Massima
Testo
Riferimenti: Giust. civ. Mass. 1998, 2414; Cass. 1697-1997, 8873-1991, 6065-1985)
Massima:
Cassazione civile, sez. I, 21 novembre 1998, n. 11788
In tema di interruzione del processo, la morte della parte appellata verificatasi dopo la prima udienza di trattazione, ma prima della precisazione delle conclusioni, e senza che la parte stessa risulti costituita, non comporta l’interruzione automatica del processo ex art. 299 c.p.c. (norma applicabile solo nel caso di morte verificatasi in pendenza del termine di costituzione, e, dunque, prima che la costituzione stessa avvenga, in cancelleria ovvero dinanzi all’istruttore), rilevando, per converso, l’evento morte, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., soltanto se esso risulti notificato o certificato dalla relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui al precedente art. 292, e senza che spieghi influenza la eventuale mancanza (come nella specie) di una formale dichiarazione di contumacia della parte poi deceduta.
Testo completo:
Cassazione civile, Sez. I, 21 novembre 1998, n. 11788
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRIECO Angelo Presidente
Dott. PAPA Enrico Rel. Consigliere
Dott. FELICETTI Francesco Consigliere
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria Consigliere
Dott. MACIOCE Luigi Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AVALLONE FRANCESCO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BOCCIONI
4, presso l’avvocato A. SMIROLDO, rappresentato e difeso
dall’avvocato RAFFAELE RASCIO, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
BOGLIOLO MARIO, BOGLIOLO ALFREDO, BARDI BICE, elettivamente
domiciliati in ROMA VIA G. SCALIA 39, presso l’avvocato M. MORETTO,
rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO TAFURI, giusta delega a
margine del controricorso;
– controricorrenti –
contro
BARDI MATILDE, in qualità di erede di RAZEDO Maria Ida;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2063-96 della Corte d’Appello di NAPOLI,
depositata il 07-08-96;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
03-06-98 dal Consigliere Dott. Enrico PAPA;
udito per i resistenti, l’Avvocato Tafuri, che ha chiesto il rigetto
del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Stefano SCHIRÒ, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con citazione notificata il 5 settembre 1983, Francesco Avallone convenne, davanti al Tribunale di Napoli, Maria Ida Razeto, Alfredo Bogliolo, minore rappresentato dai genitori Mario Bogliolo e Bice Bardi, nonché questi ultimi in proprio, esponendo che: a) fin dal 1959 era entrato in contatto con Arcangelo Esposito, già proprietario dell’albergo “Arcate” di Procida e poi dichiarato fallito, con l’intento di acquisire le attività fallimentari, ed in effetti, attraverso l’interposta persona di Natale Cinquegrana, aveva preso in affitto l’azienda alberghiera; b) successivamente, aderendo alla proposta in tali sensi dell’Esposito, aveva rilevato tali attività, con accollo delle passività, ed, associandosi ad Ermelinda Maimone (zia del Cinquegrana), si era reso cessionario dei due terzi, suddivisi in parti uguali – “allo scopo di ottenere una titolarità apparente con prestanomi che offrissero garanzie sotto il profilo del rapporto fiduciario e gli consentissero l’espletamento di una effettiva gestione dell’albergo” – fra la moglie Matilde Bardi e la suocera Maria Ida Razeto; c) omologato (il 15 febbraio 1961) il concordato fallimentare, aveva continuato, in qualità di proprietario, la gestione dell’albergo, dapprima in ragione di due terzi, e, dal 1965 – avendo rilevato la quota della Maimone, intestandola fittiziamente ancora alla moglie -, per l’intero; d) fin dal 1959, in definitiva, era stato nella detenzione e nel possesso dell’albergo, ai titoli indicati, e, dal 1965, quale esclusivo proprietario, essendo in tale veste “conosciuto e considerato in tutto l’ambiente”, ed avendone affidato la gestione, a partire dal 1972, a terzi; e) la Razeto, per contro, non aveva mai avuto relazioni con l’immobile e con l’esercizio, non aveva mai erogato somme ed inoltre, dal giugno 1964, “gli aveva rilasciato procura “ut alter ego” con i più ampi poteri anche di disposizione”; f) con atto pubblico del 18 dicembre 1981, la stessa suocera, ormai ottantaseienne, aveva venduto la quota di un terzo, della quale era intestataria fittizia, al nipote quindicenne Alfredo Bogliolo, rappresentato dai genitori, rispettivamente figlia e genero di essa Razeto; g) Mario Bogliolo e Bice Bardi, genitori dell’acquirente, erano perfettamente a conoscenza della vicenda e sapevano pertanto della intestazione fittizia alla donna e della reale esclusiva pertinenza dell’immobile e dell’attività in capo all’esponente Avallone.
Su tali premesse, chiese dichiararsi fittizio l’acquisto, sopra precisato, in capo alla Razeto e dichiararsi, correlativamente, la proprietà in capo ad esso attore della quota delle attività fallimentari provenienti dall’Esposito, fra cui l’immobile destinato ad attività alberghiera; in via gradata, dichiararsi l’acquisto della detta quota, da parte dell’istante, per usucapione; dichiararsi comunque la nullità e l’inefficacia dell’atto notarile di vendita dalla Razeto al nipote Alfredo Bogliolo; condannarsi la Razeto nonché Mario Bogliolo e Bice Bardi al risarcimento dei danni – da determinarsi in corso causa e previa concessione di sequestro conservativo -; condannarsi gli stessi, in solido, alla refusione delle spese processuali.
Dei convenuti, si costituì Mario Bogliolo, opponendosi alla domanda in quanto, da un alto, la natura giudiziale del titolo di provenienza della Razeto non consentiva il prospettato inquadramento nello schema dell’interposizione fittizia, e, dall’altro, sussistevano elementi che inducevano ad escludere l’affermata usucapione da parte dell’attore; a tale ultimo riguardo, evidenziò che l’affitto a terzi dell’albergo, concesso da Bice Avallone (figlia dell’attore, divenuta proprietaria dei due terzi) e dallo stesso attore, quale procuratore della Razeto, dopo la vendita da quest’ultima al nipote, aveva già dato luogo a separato giudizio tra Alfredo Bogliolo e la stessa Bice Avallone (nonché Sebastiano Cultrera, conduttore dell’azienda alberghiera), chiarendo altresì che la procura, a suo tempo rilasciata all’Avallone medesimo non avrebbe consentito l’intromissione nell’organizzazione aziendale dell’altro genero della donna – vale a dire dello stesso convenuto costituito -, fin dal 16 luglio 1967 munito, invece, dei medesimi concorrenti poteri rappresentativi della donna.
Ammesso l’interrogatorio formale deferito dall’attore alla Razeto, quest’ultima si costituì a sua volta, opponendosi alla domanda, con argomentazioni analoghe a quelle di Mario Bogliolo.
Nel corso della successiva istruzione, si costituì in proprio anche Alfredo Bogliolo – frattanto divenuto maggiorenne -, riportandosi alle istanze già proposte nel suo interesse.
Seguì una prova orale – con esclusione, in particolare, di un capitolo ritenuto in contrasto con la prospettazione della interposizione reale ed attinente invece ad una mai dedotta interposizione reale per “pactum fiduciae” -, la cui assunzione rimase sospesa (udienza del 3 marzo 1988) in dipendenza della produzione, ad opera dell’Avallone, di una dichiarazione sottoscritta dalla Razeto in data 2 luglio 1966.
Infine, precisate le conclusioni contrapposte delle parti. fra cui si segnala, per costituire ancora materia della controversia, la pregiudiziale richiesta dell’Avallone di “previa integrazione del contraddittorio, ove occorra” -, il Tribunale, con sentenza 12730 depositata il 5 novembre 1992, respinse le domande. Ritenne, infatti, infondata quella principale, inerente alla affermata interposizione fittizia, anche con riguardo alla diversa angolazione poi precisata dall’attore – col riferirla alla proposta di concordato -, in quanto il trasferimento traeva esclusivo titolo dalla sentenza di omologazione e non dal negozio intercorso tra il fallito e l’assuntore; precisò l’estraneità al giudizio della diversa ipotesi di interposizione reale, trattandosi di domanda non ritualmente introdotta, e – anche in conseguenza di ciò – dichiarò nuova la domanda di pronunzia costitutiva del trasferimento, formulata in sede di precisazione; osservò infine, circa la richiesta subordinata di usucapione, che gli atti posti in esame dall’Avallone non potevano essere univocamente ritenuti espressione di possesso “uti dominus”, nel complesso contesto considerato, che lo aveva visto amministratore sia della moglie che della suocera.
Interponeva gravame l’Avallone, riproducendo le proprie richieste di merito, e sollecitando, in via istruttoria, l’ulteriore prova orale, ma la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 2 luglio 1996 depositata col n. 2063 il 7 agosto seguente, ha respinto l’impugnazione.
La Corte ha superato la pregiudiziale richiesta dell’appellante, di interruzione del processo, in dipendenza della morte della Razeto, per essersi l’evento verificato dopo il termine per la costituzione della parte evocata in giudizio e, quindi, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall’art. 299 c.p.c..
Ha rigettato l’istanza istruttoria di ulteriore assunzione della prova per testi, puntualizzando che essa si riferiva, in realtà, alla prova rettamente non ammessa in prime cure e non alla prosecuzione di quella non espletata – dopo la richiamata produzione documentale -, tuttavia rilevandone l’inammissibilità per contrasto col principio di “unitarietà e infrazionabilità della prova testimoniale” desumibile dalle disposizioni degli artt. 244 e 345 c.p.c..
Nell’esaminare quindi la richiesta di integrazione del contraddittorio, formulata col primo motivo di gravame, ha affermato l’irrilevanza di eventuali accordi tra assuntore del concordato e fallito e fra questi stessi ed i terzi – anche con riguardo alla disciplina dell’art. 138 l. fall. -, e l’impossibilità di configurare una interposizione fittizia con riferimento al titolo giudiziale di provenienza, escludendo quindi l’ipotizzato litisconsorzio necessario.
Relativamente al secondo motivo, ha confermato la inammissibilità della domanda che, sul presupposto di una interposizione reale e di un obbligo di ritrasferire, era stata formulata nel corso del giudizio di primo grado, per conseguire una pronunzia costitutiva del trasferimento della quota, “ex” art. 2932 c.c., espressamente escludendo che, nell’esposizione iniziale dei fatti, fosse ravvisabile una situazione di interposizione reale, in quanto la contestazione della validità, efficacia ed opponibilità del trasferimento al minore presupponeva l’acquisto “a non domino”, e, perciò appunto, la interposizione fittizia.
Nella medesima direttiva, ha disatteso il terzo motivo, con cui si era inteso ricollegare la domanda costitutiva alla disciplina dell’art. 2058 c.c., ritenendo che l’intero contesto dell’atto introduttivo orientava unicamente verso un’istanza di risarcimento del danno per equivalente.
In ordine al motivo seguente, ha ribadito che, esclusa l’ipotizzabilità dell’interposizione fittizia e la rilevabilità dell’interposizione reale, nessun (autonomo) obbligo di esame della domanda risarcitoria incombeva al primo giudice, essendo stata negata l’illegittimità dell’operato della Razeto.
Ha, quindi, approfondito la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell’usucapione, riferita espressamente (giusta deduzioni dell’Avallone all’udienza del 19 giungo 1990) alla proprietà dell’immobile e non alla titolarità dell’esercizio alberghiero: previa individuazione dell’arco temporale da prendere in considerazione ai fini del “tempus ad usucapionem” (fissato tra il 15 maggio 1962 ed il 6 ottobre 1983), ha confermato la valutazione negativa degli elementi offerti dall’Avallone, già emergente dalla sentenza di primo grado.
In particolare, ha rilevato che: gli atti posti in essere dall’Avallone non denotavano univocamente un possesso “uti dominus”, “ben potendosi inquadrare come atti di amministrazione compiuti nell’interesse delle proprietarie (e, quindi, anche della Razeto)”; l’appellante si era qualificato procuratore della Razeto (in dipendenza della ricordata procura) sia nel contratto di assicurazione decennale dell’immobile contro l’incendio (1 luglio 1964), sia nel contratto di affitto dell’azienda al Cuntrera (il sedici gennaio 1982); la mera affermazione di un comportamento da “proprietario” o da “padrone” non era suffragata da riscontri probatori; la scrittura della Razeto del 2 luglio 1966 – contenente la dichiarazione di disponibilità a trasferire in qualsiasi momento senza pagamento la quota di immobile ed il riconoscimento dell’intestazione a lei per conto dell’Avallone – non era idonea a dare una particolare qualificazione agli atti anteriormente posti in essere “ed a far ritenere non reale il conferimento della procura generale rilasciata il 6 giugno 1964”, tanto più per la mancanza di contiguità temporale fra quest’ultima ed il riconoscimento, ed, ancora, in presenza del successivo conferimento (con atto del 17 giugno 1967) di analoghi poteri rappresentativi all’altro genero, Mario Bogliolo. Ha, infine, nella medesima prospettiva, considerato le deposizioni testimoniali ed i documenti, specificamente richiamati dall’appellante, per rilevarne, oltre allo scarso rilievo sostanziale, la prevalente incidenza temporale in epoca posteriore al “dies a quo” inizialmente fissato, e, quindi, la datazione all’interno dell’arco temporale del ventennio, necessario ad usucapire.
Ha superato, in relazione al tenore della decisione sul gravame, l’ultimo motivo, attinente al regime delle spese.
Per la cassazione della sentenza ricorre, con quattro motivi, l’Avallone.
Resistono con controricorso Alfredo e Mario Bogliolo nonché, anche quale erede della Razeto, Bice Bardi.
Non ha svolto attività difensiva Matilde Bardi, coniuge del ricorrente ed altra erede della Razeto.
Le parti costituite hanno depositato memorie.
DIRITTO
1. Le censure del ricorrente sono articolate come segue. 2. – Violazione e falsa applicazione degli artt. 299 e 300 c.p.c., poiché, diversamente da quanto si afferma nella sentenza impugnata, la lettera dell’art. 299 non giustifica la soluzione restrittiva, secondo cui l’evento interruttivo sarebbe rilevante solo in relazione alla parte ancora in termine per costituirsi; e, d’altronde, pur non rivestendo, la dichiarazione di contumacia, efficacia costitutiva, solo ad essa l’art. 300 comma 4 riferisce l’effetto interruttivo non automatico. 3. – Violazione degli artt. 102 e 354 c.p.c., in quanto la necessità di integrazione del contraddittorio andava apprezzata con riferimento alla sola prospettazione iniziale, che era stata quella dell’acquisto per interposizione fittizia di un terzo delle attività fallimentari di Arcangelo Esposito, e questi non era venuto a perdere la “qualità di dante causa” in dipendenza della affermata natura giudiziale del titolo di acquisto. 4. – Violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla effettiva richiesta, formulata con l’atto di appello, di “prosieguo della prova già interrotta in primo grado”.
– Violazione dell’art. 116 c.p.c.. Sotto tale ultimo profilo si lamenta l’erroneità dell’impostazione seguita dal giudice “a quo”, e consistita nel riferire l’indagine all’atteggiamento corrispondente a quello di proprietario dell’immobile, considerando invece irrilevanti, rispetto all’affermata usucapione, i comportamenti soggettivi dell’appellante quale proprietario dell’azienda alberghiera. Si osserva, infatti, che, mentre risultano valorizzate risultanze non univoche, “sono rimaste del tutto trascurate quelle che denunciavano l’esercizio di poteri pertinenti univocamente al solo proprietario”, quale l’intervento (nel 1970) di rilevanti e costosi opere di consolidamento immobiliare. Ed, ancor più in generale, si puntualizza come, postulandosi un’astratta “proprietà dell’azienda”, non si sia adeguatamente valutato che la stessa “non può non ricomprendere gli atti corrispondenti all’esercizio della proprietà immobiliare”.
Oppongono i controricorrenti: a) l’infondatezza del primo motivo, non potendosi dubitare, in relazione alla morte della Razeto successiva alla prima udienza, dell’applicabilità dell’art. 300 comma 4 c.p.c.; b) l’insussistenza del litisconsorzio necessario ancora riprodotta col motivo seguente, per le ragioni in diritto illustrate nella sentenza impugnata; c) l’inammissibilità del terzo motivo, per la sua genericità, e, comunque, l’infondatezza di esso, stanti i rilievi del giudice “a quo” ed, in particolare, l’impossibilità di frazionamento della prova testimoniale in diversi gradi di giudizio; d) l’inammissibilità ed, in aggiunta, l’infondatezza dell’ultimo, che si rivolge contro apprezzamenti di fatto, risulta genericamente dedotto – senza precisare le circostanze che sarebbero state erroneamente valutate – e non denunzia espressamente un vizio di motivazione, peraltro non configurabile alla stregua dell’ampia ed esauriente esposizione contenuta nella sentenza impugnata.
Il ricorso risulta infondato e va, pertanto, respinto.
Si sostiene, col primo mezzo, che la morte di una delle parti appellate, intervenuta (il 27 luglio 1994) dopo la prima udienza (del 31 marzo precedente) ma “prima ancora della stessa precisazione delle conclusioni” (ricorso, p. 26), senza che la parte stessa fosse costituita, comporterebbe l’interruzione automatica del processo, “ex” art. 299 c.p.c., non essendo invece applicabile, in mancanza di espressa dichiarazione di contumacia, la diversa disciplina dell’art. 300 comma 4. La tesi risulta erronea, giacché l’effetto interruttivo automatico viene collegato dall’art. 299 cit. – come rettamente si rileva nella sentenza impugnata – alla pendenza del termine per la costituzione, attraverso la previsione che l’evento, determinante l’interruzione, siasi verificato “prima della costituzione in cancelleria o all’udienza davanti all’istruttore”; mentre, se l’evento si è verificato successivamente, l’art. 300 detta una disciplina differenziata per la parte costituita e per quella contumace, per quest’ultima disponendo, in particolare, la rilevanza sul processo dell’evento, soltanto se questo risulti notificato o certificato dalla relazione di notificazione di uno dei provvedimenti previsti nell’art. 292 c.p.c.. Vero è che l’art. 300 comma 4 parla di “parte dichiarata contumace”, ma, considerata la “ratio” della disciplina complessiva, non assume rilievo una formale dichiarazione di contumacia, dovendosi rapportare, la qualità di cui trattasi, alla parte non costituita entro i termini fissati (arg. art. 59 disp. att. c.p.c.), e rivestendo in ordine ad essa la dichiarazione medesima, funzione di mero accertamento di una situazione processuale che rimane disciplinata – e tutelata – dalle disposizioni riguardanti, appunto, la parte (effettivamente) contumace (v., per tutte, Cass. 1697-1997, 8873-1991, 6065-1985).
Nemmeno può accedersi al secondo motivo di impugnazione, col quale si afferma che la dedotta qualità di litisconsorte necessario del fallito Arcangelo Esposito – in relazione alla originaria domanda – andasse, con apprezzamento “ex ante”, riferita alla qualità di dante causa del medesimo, non eliminata dalla natura giudiziale del titolo di acquisto in capo agli assuntori (interposti) del concordato fallimentare. Il vizio è dedotto, invero, in maniera astratta, nel senso che dalla deduzione medesima non potrebbe derivare alcuna conseguenza favorevole alla tesi del ricorrente: essendo infatti rimasta esclusa, nei gradi di merito, l’interposizione fittizia – per essere invece configurabile una interposizione reale, risulta tuttavia estranea all’oggetto del giudizio -, e non avendo tale esclusione costituito oggetto di censura, riesce impossibile assegnare al fallito la qualità di “dante causa dell’acquisto dissimulato” (ricorso, p. 27 seg.). Non è dato, pertanto, sostenere che la domanda proposta richiedesse l’accertamento di una situazione giuridica nei confronti dello stesso fallito (quale parte necessaria) come appunto si afferma nella sentenza impugnata (pag. 27 seg.), la quale, avuto riguardo alla natura giudiziale del titolo, ha espressamente negato – argomentando anche dall’art. 138 l.fall. – ogni rilevanza “ad una situazione di fatto corrispondente all’interposizione fittizia”, pure se riferita ad accordi intervenuti anteriormente alla omologazione del concordato fallimentare.
Anche il terzo mezzo appare sfornito di pregio: con esso si lamenta il “mancato prosieguo della prova (testimoniale) il cui espletamento fu interrotto in primo grado”, contrastandosi l’impostazione del giudice “a quo”, che la richiesta di ulteriore istruttoria orale, contenuta nell’atto di appello, ha invece inteso riferita alla ammissione della ulteriore prova già articolata (e non ammessa) in primo grado. La censura risulta inammissibile, per essere solo parzialmente esatta la premessa che la sorregge; il giudice “a quo”, infatti, ha fatto in realtà seguire l’affermazione che precede da una ulteriore autonoma “ratio decidendi” del diniego: “Tale ultima richiesta – che, peraltro, in quanto non contenuta nell’atto di appello (il quale limita il “thema decidendum” del giudice del gravame) non meriterebbe di essere in considerazione – non può, comunque, essere accolta, posto che il principio della unitarietà ed infrazionabilità della prova testimoniale, desumibile dagli artt. 244 e 345 c.p.c., non consente di ripartire l’espletamento di tale mezzo istruttorio fra i diversi gradi di giudizio”. E questa affermazione, non investita da censura alcuna, rende inammissibile il motivo, in applicazione del consolidato orientamento di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. 8798-1997, 7264-1996, 8785-1994), secondo cui, quando la sentenza impugnata è fondata su più ragioni autonome, tra loro distinte e indipendenti, ciascuna logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle ragioni esplicitamente fatte oggetto della doglianza, in quanto un eventuale accoglimento non potrebbe mai condurre, per l’intervenuta definitività della ragione non censurata, all’annullamento della decisione. Allo stesso modo, con specifico riferimento al punto oggetto dell’impugnazione, un eventuale accoglimento della tesi difensiva prospettata non consentirebbe di superare la ragione non investita da censura.
Parimenti non può trovare ingresso l’ultimo mezzo del ricorso, col quale si denunzia la violazione dell’art. 116 c.p.c., con riguardo alla valutazione delle prove sulla subordinata domanda di usucapione. L’andamento della censura – cui sembra in realtà sottesa una doglianza di vizio logico della motivazione -, consente di individuare l’affermazione della erroneità della scissione tra le qualifiche di “proprietario dell’azienda alberghiera ” e di “proprietario dell’immobile” (oggetto, appunto, dell’usucapione), senza adeguata considerazione che lo svolgimento dell’attività aziendale, mediante atti riferibili alla proprietà dell’azienda, a sua volta, comprendente immobili, “non può non comprendere quelli corrispondenti all’esercizio della proprietà immobiliare” (ricorso, p. 29 seg., in particolare, p. 31).
In realtà, nella sentenza impugnata, dopo essersi ristretto l’arco temporale dell’indagine al periodo fra il 15 maggio 1962 (data del decreto di trasferimento) ed il 6 ottobre 1983 (data di costituzione in giudizio di Mario Bogliolo, con contestazione del possesso “ad usucapionem”), attraverso una valutazione complessiva approfondita delle risultanze processuali relative all’attività presa in esame, da un lato, si ribadisce (p. 36 seg.) l’idoneità a dimostrare l’assunto – fra l’altro, insistendosi sulla procura generale rilasciata dalla Razeto il 6 giungo 1964 e sulla conseguente spendita del nome di lei -, e, dall’altro si afferma che dal complesso probatorio esaminato “non si evince l’esistenza della prova di un possesso “uti dominus” per il prescritto periodo di venti anni” (p. 40), in particolare collocandosi gli stessi elementi valorizzati negli scritti dell’appellante in epoca non anteriore al 1970 (ivi, p. 41). E quest’ultima circostanza, avuto riguardo ai limiti del vizio denunziato, non soltanto non è stata investita da censura, ma risulta indirettamente confermata allorquando il ricorrente, nel sottolineare l’episodio ritenuto più significativo nella prospettazione (intervento di notevole entità economica per opere di consolidamento dell’immobile), questo stesso riferisce, appunto, all’anno 1970.
Onde, in definitiva, mentre non è in alcun modo ravvisabile, attraverso la formulazione sopra riportata, alcun profilo specifico, implicante la dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., ogni diverso tipo di (sostanziale) censura appare inammissibile, sia per il medesimo ordine di ragioni illustrato nell’esaminare il precedente mezzo, sia perché finirebbe per risolversi in valutazioni squisitamente di merito.
Nè deriva, per ogni verso, il rigetto del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente alla refusione delle spese processuali del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla refusione delle spese processuali che liquida in complessive lire 5.200.000, di cui lire 5.000.000 per onorari.
Così deciso in Roma il 3 giugno 1998.