illegittimamente applicata alla fattispecie in esame.
La censura è priva di pregio.
Se, da un lato, non si può trascurare che, come affermato da questo Tribunale nella sentenza n. 1132 del 2013, la nuova qualificazione del servizio di illuminazione votiva è entrata in vigore, con disposizione da considerarsi innovativa e non anche ricognitiva, solo l’1 gennaio 2013 e, dunque, successivamente all’adozione degli atti censurati con il ricorso introduttivo, dall’altro la tesi di parte ricorrente prova troppo.
Se, infatti, non può essere revocato in dubbio che la volontà del legislatore fosse quella di sottrarre la particolare tipologia di servizi in parola allo specifico regime dei servizi a domanda individuale (che comporta, per il Comune, l’obbligo di stabilire la quota di copertura tariffaria a carico dell’utenza) e di imporre lo svolgimento di gare a livello locale per la gestione del servizio (con esclusione dei soli casi di gestione diretta per importi inferiori ai 40.000 euro annui), non può da ciò stesso desumersi anche il venire meno della qualificazione del servizio come pubblico locale (correlata alla presenza dei requisiti oggettivi di cui si è già più sopra detto) e l’incompatibilità del richiamato art. 30 del d. lgs. 163/2006 (il cui comma 3 recita: “La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”), con il particolare regime dettato dall’art. 34 del d. l. 179/2012, che, al contrario, risultano convergere verso il comune obiettivo di affidamento dei servizi pubblici mediante gara, nel rispetto dei principi comunitari. E se l’art. 30 del d. lgs. 163/2006 non prevede alcuna caducazione dei precedenti affidamenti diretti, ciò è dovuto al semplice fatto che si tratta di una norma destinata a disciplinare i nuovi affidamenti (e quindi di una norma “a regime”) e non anche le situazioni già in essere. Proprio in ragione di ciò trova giustificazione l’uso della locuzione “conseguentemente”, collegato al fatto che il legislatore ha voluto disciplinare il futuro affidamento delle concessione del servizio di illuminazione votiva richiamando a tal fine l’art. 30 citato.
Nella censura n. 9, la ricorrente si duole dell’illegittimo contenuto della relazione pubblicata ai sensi dell’art. 34 del D.L. 18 ottobre 2012, in quanto il tecnico che l’ha redatta avrebbe erroneamente affermato che l’affidamento è avvenuto senza gara ad una società non a partecipazione pubblica già quotata in borsa, la quale continuerebbe la gestione del servizio cimiteriale in regime di fatto e in assenza di valido titolo giuridico e tale affidamento non sarebbe conforme ai principi desumibili dall’ordinamento comunitario in quanto assentito in via diretta (fuori dal caso dell’in house providing). Secondo parte ricorrente, premesso che il fatto che la concessione abbia avuto origine in un affidamento diretto non la tramuterebbe di per sé in una gestione di fatto, poiché l’art. 34 del d.l. 179/2012 non prevede la stessa formula perentoria secondo cui “gli affidamenti diretti relativi a servizi….cessano, inderogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, alla data del …”, la cessazione stessa degli effetti non sarebbe inevitabile ed automatica. La disciplina comunitaria, infatti, imporrebbe solo la necessità di una durata della concessione proporzionata alla remunerazione dell’investimento e la collocazione sul mercato alla sua naturale scadenza, oltre alla chiarezza degli obblighi del concessionario e la predeterminazione delle misure di compensazione economica.
La tesi non appare convincente. I principi comunitari impongono l’apertura al mercato e il superamento di tutte le situazioni di affidamento diretto fuori dagli specifici casi di in house providing. Ciò comporta, secondo quanto previsto dal legislatore in attuazione delle indicazioni comunitarie, l’obbligo dell’Amministrazione di motivare, attraverso un’apposita relazione, la disapplicazione o il rinvio dell’applicazione dei suddetti principi, con conseguente conservazione di affidamenti già in essere. Se, però, al contrario, non si ravvisa uno specifico interesse pubblico alla conservazione della situazione in essere nella gestione del servizio in questione, il richiamo all’applicazione del regime comunitario appare sufficiente a giustificare la scelta di non opporsi all’operare della regola generale che vedeva la decadenza di tutti i servizi non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea entro il 31 dicembre 2013 (così il comma 21 dell’art. 34 del d.l. 179/2012). Conseguentemente, pur essendo condivisibile quanto affermato da questo Tribunale Amministrativo nella sentenza n. 415 del 2014 e cioè che, a seguito degli esiti del referendum e dell’abrogazione del d.l. 138/2011 da parte della Corte Costituzionale, deve ritenersi “caduta la possibilità di imporre agli enti locali un percorso ordinato e una tempistica certa verso l’apertura al mercato”, ciò non può inficiare la legittimità della scelta del Comune di anticipare tale effetto, non ravvisando interessi pubblici sottesi al mantenimento delle concessioni in essere.
In altre parole, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, nell’ordinamento (comunitario e nazionale) non è ravvisabile un generale principio secondo cui tutte le concessioni in essere, legittimamente stipulate al tempo in cui l’affidamento poteva essere diretto, possono essere mantenute, bensì quello secondo cui l’apertura al mercato deve avvenire nei più brevi tempi possibili, fatte salve le esigenze che impongono il passaggio con gradualità, le quali debbono essere esplicate nella relazione prevista dall’art. 34 più volte citato.
Né pare apportare validi argomenti di convincimento in senso contrario il riferimento al principio di certezza degli effetti delle decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici per cui, in forza dell’art. 120 del c.p.a., nei casi in cui sia mancata la pubblicità del bando “il ricorso non può comunque essere proposto decorsi sei mesi dal giorno successivo alla data della stipulazione del contratto”. La ratio delle due disposizioni è evidentemente diversa: nel caso dell’art. 120 c.p.a il legislatore (comunitario e nazionale) ha inteso dare attuazione al principio fondamentale della certezza giuridica, garantendo, a determinate condizioni, il consolidarsi degli effetti di un provvedimento potenzialmente suscettibile di impugnazione (e, quindi, di caducazione) in qualsiasi momento, con l’introduzione dell’art. 34 del d.l. 179/2012 ha, invece, perseguito lo scopo esattamente contrario e cioè quello di far cessare, seppur gradualmente ed assicurando le necessarie garanzie economiche destinate a tenere immuni i concessionari dai costi sostenuti e non ancora recuperati, gli effetti di convenzioni che da troppo tempo hanno immobilizzato il mercato e, per ciò stesso, si pongono in contrasto con gli altri principi fondamentali dell’ordinamento comunitario.
Infine, come già anticipato con riferimento all’analoga censura contenuta nel ricorso introduttivo, sub n. 2, nessun preavviso di rigetto era dovuto, ai sensi dell’art. 10 bis, dal momento che l’adozione del provvedimento rappresentato dalla relazione era imposto dall’art. 34 citato. Anche l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, peraltro, oltre ad essere esclusa in ragione della natura vincolata dell’attività posta in essere, in ogni caso non potrebbe condurre all’annullamento della deliberazione giuntale impugnata (e della relazione presupposta), atteso che parte ricorrente non ha evidenziato, nemmeno nel ricorso, alcuno specifico profilo che avrebbe potuto condurre l’Amministrazione a ravvisare l’opportunità di mantenere la concessione in essere. L’art. 21 octies esclude, quindi, l’annullabilità del provvedimento in ragione del suddetto vizio meramente formale.
Peraltro, la sopravvenuta entrata in vigore dell’art. 13 del d.l. 30 dicembre 2013, n. 150, il quale prevede che, “In deroga a quanto previsto dall’articolo 34, comma 21 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, al fine di garantire la continuità del servizio, laddove l’ente responsabile dell’affidamento ovvero, ove previsto, l’ente di governo dell’ambito o bacino territoriale ottimale e omogeneo abbia già avviato le procedure di affidamento pubblicando la relazione di cui al comma 20 del medesimo articolo, il servizio è espletato dal gestore o dai gestori già operanti fino al subentro del nuovo gestore e comunque non oltre il 31 dicembre 2014” determina, nel caso di specie, tale nuova ed ulteriore scadenza del contratto in essere.
Il rigetto anche del ricorso per motivi aggiunti comporta, parimenti, la reiezione anche della connessa domanda risarcitoria, per mancanza della condotta lesiva.
Le spese del giudizio possono essere parzialmente compensate, atteso che, ancorché il ricorso per motivi aggiunti sia stato notificato dopo la pubblicazione della sentenza avente ad oggetto l’analoga vicenda che ha visto protagonista la ricorrente, il ricorso introduttivo è stato notificato prima di tale momento e comunque quello per motivi aggiunti contiene censure per la prima volta rivolte avverso la deliberazione ex art. 34 del d.l. 179/2012.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara in parte infondato ed in parte improcedibile.
Respinge anche il ricorso per motivi aggiunti e la richiesta di risarcimento dei danni.
Accerta l’avvenuto prolungamento della concessione fino dalla data del 31/12/2014.
Dispone la parziale compensazione delle spese del giudizio e per l’effetto, condanna la ricorrente al pagamento, a favore del Comune resistente, della somma di Euro 2000,00 (duemila/00), oltre ad IVA, C.P.A.ed altri accessori, in quanto dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2014 con l’intervento dei magistrati:
Mario Mosconi, Presidente FF
Stefano Tenca, Consigliere
Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore
L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)