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Massima
Testo
Tar Campania, Sez. VII, 10 febbraio 2014, n. 921
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 447 dell’anno 2013, proposto da:
Bisesti Benedetta, Amalfitano Ciro, Amalfitano Daniela, Pelliccia Lorenzo, rappresentati e difesi dall’avv. Carmen Spadea, presso lo studio della quale sono elettivamente domiciliati, in Napoli, via S.Maria del Pianto n.164;
contro
Comune di Napoli, in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti Bruno Ricci, Giuseppe Dardo, Barbara Accattatis Chalons D’Oranges, Antonio Andreottola, Eleonora Carpentieri, Bruno Crimaldi, Annalisa Cuomo, Anna Ivana Furnari, Giacomo Pizza, Gabriele Romano, Anna Pulcini, con i quali è elettivamente domiciliato in Napoli, alla piazza Municipio-Palazzo S. Giacomo, presso la sede dell’Avvocatura Municipale;
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
a) del provvedimento n. 69 in data 23.10.2012, con cui il Coordinatore dell’Unità di Progetto ex O. di S. del Direttore Generale n. 5 del 10.5.2012 – Direzione Generale del Comune di Napoli, ha disposto la “revoca decadenziale della concessione di suolo cimiteriale di cui alla delibera di Giunta Municipale n. 75 del 18 maggio 1976” rilasciata in favore di Amalfitano Antonio, nonché l’acquisizione del manufatto funerario ivi realizzato;
b) di ogni altro atto preordinato, connesso e conseguente.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 novembre 2013 il dott. Michelangelo Maria Liguori e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con delibera di G.M. n. 75 del 18.5.1976 il Comune di Napoli concedeva a Amalfitano Antonio un suolo di mq. 5,98 (oltre mq. 3,66 di gaveta , mq 1,38 di gradini e mq. 2,43 di sottosuolo) per la realizzazione di un monumento funerario nel cimitero di Poggioreale, zona ampliamento – fondo Perretti – giardinetto 6, p.lla 80.
Con atto di compravendita a rogito notarile in data 25.3.2010 il suddetto manufatto, nel frattempo realizzato e pervenuto a Bisesti Benedetta, Amalfitano Daniela e Amalfitano Ciro, veniva venduto a Pelliccia Lorenzo, senza tuttavia che tale cessione fosse stata comunicata alla amministrazione concedente né tanto meno da questa previamente autorizzata.
2. Con nota comunale in data 21.6.2012 veniva comunicato l’avvio del procedimento di revoca della suddetta concessione.
Dopo la presentazione di osservazioni l’amministrazione comunale adottava (nei confronti di Bisesti Benedetta, Amalfitano Daniela, Amalfitano Ciro e Pelliccia Lorenzo) provvedimento di revoca definitivo sulla base delle considerazioni di seguito sintetizzate: a) la concessione cimiteriale, ai sensi degli artt. 823 e 824 del codice civile, ha natura amministrativa e riguarda un bene demaniale non alienabile; b) l’art. 53 del regolamento comunale di polizia mortuaria di cui alla delibera consiliare n. 11 del 21 febbraio 2006 vieta la cessione tra privati di manufatti funebri, dunque l’atto di compravendita sarebbe nullo; c) il bene demaniale, prima di essere assegnato ad altri soggetti, deve essere sempre preceduto da gara ad evidenza pubblica; d) non è ammissibile la concessione cimiteriale in favore di soggetti che agiscono con fini di lucro.
3. Il provvedimento suddetto veniva impugnato per i motivi di seguito indicati:
1) preliminarmente, sulla sussistenza dell’interesse a ricorrere;
2) i diritti al sepolcro, la concessione, la proprietà del manufatto;
3) eccesso di potere – disparità di trattamento – irragionevolezza manifesta – violazione del principio di correttezza giuridica e del principio di affidamento – violazione del divieto di irretroattività degli atti amministrativi;
4) violazione del principio della certezza giuridica e del legittimo affidamento;
5) nullità, annullabilità del provvedimento per inesatta interpretazione dell’art. 53 del Regolamento di Polizia Mortuaria per violazione di legge, violazione del principio di tipicità;
6) indeterminatezza e indefinibilità del provvedimento di “revoca”.
4. Si costituiva in giudizio l’amministrazione comunale intimata per chiedere il rigetto del gravame mediante articolate controdeduzioni che formeranno più avanti oggetto di specifica trattazione. In particolare faceva presente che, contestualmente all’atto di compravendita, sarebbe stata altresì stipulata una procura speciale in favore della parte venditrice per compiere tutti gli atti di gestione ordinaria e straordinaria inerenti al manufatto funerario fino alla vendita: di qui la presenza di un collegamento negoziale al fine di occultare alla PA la modificazione sul lato soggettivo del ridetto rapporto concessorio.
Parte ricorrente, in data 10 giugno 2013 ha depositato una memoria.
5. Alla pubblica udienza del 7 novembre 2013 la causa veniva infine trattenuta in decisione.
DIRITTO
6. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
6.1. Parte ricorrente lamenta, in primis, che l’amministrazione non si sarebbe avveduta che dalle concessioni di aree cimiteriali scaturirebbero diritti soggettivi perfetti di natura reale, assimilabili al diritto di superficie, come tali liberamente commerciabili tra privati e dunque pienamente opponibili all’amministrazione concedente.
Va premessa al riguardo una breve ricostruzione dello jus sepulcri. Secondo dottrina e giurisprudenza si tratta di un istituto complesso, scomponibile in più fattispecie: si distingue anzitutto un diritto primario al sepolcro, inteso come diritto ad essere seppellito ovvero a seppellire altri in un determinato sepolcro, diritto distinto a sua volta in sepolcro ereditario e sepolcro familiare o gentilizio; si distingue ancora un diritto sul sepolcro inteso in senso stretto, ossia come diritto sul manufatto che accoglie le salme; si identifica infine, ed è un accessorio dei due precedenti, un diritto secondario al sepolcro inteso come diritto di accedervi fisicamente e di opporsi ad ogni atto che vi rechi oltraggio o pregiudizio (per la distinzione fra diritto primario al sepolcro e diritto sul manufatto si veda per tutte la motivazione di Cass. civ., sez. III, 15 settembre 1997, n 919).
In una più ampia prospettiva, poi, lo jus sepulchri assume una diversa configurazione a seconda che venga inquadrato nell’ottica dei rapporti inter privatos o con riferimento alla relazione con l’amministrazione concedente. Sotto la prima angolazione tale diritto, come evidenziato dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2010, n. 1330), “garantisce al concessionario ampi poteri di godimento del bene e si atteggia come un diritto reale nei confronti dei terzi. Ciò significa che, nei rapporti interprivati, la protezione della situazione giuridica è piena, assumendo la fisionomia tipica dei diritti reali assoluti di godimento.
Tuttavia, laddove tale facoltà concerna un manufatto costruito su terreno demaniale, lo ius sepulchri costituisce, nei confronti della pubblica amministrazione concedente, un “diritto affievolito” in senso stretto, soggiacendo ai poteri regolativi e conformativi di stampo pubblicistico.
In questa prospettiva, infatti, dalla demanialità del bene discende l’intrinseca “cedevolezza” del diritto, che trae origine da una concessione amministrativa su bene pubblico (Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2000, n. 3313) … come accade per ogni altro tipo di concessione amministrativa di beni o utilità, la posizione giuridica soggettiva del privato titolare della concessione tende a recedere dinanzi ai poteri dell’amministrazione in ordine ad una diversa conformazione del rapporto…E’ quindi indubbio che il rapporto concessorio debba rispettare tutte le norme di legge e di regolamento emanate per la disciplina dei suoi specifici aspetti.
In particolare, lo “ius sepulchri” attiene a una fase di utilizzo del bene che segue lo sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella e che soggiace all’applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Questa disciplina si colloca a un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l’interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico”.
Nei termini sopra descritti deriva dunque che lo ius sepulchri può essere fatto valere alla stregua di un diritto reale soltanto nei confronti dei privati e non anche nei riguardi dell’amministrazione concedente, la quale esercita in questa direzione il proprio potere pubblicistico, nei confronti del concessionario, nell’ambito di un’ordinaria vicenda concessoria regolata dal diritto amministrativo.
Peraltro, va in via generale osservato che, anche prima dell’entrata in vigore del codice del 1942, i cimiteri erano beni di proprietà comunale, come tali in linea di principio non liberamente disponibili; di conseguenza la costituzione di cappelle private nell’ambito degli stessi si configurava pacificamente non come cessione del relativo spazio ad un privato acquirente quanto, piuttosto, come concessione dello stesso.
Sul punto specifico, una norma nazionale espressa fu introdotta con l’art. 71 del R.D. 21 dicembre 1942, n. 1880, sostitutivo di un regolamento del 1892, secondo il quale la cessione a terzi delle tombe di famiglia era consentita se non “incompatibile con il carattere del sepolcro” e “sempre che i regolamenti comunali ed i singoli atti di concessione non dispongano altrimenti”.
Il regolamento del 1942 fu poi superato dal D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803, che all’art. 94 introdusse un divieto assoluto di cessione, nel senso che “Il diritto di uso delle sepolture private è riservato alla persona del concessionario ed a quelle della propria famiglia ovvero alle persone regolarmente iscritte all’ente concessionario, fino a completamento della capienza del sepolcro”: divieto questo confermato dall’identico primo comma dell’art. 93 del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, succeduto al precedente.
Tale regime giuridico è inoltre comprovato dall’art. 824, secondo comma, del codice civile del 1942, a norma del quale i cimiteri comunali sono soggetti senz’altro al regime giuridico del demanio pubblico, così risultando in primo luogo inalienabili ai sensi dell’art. 823 c.c., primo comma. In questa direzione il codice civile ha introdotto una conformazione generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi diritti, che non fa in alcun modo salve le situazioni preesistenti: ne consegue che la natura semplicemente concessoria del diritto di sepolcro andrebbe, in tesi, tenuta attualmente ferma anche se per ipotesi fosse stata esclusa dal regime previgente.
In termini riassuntivi la cessione di un diritto di sepoltura privata, anche qualora consentita, non si può configurare come una semplice alienazione da privato a privato ma richiede costantemente – e tale è un punto dirimente della presente vicenda – l’intervento in positivo dell’autorità concedente. Tanto è altresì ricavabile da un esplicito dato normativo, pur riferito ad una norma non più vigente, ovvero dal già citato art. 71 del R.D. 21 dicembre 1942 n. 1880 che, nel disciplinare la vicenda traslativa del diritto di sepolcro allora consentita, significativamente configurava l’acquirente come “nuovo concessionario” prevedendo, al tempo stesso, la possibilità di un “veto” del Comune alla cessione stessa.
Su queste premesse è agevole ricostruire i dicta giurisprudenziali in materia che si sostanziano nella affermazione secondo cui la cessione di un diritto al sepolcro, tanto nel suo contenuto di diritto primario di sepolcro quanto nel suo contenuto di diritto sul manufatto, va in concreto configurata come voltura di concessione demaniale, sottoposta al requisito di efficacia della autorizzazione del concedente, ovvero del Comune (così Cass. civ., sez. II, 25 maggio 1983, n. 3607, nonché TAR Calabria, 26 gennaio 2010, n. 26; TAR Sicilia Catania, sez. III, 24 dicembre 1997, n. 2675; T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 1° giugno 1994, n. 989; Tar Lombardia Brescia, 30 aprile 2010, n. 1659).
In altri termini la cessione del manufatto postula, ancora più a monte, il subentro dell’acquirente nel rapporto concessorio con la PA: e ciò in quanto non è possibile separare – anche solo in termini concettuali – il suolo demaniale dall’elemento funerario sopra di esso realizzato, formando i due beni un unicum inscindibile anche in base ai principi generali che presiedono all’istituto del diritto di superficie di cui all’art. 953 cod. civ.: si tratta del c.d. effetto devolutivo, in base al quale le opere edilizie realizzate al di sopra di beni demaniali acquisiscono anch’esse, allo scadere della concessione, la medesima natura di bene pubblico (si veda in tal senso pure l’art. 44 del citato regolamento comunale di polizia mortuaria, a norma del quale “i manufatti costruiti da privati su aree cimiteriali poste in concessione diventano di proprietà dell’Amministrazione Comunale come previsto dall’art. 953 del C.C., allo scadere della concessione, se non rinnovata”. Aspetto peculiare questo sul quale si avrà peraltro modo di tornare più avanti).
Il divieto di cessione deve allora essere considerato alla stregua di specificazione ed estrinsecazione del divieto di subentro inautorizzato (divieto che tra l’altro sussisterebbe anche in assenza della ridetta previsione regolamentare).
In questa direzione il regolamento locale del 2006, nel disciplinare all’art. 53 il rapporto concessiorio, afferma, come già detto, che la concessione non è cedibile fra privati. Tale norma non è dunque da considerarsi residuale ed amministrativamente “in bianco” (priva cioè di una conseguenza esplicitata) come potrebbe sostenersi, ma contribuisce a specificare quello che a chiare lettere impone l’art. 44 e seguenti circa la non alienabilità del diritto di uso del bene demaniale.
Il divieto della cessione fra privati (ex art. 53 reg. cit.) va così interpretato per la sua portata testuale, che è quella di vietare che i privati, senza la partecipazione della amministrazione pubblica, possano liberamente disporre della concessione.
Trattasi – si ribadisce – di formula pienamente esemplificativa di quel venire meno ai propri obblighi di concessionario che l’art. 44 sanziona per l’appunto con la decadenza.
E ciò in quanto il subingresso nel rapporto concessorio, come ogni altra modifica del lato soggettivo della concessione, deve essere previamente autorizzato dall’ente concedente.
Costituisce infatti pacifica acquisizione quella secondo cui la scelta del concessionario di un bene demaniale da parte dell’amministrazione concedente sia essenzialmente fondata sull’intuitus personae, nel senso della necessaria sussistenza di un rapporto fiduciario tra l’ente concedente e il concessionario, del quale è positivamente apprezzata, oltre che l’integrità morale, anche l’idoneità a svolgere adeguatamente tutti i compiti e le funzioni oggetto della concessione: dunque non sarebbe ammissibile una cessione della concessione a terzi senza il preventivo assenso dell’amministrazione concedente (cfr., ex multis, T.A.R. Piemonte, sez. II, 28 maggio 2001, n. 1155; Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2012, n. 1298).
Tale coinvolgimento, tuttavia, nel caso di specie non si è tuttavia verificato proprio per scelta dei contraenti privati interessati.
D’altra parte, la volontà di celare alla PA l’avvenuta cessione del bene è parimenti evincibile dalla sussistenza di una procura speciale (cfr. nota prot. n. 280/P.G. del 17.1.2013 a firma del Responsabile della sezione di P.G. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, prodotta dal Comune di Napoli e rimasta incontestata) contestualmente rilasciata in favore dell’acquirente, affinché quest’ultimo provvedesse alla gestione ordinaria e straordinaria del manufatto funerario. E ciò proprio nell’obiettivo concreto di occultare alla PA la vendita del bene e dunque il subingresso de facto avvenuto nel rapporto concessorio di cui si controverte, atteso che colui che acquista il bene entra nella piena signoria del bene senza avere necessità di alcuna ulteriore procura da parte del venditore, il quale correlativamente perde ogni potere sulla res: in tale prospettiva sussiste dunque un collegamento negoziale tra l’atto di compravendita e la procura stessa, tale da rivelare una machinatio nei termini di cui si è appena detto.
Ne consegue da quanto appena detto che neppure è possibile ipotizzare la mancanza di un divieto di cessione del manufatto (rectius, di una sua cessione in assenza di espressa autorizzazione della PA concedente), atteso che comunicazione del passaggio di proprietà – pacificamente avvenuto insciente domino, ossia all’insaputa della PA concedente che non è stata messa in grado di esprimere al riguardo il proprio assenso – sarebbe stata al contrario vieppiù necessaria, alla luce della normativa e dei principi in subiecta materia vigenti e sopra partitamente descritti.
Altresì, neppure è ipotizzabile una illegittimità dell’azione amministrativa, legata alla circostanza che l’amministrazione comunale non si sarebbe avveduta che la disposizione regolamentare citata (art. 53) vieterebbe la cessione della concessione e non del diritto superficiario sul manufatto funerario; o anche ad una violazione dell’art. 42 Cost., sull’ipotesi che il Comune, mediante il suddetto divieto di cessione e la conseguente decadenza dalla concessione, avrebbe di fatto determinato una espropriazione senza indennizzo del bene funerario di cui si controverte.
Osserva al riguardo il collegio che, anche a voler ammettere che il richiamato effetto devolutivo normalmente scatti allo scadere del rapporto concessorio (anche nell’ipotesi in cui si addivenga ad un rinnovo del medesimo), la tesi di parte ricorrente non tiene sufficientemente conto del fatto che, come già detto al punto che precede, suolo demaniale dato in concessione e manufatto funerario sopra di esso realizzato convivono in un rapporto di indiscutibile inscindibilità (quanto meno di fatto, sino ad un certo momento).
In altre parole, la cessione del manufatto non potrebbe mai non implicare altresì la cessione (o meglio il subentro) della concessione: di qui la sussistenza di un rapporto di specificazione o, se si preferisce, di dipendenza tra l’ipotesi di cessione del manufatto e quella di inevitabile e sostanziale subentro (peraltro inautorizzato) nella vicenda concessoria.
In siffatta direzione, obiettivo del divieto di cessione del bene funerario – si ripete ancora una volta – è quello di colpire in concreto il subingresso non autorizzato nell’utilizzo del suolo demaniale.
Quanto poi al destino del bene su di esso realizzato va da sé che, a seguito della pronunzia di decadenza legittimamente (come si avrà modo di dimostrare attraverso la presente decisione) dichiarata dalla PA, la concessione giunge automaticamente – seppure non naturalmente – a scadenza, con ogni conseguenza in ordine all’effetto devolutivo di cui si è ampiamente già detto.
Di qui la trasformazione in bene demaniale anche del manufatto, per effetto del provvedimento di decadenza in questa sede gravato, e la possibilità che lo stesso possa essere affidato ulteriormente in concessione sulla base delle regole e dei principi vigenti in subiecta materia.
Alla luce di quanto appena affermato non è quindi possibile ipotizzare il verificarsi di una illegittimità secondo lo schema in discussione, atteso che in questo modo, ossia attraverso l’applicazione del meccanismo devolutivo di cui all’art. 953 c.c., si realizza non una fattispecie espropriativa ma, piuttosto, uno dei modi di acquisto (tipizzati) della proprietà immobiliare mediante una disposizione chiara, trasparente, certa e di prevedibile applicazione, rispettosa, in quanto tale, degli insegnamenti della Corte di Strasburgo.
7. Parimenti, va evidenziato come neppure sarebbe ipotizzabile una violazione dell’art. 11 delle preleggi, in quanto il richiamato regolamento comunale troverebbe applicazione, in via retroattiva, anche per le concessioni rilasciate anteriormente alla sua entrata in vigore.
Al riguardo la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che “non è persuasiva … l’affermazione … secondo cui, una volta costituito il rapporto concessorio, questo non potrebbe essere più assoggettato alla normativa intervenuta successivamente, diretta a regolamentare le concrete modalità di esercizio del ius sepulchri, anche con riferimento alla determinazione dall’ambito soggettivo di utilizzazione del bene.
Non è pertinente, quindi, il richiamo al principio dell’articolo 11 delle preleggi, in materia di successione delle leggi nel tempo, dal momento che la nuova normativa comunale applicata dall’amministrazione non agisce, retroattivamente, su situazioni giuridiche già compiutamente definite e acquisite, intangibilmente, al patrimonio del titolare, ma detta regole destinate a disciplinare le future vicende dei rapporti concessori, ancorché già costituiti.” (Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2010, n. 1330).
Questo stesso Tribunale, proprio con riguardo alla medesima disposizione regolamentare, ha poi affermato che “è evidente che la nuova regola debba trovare applicazione nei confronti di qualsiasi concessione mortuaria, senza che abbia rilevanza il momento temporale in cui la stessa è stata rilasciata. In tale ipotesi, invero, non può correttamente parlarsi di applicazione retroattiva in senso tecnico della norma sopravvenuta, la quale si limita a regolamentare i futuri atti di cessione fra privati, onde è senza dubbio rivolta verso il futuro. È ben vero che la nuova disciplina altera le regole cristallizzate al momento del rilascio della concessione, ma tale circostanza deve trovare il suo apprezzamento nel rispetto dell’affidamento creato nel privato e non nel principio di (tendenziale) irretroattività dell’azione amministrativa.
Così impostata la questione, non sembra che l’amministrazione comunale abbia inciso indebitamente sul legittimo affidamento creato nei privati titolari di concessioni già rilasciate al momento dell’entrata in vigore del nuovo regolamento di polizia mortuaria.
Da un lato, infatti, sarebbe stato irragionevole prevedere una regolamentazione differenziata fra i titolari delle vecchie concessioni ed i titolari delle nuove concessioni; dall’altro il bilanciamento degli opposti interessi trova un punto di equilibrio nella previsione di un regime transitorio (art. 58), il quale consente, per dodici mesi dall’entrata in vigore del nuovo regolamento, di alienare il diritto concessorio nei termini stabiliti dalla previgente disciplina.
Pertanto, tenuto conto che la negativa incidenza in termini di valutazione economica del diritto concessorio non vale di per sé a rendere illegittima la nuova disciplina, il ricorso deve essere respinto.” (Tar Campania/Napoli nr. 4427/2009).
Non si pone dunque – ad avviso del Collegio – alcuna questione di retroattività, ma solo di adeguamento alla disciplina amministrativa vigente – che sempre continua a connotare il diritto acquisito con la concessione – in base al generalissimo criterio tempus regit actum.
D’altronde, qualora si tratti, come nella specie, di situazioni giuridiche durevoli nel tempo, queste restano soggette, per il periodo successivo alla formazione dell’atto amministrativo da cui esse scaturiscono, allo ius superveniens, in forza appunto del principio del tempus regit actum.
In tali ipotesi trova dunque applicazione la legge vigente ratione temporis, secondo i criteri di successione delle leggi nel tempo, in quanto la legge sopravvenuta incide sulle situazioni giuridiche durevoli nel tratto che si svolge successivamente alla adozione dell’atto amministrativo che ne legittima l’esistenza, sulla base di una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica stessa.
In altre parole il principio dell’irretroattività non può essere invocato con riferimento alla data di adozione dell’atto amministrativo di concessione.
E’ chiaro, di conseguenza, che non sono ravvisabili né violazione di affidamento, né inadeguatezza dell’azione amministrativa svolta nella specie.
8. Da ultimo vanno esaminate le argomentazioni con le quali si lamenta che il Comune di Napoli non avrebbe potuto adottare la grave sanzione della decadenza dalla concessione.
Rileva al riguardo il Tribunale che, al di là delle imprecisioni terminologiche, è fuori di dubbio che l’amministrazione abbia (solo) inteso stigmatizzare il venir meno del presupposto fondamentale del rapporto concessorio, ossia il carattere personale dello stesso che da sempre ne connota una delle principali caratteristiche: si è già richiamata la normazione del 1942, vale altresì ribadire il rimando al DPR del 1975 ove all’art. 92 afferma il divieto assoluto di trasmissibilità.
Deve allora concludersi, a giudizio del Tribunale, che, al di là della definizione utilizzata, la decadenza dalla concessione è in re ipsa rispetto a colui che si spoglia (a guisa quasi di rinuncia) del bene concesso, ponendo in crisi la stessa identificabilità “genetica” del rapporto concessorio: non v’è comunque alcuna difficoltà esegetica ad inserire testualmente la decadenza pronunciata nell’ambito della violazione degli oneri di manutenzione della concessione di cui all’art. 44 in quanto la manutenzione è anche, all’evidenza, da rapportare ad aspetti giuridici (art. 44 c. 9.: “La concessione può essere soggetta:… a decadenza, ..per inadempienza agli obblighi del concessionario in fase di costruzione dei manufatti e di mantenimento degli stessi”).
Si tratta in altre parole non di revoca per sopravvenuti motivi di interesse pubblico quanto, piuttosto, di decadenza per inadempimento del concessionario. Inadempimento legato, in particolare, agli obblighi sul medesimo gravanti e derivanti sia dal provvedimento concessorio, sia dalla citata disposizione del regolamento comunale, sia infine del codice civile nella parte in cui (art. 823) si afferma l’inalienabilità del bene demaniale.
La pronuncia di decadenza, invero, consiste nel ritiro di un provvedimento per l’inadempimento da parte del destinatario di obblighi imposti (decadenza sanzionatoria), e, ricompresa senz’altro fra gli atti di ritiro, si differenzia dagli altri provvedimenti rientranti in siffatta categoria (quali l’annullamento o la revoca) perché non comporta un riesame dell’atto, alla stregua della sua legittimità o opportunità, bensì una valutazione del comportamento tenuto dal destinatario durante lo svolgimento del rapporto o un nuovo accertamento dei requisiti di idoneità per la titolarità dell’atto ampliativo: quindi l’oggetto dell’indagine compiuta dall’Autorità, che pronuncia la decadenza , si sposta dall’atto, in sé e per sé considerato, al comportamento o alla personalità del destinatario (cfr. T.A.R. Abruzzo Pescara, sez. I, 10 gennaio 2012, n. 6).
I provvedimenti di decadenza, in particolare, hanno natura sanzionatoria in quanto essi evidenziano, a carico del destinatario di un precedente provvedimento ampliativo, inadempimenti o carenze di requisiti, tali da impedire la costituzione o la prosecuzione del rapporto sorto per effetto del suddetto provvedimento ampliativo (cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 7 aprile 2006, n. 985).
In questa direzione la decadenza dall’autorizzazione amministrativa è un atto dovuto, vincolato ed espressione di un potere di autotutela ad avvio doveroso, che non richiede specifiche valutazioni in ordine all’interesse pubblico alla sua adozione (T.A.R. Liguria, sez. I, 21 settembre 2011, n. 1393).
9. Alla luce delle argomentazioni sopra svolte si ritiene dunque che l’amministrazione comunale abbia legittimamente disposto la revoca [rectius, decadenza] della concessione, anche solo in presenza della conclamata inadempienza posta in essere dall’originario concessionario mediante la vendita del manufatto, e dunque mediante la volturazione della concessione insciente domino.
In altre parole, tale motivo di decadenza è da solo sufficiente a sorreggere la legittimità del provvedimento impugnato.
10. Pertanto, in conclusione, il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Settima)
pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, proposto da Bisesti Benedetta, Amalfitano Ciro, Amalfitano Daniela e Pelliccia Lorenzo lo respinge.
Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione in favore del Comune di Napoli delle spese di giudizio, che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2013 con l’intervento dei magistrati:
Alessandro Pagano, Presidente
Michelangelo Maria Liguori, Consigliere, Estensore
Diana Caminiti, Primo Referendario
L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)