Cos’era lo “spurgo” dei sepolcri?

In alcune aree è presente tra gli addetti ai lavori, il termine “spurgo” per riferirsi a talune operazioni cimiteriali.
Esso è del tutto sconosciuto in altre aree geografiche, ma si ritiene che neppure laddove è noto, ed usato, si abbia ormai conoscenza del significato originario di questo termine, men che meno da dove derivi.
Oggi, tecnicamente, il termine che, in qualche modo può essere pertinente è quello di “estumulazione”, cioè dell’operazione che prevede l’apertura di un sepolcro a sistema di tumulazione, la rimozione del feretro che è (o, dovrebbe essere, almeno se regolarmente confezionato a suo tempo, al più presentante una leggera copertura da pulviscolo dato che il cemento, col decorso dei decenni, tende a rilasciarlo specie nelle parti esteriori) integro allo scopo del suo collocamento in inumazione (normalmente per la medesima durata delle inumazioni eseguite nell’immediato post mortem, salve specifiche situazioni, tali da consentirne una riduzione), ai sensi dell’art. 86 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.

Il termine ha origine nelle prassi, presenti nel passato, in cui, tra le altre, erano in uso le allora definite “fosse carnarie”, istituto soppresso formalmente (ma la prassi era già abbastanza desueta, salve realizzazioni molto precedenti) con l’art. 76 R.D. 6 settembre 1874, n. 2120 che, per l’appunto, vietava il collocamento (deposizione) dei cadaveri in esse.
Queste “fosse carnarie” erano spesso locali ipogei (costruzioni, non inumazioni, per quanto chiamate “fosse”), più o meno a forma parallelipedea, presentanti sul lato superiore una botola da cui si “depositavano” i corpi, senza alcun utilizzo di feretro (cassa), che, allora, assolveva alla funzione di strumento per il trasporto (riciclabile, tanto che (sec. XVIII) erano in uso casse il cui fondo si apriva nella mezzeria con idonei elementi meccanici proprio al fine di consentire la caduta del corpo, cosicché, eseguito il trasporto, la cassa poteva essere utilizzata per uno (e più) successivo).
Si potrebbe citare il Cimitero delle 366 fosse (nome ufficiale: Cimitero di Santa Maria del Popolo, 1762 di Napoli, dove ciascuna “fossa” era contraddistinta da un numero – il 366 teneva conto degli anni bisestili – e destinata alla “deposizione” dei cadaveri morti nel giorno corrispondente alla numerazione.
Oltre che nel caso dei cadaveri morti nel medesimo giorno, vi si “depositavano” quelli morti nel giorno corrispondente dell’anno successivo e così via di anno in anno, l’uno sopra l’altro, sostanzialmente alla rifusa.

Dato che le botole superiori di accesso non assicuravano ermeticità della chiusura, nel corso dell’anno si producevano fenomeni cadaverici trasformativi, generalmente trasformativi la cui velocità poteva dipendere da più fattori, prevalendo, in genere, una trasformazione abbastanza completa in relazione proprio alla ossidazione permessa dalla non ermeticità.
Magari con quale “effluvio” di miasmi, che tanto preoccupavano i partecipanti al Congresso internazionale di igienisti svoltosi a Bruxelles nel 1852. Si fa notare come dal 1762 al 1874, data di introduzione del divieto di “deposizione” siano passati 110 anni!
Per altro, ricordare la data del 1762 è poco rilevante (essendo collegata ad una singola esperienza, per quanto nota e oggetto di studi sulle progettazioni cimiteriali), in quanto questa pratica era variamente presente anche in precedenza, così come lo è stata in seguito, per tempi anche lunghi.
In questa tipologia di “sepolture”, allorquando le “fosse” (ma, data la conformazione, si dovrebbe parlare di “camere”, di “vani”, di “spazi” (più neutrale)) erano prossime alla saturazione (cosa che riducendo lo spazio d’aria interno rallentava la velocità di completamento dei processi cadaverici trasformativi) si procedeva alla rimozione di quanto rimaneva dei cadaveri depostivi in precedenza, per recuperare spazio, sia che si trattasse di ossa, sia che si trattasse di ossa contornate da materiale organico non ancora pienamente “mineralizzato”.
Non si entra nel merito di quali destinazioni avessero, mancando notizie di dettaglio, anche se in linea di massima, si può ipotizzare che la destinazione fosse quella della successiva deposizione in ossario comune.
Questa rimozione era evidentemente un’operazione ben diversa da quella che oggi è l’estumulazione, dove il feretro è, salvi imprevisti, sostanzialmente abbastanza integro.
Il termine “spurgo” trovava fondamento proprio da questi rimozione, anche se appaia oggi privo di quel carattere di rispetto della dignità dei defunti, e di quanto ne residui quale ne sia lo stato, che appare essere carattere insopprimibile, da assicurare – sempre ed in ogni fase – alle spoglie mortali.

Va osservato come queste note sulla non più sussistente pertinenza (improprietà? più o meno assoluta) dell’uso del termine “spurgo” consentano anche altre considerazioni.
Oggi, nel contesto normativo italiano, quando si parla di pratiche funerarie si indicano quelle che sono oggi previste, e sono tre: inumazione (che è e rimane quella ordinaria, normale), tumulazione e cremazione, attualmente in forte, ed accelerata, crescita.
Ma ciò non può far dimenticare come queste tre pratiche funerarie non siano, nelle diverse culture, che solo alcune tra le pratiche funerarie. Non ci si riferisce solo al fatto che (es.) la cremazione, nel mondo c.d. occidentale, è altamente tecnologicizzata, mentre altrove utilizza tecnologie decisamente proprie di altri contesti, ma anche che sono presenti, qui o là, pratiche funerarie aventi proprie caratteristiche.
Si pensi alla “sepoltura a cielo aperto” (che è “preparata” da uno smembramento del corpo da parte degli “addetti” in presenza dei familiari), alla “sepoltura nelle acque”, ecc., dove i “processi cadaverici trasformativi” sono rimessi agli interventi di volatili (in genere, rapaci, ma non solo) o di altri animali selvatici o dei pesci e simili, oppure alla pratica dei “colatoi” (putridarium, (s.)/putridaria, (pl.)), di cui sembra persistere … memoria, che costituiva una tecnicalità attraverso cui pervenire ad un dato stato delle spoglie mortali.
Nella stessa cremazione, oltre alle differenze già segnalate, non mancano oggi ipotesi alternative come la sedicente “cremazione fredda”, che, in realtà, non è una cremazione, ma una tecnica attraverso cui si riduce il cadavere alle ossa con modalità prevalentemente a base chimica, oppure a soluzioni di compostaggio dei corpi. Si potrebbero enunciare tra le pratiche funerarie anche quelle che prevedono operazioni di trasformazioni accelerate, in funzione di ottenere un humus che si auto-qualificano come maggiormente “ambientaliste”.
Non si sostiene un’adesione alle sole tre pratiche funerarie sopraricordate come attualmente presenti nel contesto italiano, né una qualche propensione a pratiche funerarie alternative, aspetti su cui giocano anche aspetti valoriali, ma solamente ricordare come queste tre pratiche funerarie siano il portato di una serie di esperienze, di una storia, di una tradizione.
Le “fosse carnarie”, pur se vietate (nell’uso) da un secolo e mezzo, sono un esempio di come le tre pratiche funerarie oggi di riferimento, non siano le sole ipotizzabili, senza che occorra scomodare culture e civiltà più o meno lontane.

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Sereno Scolaro

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