Cassazione penale, Sez. IV, 23 marzo 1995, n. 5278

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Massima:
Cassazione penale, Sez. IV, 23 marzo 1995, n. 5278
In materia di responsabilità colposa per fatti attribuibili al comportamento di sanitari, ritualmente, nella fase d’investigazione, il p.m., ai sensi dell’art. 360 c.p.p., dispone un accertamento tecnico che, partendo dall’urgente ed irripetibile esame autoptico, necroscopico o genericamente patoscopico, e delle connesse indagini strumentali e valutative, passi anche attraverso la individuazione delle persone nei cui confronti indirizzare le ulteriori indagini, fatte salve le garanzie difensive nei riguardi di coloro che risultino già individuati e raggiunti da elementi fondanti la condizione di persona sottoposta alle indagini preliminari (art. 61 c.p.p.). Ne segue che ritualmente, poi, tale atto di accertamento tecnico viene, in sede di udienza preliminare, inserito nel fascicolo per il dibattimento, secondo la norma di cui all’art. 431 comma 1 lett. c) del codice di rito penale.

Testo completo:
Cassazione penale, Sez. IV, 23 marzo 1995, n. 5278
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Composta dai signori:
Dott. Manfredo GROSSI Presidente
1. ” Davide AVITABILE Consigliere
2. ” Mauro D. LOSAPIO “””
3. ” Renato OLIVIERI “””
4. ” Giuseppe CAIZZONE “””
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
nato in Roma il 16 agosto 1958;
, corrente in Roma, resp. civ.;
avverso
la sentenza della Corte di appello di Roma del 26 marzo 1994.
Visti gli atti, il provvedimento denunziato ed i ricorsi.
Udita la relazione fatta dal consigliere Mauro D. Losapio.
Udita la requisitoria del pubblico ministero, in persona del dott. Antonio Albano, il quale ha concluso per lÂ’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Udito il difensore del responsabile civile, avv. Mazzocca, il quale ha concluso per lÂ’accoglimento del proprio ricorso, insistendo per lÂ’espulsione dellÂ’accertamento disposto dal PM del fascicolo per il dibattimento.
Uditi i difensori del ricorrente , avvocati Pittaluga e Tangari, i quali hanno concluso per lÂ’accoglimento del ricorso.
FATTO e DIRITTO
1. – Con la predetta decisione, in parziale riforma della sentenza resa in primo grado dal Pretore in Roma il 27 febbraio 1992, nel giudicare circa responsabilità penali a riguardo della morte della puerpera , verificatosi nella clinica privata in Roma il 9 aprile 1990, per arresto cardiaco da shock emorragico, , infermiera specializzata, fu assolta, con formula piena, mentre furono respinti i gravami sviluppati dal dott. (al quale fu accordato anche il beneficio di cui allÂ’art. 175 cod. pen.) e dal responsabile civile, con le rituali conseguenze quanto a interessi civili.
2. – Dalle decisioni di merito risulta accertato che:
– verso le ore 3.30 del 9 aprile 1990 , accompagnata dal marito, si presentò nella clinica privata , ubicata nei pressi della sua abitazione, in procinto di partorire; infatti, alle 3.55 dette alla luce un maschietto;
– tuttavia, nonostante la regolarità del parto, il secondamento non si verificò, di modo che la infermiera ostetrica , che aveva assistito il parto, praticò, senza alcun esito, alcune “spremiture alle Credè”, vale a dire pressioni sulle parti anatomiche interessate per agevolare il distacco e lÂ’espulsione della placenta;
– verso le ore 4.40 la fece intervenire il medico di guardia, ostetrico, dott. , che informò del mancato secondamento e delle eseguite “spremiture alla Credé, il cui unico esito era stato la espulsione di un non molto vistoso grumo di sangue;
– il medico, per quanto risulta dalla cartella clinica, rieseguì lÂ’operazione di “spremitura alla Credé”, ottenendo analogo risultato a quello seguito alla stessa operazione già compiuta dalla infermiera (espulsione di grumo di sangue); attivò ricerca di sangue del tipo universale (allÂ’evidenza finalizzato a trasfusione); procedé alla revisione del canale di parto, rilevando una lacerazione, che suturò con due punti “catgut”, al collo dellÂ’utero in posizione ore 3; tutto ciò mentre la puerpera si presentava già dispnoica, essudata e accusava angina respiratoria, tanto che si ritenne necessario ricorrere a terapia con maschera di ossigeno;
– con lÂ’inutile trascorrere del tempo le condizioni generali della paziente precipitarono, sicché, verso le ore 5.10 (è annotato in cartella) si verificò un episodio di obnubilamento del sensorio;
– con ora 5.15 risulta in cartella segnata la richiesta, da parte del dott. , dÂ’intervento del direttore sanitario della clinica (dott. ), ginecologo, il quale prontamente intervenne, unitamente al dott. (anestesista); costoro registrarono un ulteriore aggravamento delle condizioni della ;
– il dott. , con lÂ’assistenza dellÂ’anestesista, tentò il secondamento manuale e, questo fallito, praticò la paroistectomia sub-totale, senza ottenere alcun miglioramento delle condizioni generali della paziente che, tra le ore 5.55 e le 7.45 affrontò e superò due arresti cardiaci;
– nel frattempo, appena ultimato il detto intervento chirurgico, il dott. si pose in contatto con lÂ’Ospedale Umberto I ed ottenne il pronto invio di adeguata quantità di sangue; ma, verso le ore 8 e prima che il sangue arrivasse, la malcapitata venne ad esito con diagnosi di arresto cardiaco da shock emorragico.
3. – Il pubblico ministero, informato dellÂ’accaduto, dispose accertamenti preliminari, ai sensi degli artt. 359 segg. del codice di procedura penale, nominando consulenti tecnici investiti del compito di eseguire esame autoptico, ricostruire la vicenda mortale e individuare, ove possibile, persone nei cui riguardi dirigere lÂ’ulteriore attività dÂ’investigazione.
AllÂ’esito di tale indagine, si appurò, tra altro, che la lesione al collo dellÂ’utero della , in ore 3, si presentava più estesa di quanto non risultasse in cartella clinica e che era stata suturata con 4 (e non con 2) punti “catgut”; che lÂ’organo in questione presentava altra lesione, meno estesa, in ore 7.
Fu confermata la causa della morte quale conseguenza dello shock emorragico.
LÂ’elaborato, ai sensi dellÂ’art. 431 comma 1 lett. c) cod. proc. pen., fu inserito nel fascicolo per il dibattimento; in sede preliminare al dibattimento il responsabile civile ne chiese lÂ’espulsione per le ragioni che saranno in seguito chiarite.
4. – Il pubblico ministero, completate le indagini investigative, emise decreto di rinvio a giudizio nei riguardi della infermiera ostetrica , dellÂ’odierno ricorrente nonché dei medici e .
Il Pretore allÂ’esito del dibattimento, ritenne estranei alla causazione della morte della i medici ora da ultimo nominati, mentre trovò ragioni sufficienti a fondare lÂ’affermazione di responsabilità nei riguardi della e del , per avere ritenuto provata lÂ’accusa che, quanto a questi ultimi, era riassunta nella seguente articolazione del capo di imputazione: “artt. 41 e 589 c.p. per avere cagionato per negligenza, imprudenza ed imperizia la morte di , deceduta dopo il parto per arresto cardiorespiratorio terminale conseguente a shock emorragico; ed in particolare, per non avere predisposto gli opportuni provvedimenti atti a prevenire lÂ’insorgenza dello shock emorragico; la inoltre, per avere impiegato prima del parto farmaci attivatori del travaglio in contemporanea con smasmolitici (spasmomex) e, quindi, dopo il parto, – sussistendo fattori a rischio per la madre – per avere omesso di chiamare tempestivamente il medico ed effettuato in maniera incongrua la “spremitura alla Credé”; il dott. , ginecologo medico di guardia, per avere effettuato, in mancanza del distacco della placenta dalla inserzione uterina, una incongrua manovra ostetrica (“spremitura alla Credé”) e per avere omesso di eseguire altre manovre atte alla situazione (ad. es., un tamponamento uterino) e di predisporre gli opportuni provvedimenti profilattici (preparazione di opportune quantità di sangue)”.
Oltre ad applicare adeguato regime sanzionatorio, condannò i detti imputati, unitamente al responsabile civile, , al risarcimento dei danni in favore della parte civile alla quale assegnò, in via provvisoria, con immediata esecutorietà, una provvisionale di cento milioni di lire.
5. – Il pubblico ministero, entrambi gli imputati condannati e il responsabile civile tempestivamente si gravarono presso la Corte di appello di Roma: il primo insistendo per lÂ’affermazione di penale responsabilità nei riguardi dei dottori e , oltre che per un più severo regime sanzionatorio quanto ai giudicabili condannati; gli imputati e il responsabile civile (che, in particolare, reiterò la richiesta di espulsione dal fascicolo del dibattimento, dellÂ’elaborato tecnico conseguito in sede di investigazioni) insistendo per la esclusione di qualsivoglia responsabilità penale.
La Corte territoriale, con la sentenza ora in disamina:
– rigettò la richiesta di espulsione dal fascicolo del dibattimento dellÂ’elaborato conseguito dal pubblico ministero in sede di investigazioni, emendando, in parte, le ragioni poste a fondamento di analoga decisione adottata dal primo Giudice, e la subordinata richiesta di inutilizzabilità dello stesso;
– respinse lÂ’appello del pubblico ministero in tutte le sue articolazioni;
– accolse il gravame dellÂ’ostetrica , sul rilievo che la inappropriata pratica dalla stessa imprudentemente posta in essere (“spremitura”) non aveva causato danni rilevanti (questi imputabili, invece, al medico) e che gli altri addebiti risultavano privi di fondamento;
– rigettò il gravame del dott. rilevando la fondatezza di entrambi i profili di colpa azionati nei suoi riguardi.
In particolare ed in estrema sintesi, a riguardo del medico, il Giudice a quo rilevò che:
— lÂ’aggravamento delle condizioni della paziente andava ricercata nellÂ’esecuzione di manovre improprie e inadeguate, ripetute nonostante gli esiti negativi delle precedenti, mentre nessun assorbente contributo poteva essere individuato nel comportamento dei medici sopravvenuti (dottori e ), posto che ormai le condizioni di vita della puerpera erano compromesse dal ritardo con cui si agiva e fu necessario operare con rapidità emergenziale nel tentativo, risultato vano, di salvare la vita della paziente;
— il dott. non può essere creduto quando afferma di avere attivato ricerche di sangue (sin dalle ore 4.40), posto che egli non seppe fornire attendibili indicazioni a riguardo delle strutture cui aveva diretto le ricerche, senza alcun esito e senza insistenza, laddove il dott. in pochi minuti aveva reperito quanto occorreva presso lÂ’Ospedale Umberto I, senza incontrare particolari difficoltà.
6. – Ricorrono per cassazione il dott. e il responsabile civile chiedendo lÂ’annullamento della sentenza impugnata.
I difensori del primo hanno prodotto separati elaborati motivazionali.
Con quello sottoscritto dallÂ’avv. Pittaluga si deduce: “erronea applicazione della legge, con riferimento allÂ’art. 589 c.p. e manifesta illogicità della motivazione”, nonché “violazione di legge con riferimento agli artt. 360-233-191 c.p.p.”.
Sotto il primo aspetto, il deducente, dopo avere evidenziato come, a suo giudizio, il dott. nulla di più di quanto fece avrebbe potuto sia quanto ad intervento sulla paziente che a provvista del sangue, si duole perché la Corte a qua non avrebbe tenuto in conto una miriade di diverse e contrarie, rispetto agli assunti di accusa, dichiarazioni rese dai periti del pubblico ministero e dalle parti, dalle quali risulterebbe come il danno da emorragia andrebbe probabilmente imputato alle manovre successivamente poste in essere dal dott. nella sinergia di pregressa anemia di cui la partoriente soffriva e della quale il dott. nulla sapeva (come nulla conosceva dell’anamnesi della donna, mai prima cliente della clinica e non accompagnata, nell’occasione, da alcun documento sanitario); infatti, sempre secondo il deducente, la perdita di sangue subita dalla non potrebbe ritenersi di entità diversa da quanto accade normalmente in occasione del parto.
Il dott. si sarebbe venuto a trovare, pertanto, all’improvviso e nella ignoranza di qualsiasi dato fisio-patologico, innanzi a una puerpera in difficoltà; nulla di più avrebbe potuto fare, se si consideri che per le pratiche, poi tardivamente attuate dal dott. , era necessario l’intervento e l’assistenza di un anestesista, che al momento mancava.
Sotto l’altro aspetto, il deducente fa propria la posizione assunta dal responsabile civile quanto a sorte ed utilizzabilità dell’elaborato prodotto dai consulenti del pubblico ministero in fase investigativa; del che si parlerà appresso.
Con il secondo elaborato, sottoscritto dallÂ’avv. Tangari, si denunzia: “violazione degli artt. 521 comma 2, in relazione allÂ’art. 522 comma 1 c.p.p.” nonché: “mancanza e contraddittorietà della motivazione – travisamento del fatto”.
Il deducente si duole, in rito, per la mancata corrispondenza tra la contestazione fissata nel capo di imputazione e gli elementi di giudizio posti a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità nella sentenza impugnata. Infatti, si precisa, al dott. non sarebbe stata assicurata la esplicazione di una concreta ed efficace difesa, dato che in sentenza si è finito con l’addebitargli quanto nel capo di accusa era riferito alla condotta del dott. .
Nel merito della decisione plurime ed articolate sono le doglianze sviluppate nel documento d’impugnazione con ripetuto rinvio alla lettura di specifici atti del processo, sia a riguardo di circostanze e spezzoni di dichiarazioni rese dai vari comparenti nel processo (non menzionate nel documento motivazionale fornito dalla Corte romana), sia quanto a ritenuto travisamento del senso e del significato di altre dichiarazioni; sia, infine, quanto ad assunzioni, poste dal Giudice a fondamento della decisione, ma, sempre a dire del deducente, prive di riscontro negli atti e, perfino, in contrasto con i dati emergenti dalla perizia e dalle dichiarazioni dei consulenti. Ciò, in particolar modo, in relazione alle cause produttrici delle lesioni all’utero della puerpera e al momento in cui furono causate, nonché in relazione all’efficienza eziologica dell’emorragia sull’evento letale.
Il difensore del responsabile civile denunzia: “inosservanza di norme penali e di altre delle quali si deve tener conto” nel formulare il giudizio penale, e “violazione di norma processuale”.
Sotto il primo aspetto, il deducente lamenta che, nonostante i consulenti intervenuti in processo avessero concordemente evidenziato la scarsa o nulla riferibilità alla “spremitura alla Credé” della perdita di sangue subita dalla , pure il Giudice censurato avrebbe su tanto fondato la decisione di responsabilità del dott. .
In relazione all’altro aspetto, si reitera la richiesta, che viene sin dal giudizio di primo grado, di espulsione dal fascicolo per il dibattimento dell’elaborato fornito dai consulenti del pubblico ministero in fase investigativa, in quanto debordante dai limiti dell’accertamento non ripetibile, per essere stato dato incarico a quei consulenti anche di indagare su, ed individuare i responsabili della morte della . L’espulsione dell’accertamento tecnico dal fascicolo comporterebbe, secondo il deducente, la nullità di tutti gli atti conseguenziali formati nei gradi di giudizio e, quindi, l’azzeramento della provvista probatoria sulla quale le sentenze affermative di penale responsabilità si sono fondate.
7. – Vanno preliminarmente esaminate le censure concernenti la formazione del fascicolo per il dibattimento nel quale fu, tra altro, inserito lÂ’elaborato prodotto nella fase dellÂ’investigazione, oggetto del secondo motivo dei ricorsi prodotti dal difensore del responsabile civile e dal primo tra i difensori del dott. .
La tesi difensiva si fonda sulla considerazione che, avendo il pubblico ministero incaricato i suoi consulenti, oltre che dell’esame autoptico sul cadavere della donna e di quelli altri accertamenti tecnici urgenti, anche per la individuazione di coloro cui eventualmente riferire la [con]causazione della morte, non un atto ex art. 360 c.p.p. sarebbe stato disposto (accertamento tecnico non ripetibile), ma una vera e propria perizia, da assumere, invece, in dibattimento oppure con le forme dell’incidente probatorio, nella coesistenza delle altre condizioni previste dalla legge del rito e, sempre, previo intervento della difesa. L’ampliamento del tema d’indagine delegabile in detta fase procedimentale comporterebbe la non includibilità della relazione nel fascicolo del dibattimento o, secondo la subordinata tesi del primo (quanto ad ordine di esposizione, come sopra) difensore del , della totale inutilizzabilità dell’atto per essere stato assunto contro un divieto della legge processuale (art. 191 comma 1 c.p.p.).
8. – Osserva.il Collegio che la tesi difensiva non può essere condivisa.
Giova evidenziare (in consonanza con il prevalente indirizzo seguito da questa Corte; cfr.: Sez. II, [c.c.] 10 novembre 1992, , C.E.D. n. 192570; Sez. I, [c.c.] 9 febbraio 1990, , d.vi n. 183647), e come, peraltro, ha già fatto la Corte del merito, che tra la nozione di “rilievi” e quella di “accertamenti”, come si evidenzia dalla lettura del testo degli articoli 354, 359 e 360 del codice di rito penale, nei quali i detti termini sono menzionati separatamente, esiste ontologica differenza, posto che la prima riguarda atti di semplice constatazione o raccolta di dati materiali pertinenti al reato e alla relativa prova, esaurendosi nellÂ’oggettivo rilevamento, come esposizione di un dato di fatto quale presente in natura, vale a dire sul piano fenomenico; mentre lÂ’”accertamento” coinvolge lo studio e la relativa elaborazione critica degli elementi raccolti, dÂ’ordinario su base tecnico-scientifica, e, quindi, secondo regole dellÂ’arte o della professione e con lÂ’applicazione di leggi scientifiche e di specifica esperienza, con inevitabile valutazione (intermedia e conclusiva) soggettiva, seppure da sostenere con congrua motivazione. Ne segue che la diversa nomenclatura di “accertamento” tecnico (di cui alle richiamate disposizioni) e di perizia (di cui agli artt. 220 e 392 del codice di rito), adottata dal legislatore non comporta una sostanziale differenza a riguardo della natura e del contenuto accertativo dellÂ’atto, la diversità facendo riferimento piuttosto alla fase procedimentale nella quale tali atti vengono espletati (ed a causa di ciò), come accade per altre operazioni dÂ’indagine investigativa o probatoria (ad es.: esame dellÂ’imputato e interrogatorio: artt. 208-364; sommarie informazioni e testimonianza: artt. 362-194; individuazione di persone e ricognizioni: artt. 361-213; e similmente).
LÂ’assunto difensivo pare si fondi, da un lato, sul compattamento, quanto a contenuti indagativi, del tipo atti di “rilievi” su quello di atti di “accertamenti”, con riduzione del contenuto dei secondi in termini similari ai primi; dallÂ’altro (e quasi conseguenzialmente), sul diniego della esperibilità in fase investigativa di “accertamenti tecnici” con contenuti valutativi. Al contrario, non esistendo una sostanziale differenza tra la perizia e lÂ’accertamento tecnico (per quanto, e salvo quanto, sopra precisato), ritualmente il pubblico ministero, quando si induce a disporre un siffatto accertamento, formula quesiti di natura valutativa e, a maggior ragione in termini di correttezza, individuativi, questi essendo specifici della funzione investigativa perché finalizzati allÂ’acquisizione al procedimento di un dato essenziale, quale quello della persona (o delle persone) nei cui confronti rivolgere lÂ’ulteriore attività di provvista a supporto della conclusiva decisione circa la esistenza delle condizioni per esercitare lÂ’azione penale e, queste ritenute, per lÂ’esperimento del giudizio; nel corso del quale, poi, le prove saranno acquisite, secondo le regole proprie al certamen dibattimentale. Invero, senza la individuazione delle persone nei cui riguardi lÂ’investigazione dovrà rivolgersi, ogni attività risulterebbe a vuoto; e, in procedimenti del genere di quello che qui riguarda, la individuazione di tali persone non può essere conseguita se non tramite un accertamento tecnico che abbia le caratteristiche (di reperimento delle fonti e di valutazione delle condotte) delle quali si è parlato avanti.
Nulla, pertanto, di irrituale è rinvenibile nel provvedimento attuato dal pubblico ministero, una volta che si convenga, come non è contestato, che l’esame autoptico, con le connesse indagini strumentali e valutative, è da ritenersi un accertamento tecnico non ripetibile, nel duplice senso, non sempre coesistente, della urgenza, per rischio di dispersione degli elementi di giudizio (esame di tessuti organici e collegate indagini strumentali), e della irriproponibilità della [ri]attualizzazione della (diretta) percezione; e una volta che non si contesti il rispetto delle regole di garanzia nei riguardi di coloro che, al momento in cui l’atto venne disposto, risultavano titolari di una posizione procedimentale da tutelare (cfr., quanto alla regola da applicare: Corte cost., [9] 16 maggio 1994, n. 181).
Questo non significa che, benché il verbale (o l’equivalente relazione) peritale sia inserito nel fascicolo del dibattimento [art. 431 comma 1 lett. c)], in tale sede, oltre a procedere all’esame dei consulenti, non possa essere disposta, ove ve ne sia ragione, un approfondimento tecnico che utilizzi le acquisizioni conseguite nella sede investigativa; problematica non sollevata dai ricorsi, i quali, per il vero, esprimono doglianze in rito e non di merito.
Sul punto può, dunque, concludersi nel senso che in materia di responsabilità colposa per fatti attribuibili al comportamento di sanitari, ritualmente, nella fase d’investigazione, il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. pen., dispone un accertamento tecnico che, partendo dall’urgente ed irripetibile esame autoptico (di colui che vede con i propri occhi), necroscopico o genericamente patoscopico, e delle connesse indagini strumentali e valutative, passi anche attraverso la individuazione delle persone nei cui confronti rivolgere le ulteriori indagini, fatte salve, ovviamente, le garanzie difensive, come elencate nel sopra citato art. 360, nei riguardi di coloro che risultino già individuati e raggiunti da elementi fondanti la condizione di persona sottoposta alle indagini preliminari (art. 61 cod. proc. pen.).
Legittimo e rituale lÂ’atto di accertamento tecnico, consegue la inappuntabilità dellÂ’inserimento nel fascicolo per il dibattimento, secondo la norma di cui allÂ’art. 431 comma lett. c) del codice di rito penale, e la infondatezza della richiesta di declaratoria dÂ’inutilizzabilità, lÂ’atto essendo stato compiuto secondo la legge e non contro i divieti della stessa disposti (art. 191 comma 1 c.p.p.). 9. – UnÂ’ulteriore questione di rito viene sollevata con il primo motivo del secondo elaborato difensivo, con il quale si denunzia mancata corrispondenza, quanto a profili di colpa, tra la contestazione articolata con il capo di imputazione e le ragioni poste a fondamento della sentenza di condanna, la quale avrebbe operato lo spostamento degli addebiti tra gli imputati e , al primo addebitando quanto riferito al secondo, con compromissione dei diritti di difesa del primo.
Al riguardo, però, va osservato che lÂ’assunto vizio non esiste, posto che, come risulta a chiare lettere dal capo di imputazione sopra riportato (par. 4) – anche se pare siasi verificata, in sede preliminare, una certa confusione quanto ad identificazione nominativa dei due medici (errore indotto dalla denunzia sporta dal marito della vittima) -, la condotta attribuita al dott. appare ben calibrata sul suo ruolo. Né rimane senza significato lÂ’accertamento compiuto dal Giudice del merito il quale ha evidenziato come dagli atti (in particolare dallÂ’accertamento tecnico, che anche sotto questo aspetto si conferma come atto indispensabile ai fini dellÂ’investigazione) i ruoli e le condotte dei medici, e quindi, anche del dott. , risultano chiari e ben precisi e che su di essi il prevenuto ha avuto modo di impostare le tesi atte a scagionarlo, ampiamente discusse anche in questa sede. DÂ’altra parte, la denunzia si risolve in una pura e vuota enunciazione, una volta che non si specifichi in quali articolazioni dellÂ’accusa, in quali passaggi di contrasto o di proposizione di prova negativa, la difesa abbia dovuto subire mortificazioni o sorprese o limitazioni pregiudizievoli.
10. – Passando allÂ’esame dei motivi concernenti lÂ’addebito di causazione della morte della (da esaminarsi congiuntamente per la sostanziale omologia di censure), deve premettersi che il Collegio non si occuperà, perché in fatto e, quindi, indeducibile in cassazione, del lungo elenco di doglianze (spesso impropriamente etichettate per mancanza o viziosità della motivazione, per travisamento e similmente) quanto a selezione del materiale probatorio da utilizzare ai fini della motivazione (id est: della decisione), alla interpretazione e alla valutazione del significato e della portata delle dichiarazioni delle parti, dei testimoni, dei periti, dei consulenti, alla lettura dei documenti e alle ragioni di connessione tra loro, confermando le regole, tante volte affermate, secondo le quali: da un canto, il vizio di logicità della motivazione (nelle sue varie sfaccettature) deve, per essere conoscibile dalla Corte, risultare dal testo della decisione impugnata, non essendo consentite “incursioni verificatorie” nel complesso documentale del processo; dallÂ’altro, che la cernita del materiale probatorio, lÂ’individuazione delle fonti di convincimento, la valutazione degli elementi di prova, il giudizio sulla loro attendibilità e concludenza, la scelta delle ragioni ritenute idonee a sorreggere la decisione, sono tutte attività che appartengono al potere discrezionale del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, quando sia adeguatamente e correttamente motivato sotto lÂ’aspetto logico-giuridico e delle massime di esperienza applicate.
Invero, la misura ed il limite alla cognizione della Cassazione in tema di verifica della legittimità della decisione del giudice di merito sono deducibili dal catalogo dei motivi di ricorso, di cui all’articolo 606 cod. proc. pen., dalla considerazione del quale risulta chiaro come sia da escludere la deducibilità di ragioni attinenti la individuazione, la cernita, la valutazione dei fatti processuali, quale che sia la predicazione allegata dalle doglianze (cfr.: Sez. II, [ud.] 21 dicembre 1993, , C.E.D. n. 196955; Sez. VI, [ud.] 26 maggio 1993, ivi n. 194911; Sez. I, [c.c.] 30 gennaio 1991, , ivi n. 187739; Sez. V, [c.c.] 20 agosto 1991, , ivi n. 188109).
11. – Problema di diritto da affrontare (appena accennato dalla difesa ma ampiamente sviluppato dal Procuratore generale dÂ’udienza e posto a fondamento della sua richiesta dÂ’annullamento della sentenza impugnata) riguarda la individuazione della regula iuris da applicare nel giudizio in materia di eventi dannosi, sanzionati a titolo di colpa, implicanti la valutazione della condotta di persona che esplichi attività professionale e che si siano verificati nellÂ’esercizio di tale attività.
Si sostiene, invero, che, a riguardo dei rimproveri mossi al dott. , la Corte territoriale non avrebbe esplicitato il parametro di riferimento utilizzato cumulando, inespressamente ed indistintamente, e compattandone i criteri di valutazione, quello della generica imprudenza e, oppure o, negligenza, e quello della imperizia; la quale, invece, sarebbe da valutare alla stregua delle disposizioni civilistiche in tema di rapporto obbligatorio professionale (art. 2236 c.c.) e, quindi, da ritenersi idonea ad integrare lÂ’elemento soggettivo della fattispecie penale solo ove predicabile di colpa grave.
12. – Osserva il Collegio che la censura non è fondata, sia perché nel caso di specie non esiste il difetto denunziato, sia perché la tesi, nella sua assolutezza e in linea di diritto, non può essere condivisa, come insegnano i recenti guadagni della giurisprudenza sul tema, per la pregnante ed assorbente considerazione, risolutiva del problema, che quando la condotta colposa incida su beni primari, quali la vita o la salute delle persone, costituzionalmente e penalmente protetti, i parametri valutativi debbono essere estratti dalle norme proprie al sistema penale e non da quelle espresse in altro ramo del diritto; le quali, peraltro, attengono, come inequivocabilmente si deduce da quel sistema (art. 2226 comma 3 c.c., in relazione al disposto degli artt. 2230 e 1668 stesso codice), alla riduzione del compenso pattuito e, eventualmente, alla determinazione dei danni prodotti per effetto dellÂ’inadempimento, o non puntuale adempimento, dellÂ’obbligazione assunta dal professionista, quando (si badi) la prestazione implichi “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. In linea generale, pertanto, non potrà sostenersi che la “prestazione” del medico-chirurgo implichi sempre “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, come quella teorica sembrerebbe inclinare a ritenere.
Tuttavia, la invocata disposizione civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico quando il caso specifico sottoposto al suo esame imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia. Ciò in quanto, nell’esercizio della professione medico-chirurgica, non di rado l’operatore si imbatte in situazioni dubbie, sia quanto a diagnosi che a terapia, in relazione alle quali la scienza e l’esperienza non danno indicazioni univoche ed uniformi, mentre i risultati in passato ottenuti possono apparire contrastanti. In siffatte situazioni il rischio di cadere in errore, postumamente come tale valutabile, è elevato sicché iniquo sarebbe addebitare al medico, che abbia per ogni altro verso adottato prudenza e diligenza, le conseguenze di una obbiettiva difficoltà che è della scienza o dell’arte e non del singolo operatore.
Per questo il Collegio, pur respingendo l’assunto difensivo nei termini in cui viene prospettato, come limite alla valutabilità della colpa del medico solo in termini di gravità, cioè, inescusabilità (culpa lata est nimia neglegentia, id est non intelligere quod omnes intelligunt: Ulp., D. 50, 16), ritiene, in armonia con precedenti giudicati registrati in sede penale come civile (cfr., ex plurimis: Sez. IV, 2 giugno 1987, , C.E.D. n. 177085; sez. III civ., 1 febbraio 1991, n. 977, ivi n. 470735), che nella soluzione di problemi diagnostici e terapeutici in presenza di quadro patologico complesso e passibile di diversificati esiti terapeutici, quando tanto l’agire urga da escludere alternative d’attesa (convocazione a consulto di più esperti specialisti; trasferimento presso luogo di cura più attrezzato; e similmente), l’eventuale errore del medico conducente a morte o lesione personale del paziente, debba essere valutato sulla base di quel parametro; il che conduce ad un evidente contenimento (ma non ad azzeramento) del perimetro di operatività del criterio di valutazione alla colpa professionale ex art. 2236 c.c., nel senso inteso dai sostenitori della tesi qui (in buona parte) respinta.
Da quanto precisato segue che, sia quando non sia presente una situazione emergenziale, quale quella sopra ipotizzata, sia quando il caso non “implichi la soluzione di problemi [tecnici] di speciale difficoltà”, così come quando venga in rilievo (e sia contestata) negligenza e, oppure o, imprudenza, i canoni valutativi della condotta (colposa) non possono essere che quelli ordinariamente adottati nel campo della responsabilità penale per danni alla vita o allÂ’integrità dellÂ’uomo (art. 43 codice penale), con lÂ’accentuazione che il medico deve sempre attenersi a regole di diligenza massima e prudenza, considerata la natura dei beni che sono affidati alla sua cura (cfr.: Sez. VI, 2 ottobre 1990, , C.E.D. n. 185684; Sez. IV, 21 marzo 1988, , ivi n. 178560; Sez. IV, 25 maggio 1987, , ivi n. 176006).
La problematica ora esaminata e risolta, riguarda direttamente la posizione del dott. solo in relazione alla [ri]esecuzione della pratica delle “spremiture alla Credè; per il resto, invece, come, contrariamente a quanto è stato oggi sostenuto, risulta chiaramente dalla motivazione (magari sovrabbondante, ma certo completa e chiara) fornita dal Giudice censurato, lÂ’addebito coinvolge comportamenti di negligenza e di imprudenza correttamente valutati alla stregua della regola avanti enunciata. Lo stesso principio è da adottare per valutare la posizione del dott. in relazione alle implicazioni che la difesa del dott. ha ritenuto di evidenziare laddove ha sostenuto doversi riferire allÂ’opera del primario le lacerazioni riscontrate al collo dellÂ’utero della malcapitata e, altresì, la perdita di sangue, causa diretta del fatale shock emorragico.
13. – Dalla sentenza impugnata risulta, tralasciando i momenti anteriori connessi alle (benevolmente considerate) posizioni di persone fuori del processo, che il dott. venne chiamato al capezzale della verso le ore 4.40. Fu informato della regolarità del parto ma anche del mancato secondamento (ormai a quasi due ore dal parto), così come delle effettuate “spremiture alla Credé”, esitate nella espulsione di grumi di sangue; egli constatò, perché riportato in cartella clinica, uno stato di malessere generale della paziente: dispnea, essudorazione, angina respiratoria.
Orbene, esattamente viene rilevata una duplice, negativamente convergente, imperizia e negligenza da parte del medico.
Per avere effettuato ancora “spremiture alla Credé”, nonostante fosse informato del vano tentativo sperimentato dalla , contro la regola, mai posta in discussione, della pericolosità della reiterazione di una pratica che – ammessa o ammissibile in situazioni del genere (mancato secondamento della placenta) una prima volta -, è, secondo lÂ’accertamento di merito, rigorosamente da vietarsi in reiterazione. Se poi si riflette sul tempo trascorso dal parto e sulla perdita di sangue, denunciata dallo stato di sofferenza della paziente (oltre che dalla dichiarazione della ), non si può non convenire sul giudizio di estrema imprudenza e di grossolana imperizia professionale espresso, al riguardo di tale pratica, dal Giudice a quo.
Né va trascurato di rammentare, a sostegno delle ragioni dÂ’affermazione di penale responsabilità, lÂ’inadeguato comportamento del medico a fronte di un quadro patologico veramente preoccupante, classico di una situazione di sofferenza da emorragia, intuitivamente collegabile al mancato secondamento ed, eventualmente, alla pericolosa pratica delle “spremiture”. Al riguardo giova ricordare che questa Corte ha avuto modo di occuparsi di un caso molto similare ed ha evidenziato che di fronte allo stato di malessere e di sensazione di freddo accusato da una puerpera, riferibile allÂ’incompleta espulsione della placenta, il medico che, errando nel formulare la diagnosi, non abbia adottato unÂ’adeguata terapia e non ne abbia disposto il ricovero in ospedale, risponde del delitto di omicidio colposo, se la paziente venga ad esito (Sez. IV, 22 gennaio 1992, , in Riv. pen. 1992, 727).
Nel caso di specie, tuttavia, la negligenza dell’imputato appare più grave, dato che non di errore di diagnosi si trattò (ché tutto era chiaro, come dimostra la cartella clinica), ma di indolenza aggiunta all’imperizia: a fronte di quel quadro di grave, e chiara (nella eziologia), patologia, il medico, che già avrebbe dovuto astenersi da pratiche inconsulte, stante l’ammessa (ed anzi addotta a scusante) carenza di personale (anestesista e chirurgo) e di mezzi (scorta di sangue), doveva attivarsi per sollecitare il pronto intervento degli specialisti o, ancora meglio, disporre l’immediato trasferimento della paziente, a forte rischio, in un pubblico ospedale.
LÂ’esitazione del dott. , il quale si decise per il meglio ben oltre mezzÂ’ora dal momento in cui venne chiamato, unitamente alla esecuzione di pratiche inappropriate, sono state ritenute ragionevolmente circostanze idonee a porre un fattore sinergico alla morte della .
Nessun giovamento alle tesi sviluppate dalla difesa del dott. può venire dalla congettura che non le pratiche di “spremitura” siano state responsabili della grave emorragia ma il successivo intervento posto in essere dal dott. , in quanto, come è stato rilevato, da un canto, la condizione di estrema sofferenza in cui, a quel momento, la puerpera versava, imponeva lÂ’esecuzione dellÂ’intervento con urgenza, quale unica, ancorché remota, chance di salvezza; dallÂ’altro verso, che la sintomatologia da dissanguamento era presente già alle 4.40, ad altro non potendosi riferire il quadro descritto in cartella clinica, come tale avvertito dal dott. , il quale (corrisponda o no alla condotta tenuta, del che appresso) fece risultare nel documento clinico di avere attivato la ricerca di sangue (che ad altro non poteva servire se non a reintegrare il patrimonio ematico della puerpera).
Ancor meno conducente appare osservare che la soffriva di anemia, dato che la circostanza, se esistente e se sinergica alla produzione dell’evento, preesisteva (art. 41 comma 1 c.p.) ed era nota all’imputato, comunque conoscibile, sicché doveva costituire una ragione di maggior vigilanza attiva.
14. – Quanto al secondo profilo di colpa, centrato sulla mancata tempestiva provvista di sangue, va rilevato che la Corte del merito ha ritenuto pura formalità quanto annotato in cartella clinica, sotto lÂ’ora 4.40, in ordine alla relativa ricerca, convincendosi nel senso opposto. Detto Giudice ha spiegato le ragioni in forza delle quali non ha creduto, non solo a quanto scritto in cartella clinica, ma anche a quanto dal dott. dichiarato, mettendo in rilievo che questi non seppe neppure indicare verso quali strutture le sue ricerche sarebbero state indirizzate e lÂ’assunto, poi sostenuto, ma tardivamente esplicitato, di averne fatto domanda allÂ’Ospedale San Giovanni in Roma non risultava confortato da alcun elemento. Anzi sarebbe smentito, sempre secondo il Giudice a quo, sia dal fatto che, nel persistente silenzio dellÂ’ente interpellato per più ore, nonostante la drammaticità del caso, il prevenuto nullÂ’altro avrebbe fatto, sia dalla circostanza, appropriatamente valorizzata dal Giudice a quo, che il dott. , appena libero dallÂ’intervento di laparoistectomia, in poche battute e senza difficoltà, ottenne la fornitura di sangue, prontamente pervenuto, anche se a paziente non più in vita: se con analoga solerzia il dott. si fosse attivato dalle ore 4.40 ben probabilmente la vita della sarebbe stata salvata. Sul punto, dunque, risulta fornita adeguata e congrua motivazione a sostegno di un giudizio di merito che non può essere riformulato in questa sede di legittimità.
15. – Pertanto, i ricorsi debbono essere rigettati.
Ne segue la condanna delle parti ricorrenti a pagare, in solido, le spese processuali.
P.Q.M
visti gli artt. 615, 616 codice procedura penale, i ricorsi e i ricorrenti a pagare, in solido, le spese processuali.
Così deciso in Roma, 23 marzo 1995=
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 MAG. 1995.