Accanto alla dovuta area di adeguata superficie, per le ordinarie sepolture a sistema d’inumazione, il modello del “nuovo” cimitero, nei primissimi anni del ‘900, sempre più spesso contempla anche la realizzazione in serie di manufatti sepolcrali destinati alle tumulazioni.
Questi ultimi si integrano nel tradizionale impianto “a chiostro”, il cui naturale perimetro è formato dalle pareti della pre-esistente chiesa a servizio del camposanto, inglobata nel muro di cinta.
In senso astratto, completati i restanti lati del quadrilatero, in forza di ulteriori ampliamenti, le masse murarie si sarebbero sviluppate su linee ortogonali, rispetto ai corpi di fabbrica già ricavati, in modo da configurare, per progressivi stralci di opere e lavori edili, il classico schema rettangolare.
La decisione a favore della struttura modulare a porticati, attorno all’area destinata alle inumazioni, non è casuale o fortuita, ma coerente con le norme di allora, per cui i sepolcri privati nei cimiteri non si consideravano e calcolavano quali propriamente area cimiteriale (cfr.: art. 59 R.D. 6 settembre 1874, n. 2120 “Regolamento per l’esecuzione della legge 20 marzo 1865 sulla sanità pubblica e della legge 22 giugno 1874, numero 1964”).
Si rimarca altresì, l’art. 58 dello stesso Regolamento, per cui “Il terreno destinato a cimitero deve essere dieci volte più esteso dello spazio necessario pel numero presunto dei morti, che debbono esservi sepolti in ciascun anno, e dev’essere chiuso all’intorno da un muro.”.
Nel “prototipo” del cimitero così elaborato, con qualche riflesso neo-classico, la creazione dei sepolcri privati a sistema di tumulazione, passa attraverso l’approntamento di sotterranei praticabili da concedere in uso per le tumulazioni, al di sotto del piano di calpestio dei chiostri, quasi sempre, leggermente sopraelevato rispetto a quello di campagna, anche solo di pochi gradoni.
Si tratta, sostanzialmente non ancora di “loculi” veri e propri, nell’accezione odierna, ma di locali promiscui, dove si accede, per la collocazione dei feretri o per ispezioni, solo attraverso botole in pietra poste sulla volta di queste sepolture ipogee.
Tali locali in uso ai concessionari avrebbero avuto una capienza formale di molti posti feretro, se pensiamo ai nostri attuali criteri più stringenti e selettivi, con il pregio, se non altro, di sfruttare magistralmente tutto il volume possibile.
Ordinariamente i feretri sono disposti per ogni lato del tumulo pluriposto. Visti gli spazi di manovra alquanto angusti, le bare vengono calate nella cella sotto il pavimento, in posizione pressochè verticale.
Solitamente come separatori già in quell’epoca, si impiegano supporti metallici in ferro. La loro funzione è prevenire che i feretri sovrastanti, generalmente più recenti rispetto a quelli già tumulati, premano col proprio peso.
La generale condizione di instabilità e stress meccanico, avrebbe potuto danneggiare o lesionare, per schiacciamento, quelli sottostanti, compromettendone forse la stessa impermeabilità.
In alcuni, e pochi casi (es.: situazioni d’angolo), non sempre la capienza unitaria e nominale di ciascuna stanza sotterranea assicura davvero l’accoglibilità effettiva di tutti i feretri degli aventi diritto.
Essa quindi, è solo teoricamente garantita da una simile scelta progettuale e costruttiva.
Va osservato come tale problematica strutturazione delle celle sepolcrali ci conduca inevitabilmente a richiamare nel diritto funerario odierno, il divieto dell’art. 76 già citato D.P.R. n. 285/1990.
Oltretutto, maggiore esplicitazione su questo aspetto cruciale, si è avuta solo con l’art. 63 del successivo R.D. 11 gennaio 1891, n. 42; ripresa, poi, nel merito (poiché alcune specificazioni non incidono sulla sostanza della questione qui affrontata), dall’art. 63 R.D. 25 luglio 1892, n. 448, poi dall’art. 55 R.D. 21 dicembre 1942, n. 1880, poi dall’art. 76 D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803 e, infine, dall’art. 76 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 28.
Spesso un simile standard minimo, nemmeno a cavallo tra l’Ottocento e gli inizi del XX secolo è ancora rispettato, per un’ovvia motivazione.
Al momento delle prime progettazioni ed edificazioni di determinati manufatti (sotterranei da adibire a tumuli), la corrispondente norma scritta, non era neppure stata emanata.
Si consideri come i primi sepolcri così realizzati sovente fossero già stati utilizzati in epoca antecedente, ancor prima che il legislatore disciplinasse questa tipologia di sepolcro murario.
Per altro, la disposizione citata è stata, presuntivamente, ritenuta applicabile per costruzioni, o, più probabilmente, per le nuove progettazioni, in prospettiva soprattutto futura.
Tutta la normazione di polizia mortuaria prodotta a partire dall’appena costituito Regno d’Italia, vede questa costante, ossia la proibizione, già in epoche per noi remote, della sepoltura dei cadaveri nelle così dette fosse carnarie.
Il presupposto pare reggere ad ogni pur fondata obiezione: tecnicamente, infatti, non si avrebbe certo avuto una inumazione di più cadaveri, nella nuda terra bensì un’ordinata e ripartita collocazione di feretri sigillati ermeticamente in ambiente a sua volta stagno.
A stretto rigore, si potrebbe, allora, argomentare che queste cripte non fossero propriamente le “fosse carnarie”, ante editto napoleonico di St. Cloud.
Con questa espressione ci si riferirebbe, più correttamente, alla semplice deposizione dei cadaveri in una buca comune, di adeguate dimensioni e profondità, per contenere più defunti ammassati tra loro, e senza l’impiego di cofani.
Le accennate metodologie – per noi contemporanei – invero sono ormai obsolete, fuori legge e soprattutto poco sicure, sotto il profilo dell’operabilità cimiteriale.
Esse rappresentano tuttavia la realtà effettiva – alle volte in contesti di cimiteri monumentali, con cui bisogna comunque rapportarsi.
Gli adeguati (ma pochi?) strumenti sono forniti, in via generale, almeno dal D.P.R. n. 285/1990 con il suo art. 106 (procedura di deroga per riattare e quindi ri-usare tombe…appunto non a norma implementata dal paragrafo 16 Circ. Min. Sanità n. 24/1993), quando la Regione non abbia introdotto nel proprio ordinamento funerario soluzioni e procedimenti burocratici più semplificati, nonché di rapida attuazione operativa.
Se non si agisse così, con molto pragmatismo, si avrebbe una quasi certa paralisi della normale attività cimiteriale nelle parti antiche.
Interessante, in ultima analisi, questa considerazione: si hanno prove documentali di come una simile metodologia costruttiva sia stata seguita sino agli anni ‘60 del XX secolo, quando la tumulazione, da pratica funebre elitaria, sarebbe divenuta fenomeno di massa, perché più accessibile, per grande parte della popolazione, e non solo alle classi sociali più abbienti.
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