I reati contro i defunti: il vilipendio di cadavere

Gli articoli 410, 411, 412 e 413 cod. penale configurano quattro distinte fattispecie incriminatrici che hanno per oggetto il cadavere.
Detti articoli estendono la tutela penale anche alle ceneri, comprendendo sia quelle derivanti da cremazione autorizzata in appositi impianti, sia quelle prodotte dalla vivocombustione per causa accidentale o delittuosa o da un processo di cremazione irregolare (A. ROSSI VANINI, Pietà defunti [delitti contro], in Dig. Disc. Pen., 1995, 577).
Reminder: la dispersione è lecita solo quando autorizzata dallo Stato Civile, su precisa ed inequivocabile volontà del de cuius ex L. 130/2001, altrimenti se non legittimata da questi due imprescindibili elementi costituirebbe tutt’oggi reato.

Per giurisprudenza costante, la nozione di cadavere comprende anche resti umani consistenti nello scheletro od in parte di esso, purché si tratti di spoglie mortali, tuttora capaci di suscitare il sentimento della pietà verso i defunti (Cass. Pen., sez. II, 10 giugno 2003, n. 34145, in Cass. Pen., 2005, 12, 3852).
Stessa protezione, secondo alcuni studi giuridici, solo lievemente affievolita, è accordata dall’Ordinamento ai c.d. Esiti da fenomeno cadaverico di tipo trasformativo- conservativo, provenienti da esumazione ed estumulazione, dopo il completo decorso del periodo legale di sepoltura.
L’art. 410 codice penale commina la reclusione da uno a tre anni a chiunque commetta atti di vilipendio sopra un cadavere o sulle sue ceneri.
Il reato di vilipendio di cadavere è integrato da qualunque azione su salme o loro trasformazioni di stato, che risulti obiettivamente idonea a ledere il sentimento di pietà verso i defunti.
E, nel frattempo, che sia vietata dalle speciali disposizioni regolamentari di polizia mortuaria (come, per il caso dell’esumazione parziale di cadavere, ad es.) o comunque realizzata con modalità non necessarie all’espletamento dell’attività lecita cui risulti eventualmente finalizzata.

La Legge, seppur nella sua astratta asetticità, pone severi limiti anche nell’espletamento di servizi mortuari d’istituto e funzioni necroscopiche che rendano necessaria la manipolazione di un corpo umano esanime.
Quali, ad esempio, quelle afferenti all’uso di cadaveri per esigenze di studio o per indagini a scopo di giustizia, così da accertare possibili reati (oppure anche la semplice tolettatura e vestizione?).
Deve, infatti, essere evitato l’impiego di trattamenti, che – essendo estranei alle tecniche richieste dalla natura delle indagini scientifiche o peritali eseguite ovvero che siano inibite da prescrizioni regolamentari, ex art. 82, o 87 D.P.R. 285/1990, con riferimento all’esumazione parziale del cadavere o al suo spezzamento, – integrino inoppugnabilmente condotte antigiuridiche atte a comprimere ingiustamente il sentimento di pietà verso i defunti.
Un problema si pone, come accennato prima: il ricorso a metodologie di composizione della salma e sua presentazione estetica non certo cruente, ma moderatamente invasive (ad ed. chiusura della bocca con filo di sutura, tamponatura degli orifizi) possono – forse – concretare la fattispecie di cui all’art. 410 Cod. Penale?

Il dibattito è aperto perché mentre la tanatoprassi è attualmente proibita, la tanatoestetica, ossia l’imbellettamento della salma con qualche intervento conservativo, seppur di natura palliativa, diverso dalla siringazione cavitaria, si sta velocemente imponendo come parte integrante del servizio funebre offerto dalle imprese di estreme onoranze italiane.
Si ritiene, invero, che in tutti i casi “border line”, quando si debba agire più incisivamente sulla salma, sia indispensabile il preventivo nulla osta del medico necroscopo, procedendo, se necessario caso per caso.
Meglio sarebbe un provvedimento omnibus e definitivo adottato ad esempio dalla direzione sanitaria da cui dipende la gestione delle camere ardenti ospedaliere, almeno per le vestizioni completate all’interno degli appositi spazi previsti per i nosocomi.

Anche con riferimento alle operazioni legittime sopra precisate, pertanto, il fatto di porre in essere sui cadaveri comportamenti suscettivi di offendere il sentimento di pietà verso i defunti, non resi necessari da prescrizioni tecniche, dettate dal tipo di intervento, o addirittura semplicemente inibiti, con la consapevolezza del loro carattere incompatibile con le regole proprie del tipo di attività svolto, integra il reato di cui all’art. 410 cod. Penale.
Difatti, secondo il consolidato indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., sez. III, 26 gennaio 1942, in Giust. Pen., 1942, II, 705) che non è stato mai contrastato da pronunce di segno opposto, il dolo del reato di cui all’art. 410 c.p. è generico.
Così l’elemento psicologico del reato stesso, nel frangente in esame, è concretato dalla consapevolezza che l’azione posta in essere non è conforme alle prescrizioni o esigenze tecniche afferenti al tipo attività assicurata, mentre è idonea ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.

Si pensi alla fattispecie relativa alla esumazione di un corpo, destinata alla raccolta delle ossa. La spoglia mortale viene smembrata dall’operatore necroforo, perché solo parzialmente mineralizzata, con conservazione nella cassetta ossario di parte dello scheletro e dispersione nell’ambiente delle porzioni non ancora decomposte del cadavere. (o resto mortale?).
Il reato sussiste qualora l’agente abbia proceduto allo spezzamento dei resti del cadavere, la maggior parte dei quali sarebbe stata successivamente dispersa per incuria dell’imputato, consegnando alle parti offese (ovvero ai dolenti) una piccola cassetta di zinco contenente solo il teschio, qualche osso dello scheletro del defunto oltre a resti di altri cadaveri (Cass. Pen., sez. III, 21 febbraio 2003, n. 17050, in Cass. pen., 2004, 1649).

Diversamente la giurisprudenza ha definito che il riporre forzatamente i resti di un cadavere nella celletta ad essi predestinata a seguito della estumulazione non realizza il reato di vilipendio di cadavere, giacché vengono a mancare gli atti materiali compiuti sul cadavere connotati da palese disprezzo, dal dispregio, dal senso di disistima nei confronti del cadavere stesso (Trib. Bari, 08 novembre 2005, in Giur. Merito, 2006, 4, 1000).
Questa sentenza è, tuttavia, abbastanza anomala, in quanto parrebbe porsi apertamente in contrasto con il chiaro disposto dell’art. 87 del regolamento nazionale di polizia mortuaria.
L’art. 410, comma 2, cod. penale contempla una circostanza aggravante qualora il colpevole deturpi o mutili il cadavere, o commetta, comunque, su questo atti aberranti di brutalità o di oscenità.
In tale evenienza il reato è punito con la reclusione da tre a sei anni.
Per ulteriori approfondimenti si consiglia vivamente la consultazione di questi due articoli correlati:

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