Carrozze funebri

Recuperato dal blog www.rosalio.it sulla base del post di Gaetano Basile, pubblicato il 5 marzo 2008

Nel 1928 ci volevano duemila lire per un funerale decoroso: un ultimo viaggio in carrozza verso l’eterna dimora. Toccando ferro, diamo un’occhiata alle tariffe d’epoca che prevedevano:
“Lit. 1.115 per carro semplice a due cavalli, di II classe.
Lit. 2.015 per carro di lusso a quattro cavalli, di I classe.
Lit. 2.160 per carro tipo Bombardone a sei cavalli.”
Una vera fortuna essendo quella la bella epoca in cui si cantava “…se potessi avere mille lire al mese…”
A Palermo l’appalto per i “trasporti funebri con carrozze a cavalli” venne affidato, sul finire dell’Ottocento, a Gioacchino Provenzale a cui, nel 1923, subentrò il figlio Giovanni.
Le carrozze impiegate a quell’epoca avevano strutture a colonnine tornite e capitelli che le facevano rassomigliare a templi greci: il classicismo si faceva sentire anche lì. Il regolamento comunale prevedeva che l’appaltante tenesse in scuderia un minimo di ventiquattro cavalli di cui “sei bianchi per i trasporti su carro dipinto di bianco ad uso di minori e vergini”. Gli altri cavalli dovevano essere di mantello morello o baio molto oscuro. I cavalli timonieri di altezza al garrese “non inferiore a metro uno e settanta”.
Il carro di lusso di prima classe prevedeva un attacco fino a otto cavalli “se attaccati in due quadriglie, con giacchetti di servizio”. Cioè, nell’impossibilità di guida con le redini, di essere condotti da “giacchetti cavalcanti in sella”.
Saranno questi gli ultimi “giacchetti” in servizio.
I cavalli furono imponenti frisoni, ma anche indigeni di buona mole, sempre, in ogni caso, vecchi cavalli per evitare rallegrate o improvvise allungate di galoppo, fuori tema per quel mesto “pio servizio”.
Scuderie e rimesse si trovavano dietro il cimitero del convento dei Cappuccini e ci resteranno fino al 1962.
Col cambiare dei tempi e delle mode, cambiò anche la carrozza da morto: dal classico si passò al barocco. Dalla Ditta Bellomunno di Napoli vennero acquistati dei carri funebri enormi: un trionfo di angeli, putti, festoni e ghirlande di un nero assoluto, interrotto soltanto dall’argento dei quattro grandi fanali ad acetilene. Tutto quel nero sembrò eccessivo perfino a Giovanni Provenzale che decise di dorare opportunamente quei carri: che diamine!
Quel dorato però ricordò a molti palermitani il rame luccicante degli ottoni di una banda da cui il nome di “bombardone” con cui volgarmente sono, ancora oggi, ricordati.
Si diede pure un tocco di “doratura” alla funerea livrea per cui il cocchiere venne rivestito di “palandrana lunga nera, ma bordata di giallo” e si aggiunsero “frange dorate alla feluca nera di panno”.
In codesta montura, in serpa ai “bombardoni”, andò in giro per tanti anni Don Bicienzu, al secolo Vincenzo Marrone, il più celebre di quei cocchieri. Abilissimo guidatore fece la spola tra la città, le borgate e i suoi quattro cimiteri.
A carrozza vuota, e molti lo ricordano ancora, girava per le vie cittadine al trotto o al galoppo fra gli scongiuri discreti (o quasi) degli adulti e gli insulti irriverenti dei monelli.
Ma lui non ci faceva caso. Badava ai suoi cavalli, chiamandoli per nome, incitandoli, servendosi sempre della voce, mai della frusta. Spugna sempre alla mano per i cavalli e pezza pronta per i suoi stivali sempre impeccabilmente lucidi.
Solo una volta si lasciò prendere la mano: fu quando i ragazzini passarono dagli insulti al lancio delle pietre ai suoi adorati cavalli. Per Don Bicienzu era troppo, la misura era già colma, per cui ne acchiappò uno e lo rinchiuse nella carrozza vuota. Se ne rammaricò per tutto il resto della sua vita. Se ne scusò fino al 1930, anno in cui finì pure lui, passeggero in quella carrozza, accompagnato dagli amati cavalli all’ultima dimora.
Gli succedette in serpa il figlio Cosimo, ma questi amava più il vino che i cavalli. E soprattutto quando aveva sacrificato a Bacco, la sua mano si faceva pesante. Se la prendeva con i cavalli pure se soffiava scirocco o veniva giù il diluvio.
E il diluvio venne esattamente il 17 aprile del 1943.
“Plurimotori americani hanno bombardato ieri Palermo, Catania e Siracusa… Sono segnalati fra la popolazione 20 morti e 30 feriti a Palermo…” come riferì il “Bollettino di guerra N. 1058 del 18 aprile 1943”.
Cosimo Marrone veniva dai Rotoli, il cimitero palermitano del litorale di Vergine Maria. Aveva messo i quattro cavalli al trotto sulla salita dei Quattro Venti, davanti all’Ucciardone, quando fu sorpreso da quel diluvio di bombe. Una centrò la carrozza uccidendolo; si salvarono però i cavalli. Neppure una scalfittura forse perché protetti dall’Alto dalla buonanima di Don Bicienzu.
Giovanni Cottone ebbe l’appalto del servizio nel 1955. Le ultime sue “carrozze da morto” circolarono fino al 1962; a partire da quell’anno subentrò il servizio automobilistico. In pratica sopravvissero per trentadue anni a “coupè e landò con o senza cocchiere” che dava in affitto, in via Bottai, Rosario Mucera, più conosciuto ai palermitani come “Piscimortu”. Quelle di Giovanni Cottone furono le ultime carrozze a servizio degli uomini, vestigia dell’antica vanità dei vivi.

(testo tratto da Donne cavalli e re – Ed. Dario Flaccovio)

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