TAR Sardegna, Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 95

Norme correlate:
Capo 18 Decreto Presidente Repubblica n. 285/1990

Riferimenti: Cons. Stato Sez. IV, 2/3/2000, n. 1111; Corte Cost., 6/7/2004, n. 204; T.A.R. Sardegna 328/2005; T.A.R. Sardegna 1982/2005

Massima:
TAR Sardegna, Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 95
L’art. 92, comma 2, del D.P.R. 285/1990 «stabilisce che le concessioni cimiteriali successive al 1990 debbano essere ricondotte a due tipologie (esclusivamente) a tempo determinato; di conseguenza, non possono essere più rilasciate concessioni per l’uso perpetuo di aree cimiteriali. Nessuna norma, invece, prevede che le concessioni perpetue preesistenti debbano trasformarsi o essere ricondotte ad una delle tipologie previste dal D.P.R. citato. Pertanto, queste ultime rimangono assoggettate al regime giuridico vigente al momento del loro rilascio, potendo essere modificate solo da espressa disposizione di legge, da novazioni consensuali o dal concretarsi dei casi di estinzione quali ad es. soppressione del cimitero».

Testo completo:
TAR Sardegna, Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 95
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO PER LA SARDEGNA
SEZIONE SECONDA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 412/02 proposto dal Geom. Cattani Piero Paolo, rappresentato e difeso dagli Avvocati Antonio Giua, Pietro Angelo Giua e Alberto Cocco Ortu, presso il cui studio legale in Cagliari, viale Regina Elena n°17, è elettivamente domiciliato;
contro
il Comune di Porto Torres, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli Avvocati Agostino Giordo e Francesca Corda, presso il cui studio legale in Cagliari, via Alagon n° 1, è elettivamente domiciliato;
per l’annullamento
del provvedimento del 27.01.2002, Prot. 2436 del 29.01.2002, con il quale il dirigente dell’ufficio tecnico comunale del Comune di Porto Torres ha disposto la revoca della concessione in favore del ricorrente di 2 loculi cimiteriali, ubicati nel cimitero comunale, e l’annullamento del precedente atto datato 10.01.2002, Prot. 880, con cui il Comune aveva ingiunto all’Ufficio Igiene e Sanità di disporre la consegna dei due loculi, entro il 30 Gennaio 2002
nonché per la condanna
del Comune di Porto Torres al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivati al ricorrente dal suddetto provvedimento.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune intimato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore per la pubblica udienza del 9 novembre 2005 il consigliere Francesco Scano;
Uditi gli avvocati delle parti, come da separato verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Si espone nel ricorso che il Cattani richiedeva (in data 24.10.1969) ed otteneva (in data 5.5.1971) la concessione perpetua di due loculi non nominativi presso il cimitero del Comune di Porto Torres dietro versamento della somma di £. 140.000.
Successivamente, il ricorrente – avendo riscontrato che i due loculi oggetto della concessione erano occupati da salme di estranei – chiedeva più volte al Comune la restituzione o la riassegnazione degli stessi.
Non avendo ottenuto alcuna risposta dal Comune, il Cattani, a mezzo dei propri avvocati, diffidava l’Amministrazione a provvedere e poi, perdurando l’inerzia, proponeva ricorso al TAR avverso il silenzio rifiuto.
Il ricorrente afferma, inoltre, che dopo la notifica del suddetto ricorso veniva contattato da un dipendente comunale suo conoscente, il quale gli assicurava l’imminente consegna dei loculi richiesti, chiedendogli di abbandonare l’azione legale. Decideva, pertanto, di non coltivare il ricorso, fiducioso nella consegna dei loculi, come promesso.
Dopo vari solleciti, il Comune con provvedimento del 4.4.2001 assicurava l’assegnazione entro il 30 giugno 2001 dei due loculi. Il termine di consegna veniva, poi, differito al 30 Ottobre 2001.
Al mancato rispetto anche di questo termine, il Cattani notificava, a mezzo dei proprii legali, in data 11 Dicembre 2001, una diffida a provvedere cui seguiva un provvedimento formale del Comune (datato 10 Gennaio 2002) con il quale si ordinava all’Ufficio Igiene e Sanità di disporre la consegna dei loculi entro il 30 Gennaio 2002. In questa data, il Comune notificava, però, al ricorrente un provvedimento datato 27 Gennaio di revoca della concessione ed annullamento del precedente provvedimento (10 Gennaio 2002).
Avverso detto provvedimento il ricorrente fa valere i seguenti motivi di ricorso:
I) violazione e falsa applicazione dell’art. 92 D.P.R. 285/90; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di diritto, manifesta erroneità;
II) eccesso di potere sotto il profilo della insufficiente e irrazionale motivazione; difetto di motivazione; illogicità e contraddittorietà;
III) violazione del principio di ragionevolezza e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione; carenza di motivazione;
IV) violazione dell’art. 7 l. 241/1990.
Il ricorrente afferma, inoltre, di aver subito dei danni per effetto del provvedimento impugnato. Quantifica detti danni in € 1570,12 corrispondenti alle spese legali sostenute per il giudizio e in € 2000 consistenti nel c.d. “danno esistenziale”. Chiede, pertanto, la condanna del Comune al risarcimento del danno subito.
L’Amministrazione intimata, costituita in giudizio per resistere al ricorso, ha chiesto una pronuncia di reiezione delle domande.
Alla pubblica udienza del 9 novembre 2005 la causa è stata assunta in decisione dal Tribunale.
DIRITTO
Il ricorso deve essere accolto, essendo fondati tutti i quattro motivi proposti a suo sostegno.
Sussiste, in primo luogo, il vizio di violazione di legge lamentato dal ricorrente.
Infatti, l’art. 92 del D.P.R. n° 285/1990 si riferisce esclusivamente alle concessioni cimiteriali esistenti a tempo determinato e non alle concessioni cimiteriali perpetue come ha, invece, ritenuto l’Amministrazione resistente. La norma in questione stabilisce che le concessioni cimiteriali successive al 1990 debbano essere ricondotte a due tipologie (esclusivamente) a tempo determinato; di conseguenza, non possono essere più rilasciate concessioni per l’uso perpetuo di aree cimiteriali. Nessuna norma, invece, prevede che le concessioni perpetue preesistenti debbano trasformarsi o essere ricondotte ad una delle tipologie previste dal D.P.R. citato. Pertanto, queste ultime rimangono assoggettate al regime giuridico vigente al momento del loro rilascio potendo essere modificate solo da espressa disposizione di legge, da novazioni consensuali o dal concretarsi dei casi di estinzione quali ad es. soppressione del cimitero (si veda, in tal senso, Tar. T.A.A. – Trento n° 318 del 1999).
Oltretutto, nel caso di specie non sussisterebbero neanche le condizioni applicative di cui all’art. 92 del D.P.R. 285 per poter ricorrere alla revoca della concessione anche se questa fosse ritenuta a tempo determinato (50 anni di non tumulazione, insufficienza del cimitero ed impossibilità di provvedere tempestivamente all’ampliamento).
D’altra parte, l’esame dello svolgimento dei fatti, così come emergente dai documenti prodotti dal ricorrente, permette di evidenziare il mancato rispetto da parte della P.A. dei canoni di correttezza e buona fede nell’esercizio delle funzioni cui essa è preposta.
Infatti, come ha avuto modo di sottolineare di recente il Consiglio di Stato “la giurisprudenza amministrativa non ha incertezze nell’affermare che il principio di buona fede oggettiva è posto dall’ordinamento a fondamento non solo dell’attività dei soggetti privati ma anche, a maggior ragione, di quelli pubblici (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 2 marzo 2000, n. 1111), e che il dovere di agire secondo correttezza e buona fede non è assolto solo con il compimento di atti previsti in specifiche disposizioni di legge ma si deve realizzare anche con comportamenti non individuati dal legislatore e che in relazione alle singole situazioni di fatto siano necessari per evitare l’aggravamento della posizione dell’altro contraente”.
Nel caso di specie, l’Amministrazione Comunale, dopo le reiterate assicurazioni fornite al Cattani, tali da ingenerare un legittimo affidamento nella restituzione del bene da luir richiesto, ha poi adottato, a distanza di poche settimane, un provvedimento diametralmente opposto disattendendo le proprie precedenti determinazioni e revocando la concessione dei loculi. Invero, il provvedimento finale appare in aperta contraddizione con la precedente fase procedimentale dell’Amministrazione.
Tale comportamento si pone in palese contrasto con l’obbligo di agire secondo buona fede e correttezza sancito dall’art. 1175 cod. civ. I suddetti canoni di condotta devono sorreggere l’esercizio della funzione pubblica in quanto costituiscono esplicazione del principio generale di buon andamento dell’attività amministrativa enunciato dall’art. 97 Cost.. Alla luce di dette considerazioni appaiono, pertanto, fondate anche le censure poste dal ricorrente nel secondo e terzo motivo del ricorso.
É, altresì, fondato il quarto motivo con cui il ricorrente deduce l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento. Infatti, è illegittima la revoca della concessione non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 7 agosto 1990, poiché con tale provvedimento si incide su una posizione di vantaggio già attribuita all’interessato. Simile esercizio del potere di autotutela deve avvenire consentendo la partecipazione al procedimento del soggetto interessato. L’art. 7 contiene, infatti, una regola generale da osservare in tutti i casi di adozione di atti che possono interessare la sfera giuridica dei privati ed è finalizzata ad assicurare all’amministrato la facoltà di prospettare fatti e ragioni in suo favore, di cui l’amministrazione deve tener conto, contemperando gli interessi in conflitto, nell’adozione del provvedimento finale, e ciò anche al fine di prevenire eventuali contenziosi.
Nel caso in esame, nessuna comunicazione riguardo l’avvio di un procedimento di revoca della concessione cimiteriale è stata fatta al Cattani, al quale è stata, pertanto, impedita la partecipazione allo stesso.
Il ricorrente richiede, infine, la condanna al risarcimento dei danni subiti per effetto del comportamento culminato con l’atto impugnato. Quantifica i danni in € 1570,12 corrispondenti alle spese legali sostenute per il giudizio (danno patrimoniale) e in € 2000 consistenti nel c.d. “danno esistenziale” (rectius, come di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, “danno non patrimoniale”).
La domanda è in parte fondata.
Invero, con la legge n° 205/2000 si è attribuito il potere al giudice amministrativo di disporre “l’eventuale risarcimento del danno” sempre “nell’ambito della sua giurisdizione”, così generalizzando la regola per cui l’interesse legittimo è tutelato in sede giurisdizionale non solo con l’annullamento, ma anche con lo “strumento di tutela ulteriore” del risarcimento (Corte Cost., 6.7.2004, n. 204).
Costituisce opinione consolidata (si veda ex multis, Cons. Stato, sez. V, 18.3.2002, n° 1562) che il risarcimento del danno non sia conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale, ma, pur non prescindendo da questo, richieda la positiva verifica della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge ed in particolare quelli ex art. 2043 cod. civ. e, in tema di liquidazione del danno, quelli ex art. 2056 cod. civ. Pertanto, oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento (il cd. “danno ingiusto”), sono necessari, altresì, il positivo accertamento della colpa dell’Amministrazione, la dimostrabilità di un effettivo danno arrecato al patrimonio (o l’eventuale danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ.) e la sussistenza del nesso di causalità tra illecito e danno.
In ogni caso, è necessario che sia la parte ricorrente a dover provare, anche con elementi presuntivi, la colpa della P.A., il nesso di causalità ed il concreto pregiudizio subito consistente nella diminuzione dell’integrità patrimoniale. Invece, nell’ipotesi di danno non patrimoniale la valutazione potrà essere svolta dal giudice in via equitativa (si veda, al riguardo, Cons. Stato, Sez. VI, n° 1096 del 2005).
Occorre, dunque, verificare la sussistenza di detti elementi nel caso di specie.
Il dato oggettivo della condotta illecita è costituito dall’emanazione di un provvedimento illegittimo della P.A.
Tuttavia, “questo Tribunale con sentenza n. 328/2005 ha negato che l’illegittimità del provvedimento amministrativo comporti di per sè il diritto al risarcimento del danno eventualmente provocato al destinatario, dovendo essere accertato se nella fattispecie debba essere riconosciuta l’esistenza dell’elemento soggettivo della colpa” (cfr., da ultimo, T.A.R. Sardegna 2080/2005).
Per quanto riguarda, quindi, l’ulteriore elemento della colpa ascrivibile alla P.A. i criteri di riferimento sono quelli individuati con precisione dal Consiglio di Stato, sezione IV, nella sentenza 5500 del 2004 a cui questo Tribunale ha più volte fatto riferimento (si veda T.A.R. Sardegna 328/2005; T.A.R. Sardegna 1982/2005). Il Consiglio di Stato, dopo aver negato la possibilità di fare riferimento alla c.d. culpa in re ipsa derivante da provvedimento illegittimo della P.A., ha affermato che il ricorrente ha, comunque, la possibilità di provare la colpa dell’Amministrazione mediante elementi presuntivi. Infatti, le esigenze di semplificazione probatoria possono essere “soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della colpa dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari facilmente acquisibili quali la gravità della violazione (qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi (pure indiziari) ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n.500/99, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione”.
La rilevata semplificazione dell’onere probatorio (a carico e a discarico) appena descritta impone, quindi, di definire i caratteri che devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la colpa dell’apparato amministrativo. Questi sono stati individuati dalla giurisprudenza, principalmente nella gravità della violazione, che ha indicato, quali parametri valutativi della stessa, il grado di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
In applicazione di questi principi, si può affermare che nel caso di specie risulta provata la culpa della P.A.
Il ricorrente ha evidenziato gli elementi che consentono di giudicare ingiustificabile l’errore dell’Amministrazione nel ricostruire, a suo tempo, la normativa regolante l’assegnazione dei loculi cimiteriali e soprattutto ha esaustivamente provato la scorrettezza dell’azione amministrativa anche sotto il profilo del mancato rispetto del canone di buona fede ex art. 1175 cod. civ. che, come detto, deve sorreggere l’attività amministrativa. D’altra parte, l’Amministrazione non ha fornito alcun elemento tale da poter giustificare la propria condotta.
Si deve affermare, pertanto, la responsabilità aquiliana dell’amministrazione comunale.
Bisogna ora valutare la sussistenza e l’eventuale ammontare del danno risarcibile.
Si deve, al riguardo, distinguere le due voci di danno richieste: patrimoniale e non patrimoniale.
Per quanto concerne il danno patrimoniale è sufficiente fare riferimento a quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa: “ai fini dell’ammissibilità dell’azione per risarcimento dei danni davanti al giudice amministrativo l’accertamento dell’illegittimità dell’atto adottato dall’amministrazione, da cui dipende la lesione dell’interesse legittimo, è presupposto necessario, ma non sufficiente, per la configurazione di una responsabilità, costituendo ulteriore passaggio necessario la prova dell’esistenza di un danno, che deve essere fornita dall’interessato” (T.A.R. Molise, 29 gennaio 2003, n. 38; si vedano, inoltre, in senso conforme: T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 26 maggio 2004, n. 8998; Consiglio Stato, sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945 ;T.A.R. Piemonte, sez. II, 23 novembre 2002, n. 1974; T.A.R. Basilicata, 4 settembre 2002, n. 592; T.A.R. Basilicata, 23 maggio 2002, n. 446; T.A.R. Molise, 9 aprile 2002, n. 292; T.A.R. Basilicata, 28 dicembre 2001, n. 963). Il ricorrente ha allegato e provato l’esistenza di un danno patrimoniale quantificandolo in € 1570,12, somma corrispondente alle spese della sola fase stragiudiziale sostenute per la tutela del proprio diritto ad ottenere la consegna dei loculi avuti in concessione. Tale danno deve essere risarcito.
La richiesta del risarcimento del danno non patrimoniale definito dal ricorrente “esistenziale” (categoria ormai in fase di superamento in quanto assorbita nel danno non patrimoniale, si veda, al riguardo, la recentissima Cass. Civ., Sez. III, n° 15022 del 15.7.2005) non può essere, invece, accolta. In materia di risarcimento del danno non patrimoniale arrecato dalla P.A. nell’esercizio dell’attività provvedimentale si è pronunciato di recente il Consiglio di Stato (sez. VI, n° 1096 del 2005, nonché T.A.R. Puglia, Bari n° 3000 del 2003) ammettendo la configurabilità di siffatto tipo di danni ed indicando le linee guida da seguire. Il Consiglio di Stato ha stabilito che il paradigma normativo nel quale deve trovare collocazione la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è senz’altro quello dell’art. 2059 cod. civ.
In detta sentenza si è evidenziato come “con le sentenze 8823/2003 e 8828/2003 della III sezione civile della Corte di Cassazione, alle quali si è uniformata la sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale, il diritto vivente ha infatti sancito il principio secondo cui il danno non patrimoniale, pur in assenza di reato ai sensi dell’articolo 185 del codice penale, va sempre risarcito ove connesso alla lesione di diritti essenziali della persona sanciti dalla Carta Costituzionale”. La pronuncia, nel riportare ampi passaggi delle citate sentenze della Cassazione Civile, conferma che il risarcimento del danno non patrimoniale può oggi trovare protezione più ampia ed articolata nell’art. 2059 cod. civ., letto unitamente alle norme costituzionali che tutelano i diritti fondamentali della persona umana.
Tale disposizione non deve più essere intesa restrittivamente ed applicata in via esclusiva ai casi del tradizionale danno morale soggettivo, in virtù della identificazione dell’unica ipotesi di danno non patrimoniale espressamente previsto dalla legge con il danno da reato ex art. 185 cod. pen., ma deve assicurare la riparazione, oltre che in ogni altra ipotesi legale espressa di danno non patrimoniale risarcibile, anche a quelle lesioni che – incidendo su valori e prerogative della persona dotate di posizione preminente nell’assetto costituzionale in cui i diritti inviolabili dell’uomo ed il divieto di discriminazioni irragionevoli assurgono a rango di principi fondanti, irrinunciabili ed immodificabili (artt. 2 e 3 Cost.) – non possono non costituire figure di danno risarcibile a prescindere da connotazioni penalistiche ormai non più condizionanti.
Sul piano della prova, è evidente che l’immaterialità dei pregiudizi in questione (lesione di beni e valori inerenti alla persona) rende percorribile in via principale lo strumento della prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza (sulla piena ammissibilità del ricorso a prove logiche in tema di danno non patrimoniale si vedano in particolare Cass. Civ., 21 Dicembre 1998, n° 12767 Cass. Civ., 19 Agosto 2003, n° 12124).
Considerato il quadro normativo di riferimento e i criteri di valutazione del danno, occorre ora vedere se ed in quale misura questo possa ritenersi configurabile nel caso di specie.
I danni conseguenziali di matrice non patrimoniale lamentati dal ricorrente sono qualificati dallo stesso come c.d. “danno esistenziale” discendente dall’attività illegittima della P.A. e dal suo grave comportamento prima dilatorio, poi assolutamente contrario al principio di buona fede nell’esercizio della attività provvedimentale. In realtà, posto che non è corretto parlare di danno esistenziale come categoria di danno autonoma (cfr. Cassazione Civile, Sez. III, sentenza 15.07.2005 n° 15022) il danno che il ricorrente lamenta aver subito sarebbe risarcibile solo se e nella misura in cui fosse ricollegabile ad un patimento di tipo morale e psicologico comportante un peggioramento della qualità della vita inquadrabile sub specie di “danno non patrimoniale” (in questo caso si tratta di verificare se rientri nell’ipotesi di danno morale nella nuova accezione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.).
Detti danni sono suscettibili di liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 cod. civ. alla luce della gravità e della durata della lesione e della rilevanza delle conseguenze. Per quanto riguarda l’individuazione e la qualificazione del danno non patrimoniale la Suprema Corte ha chiarito “come questa Corte ha osservato (Cass. 31.5.2003, n. 8828; Cass. 31.5.2003, n. 8827; cfr. anche Cass. 16525/2003; Cass. 10482/04) nel vigente assetto ordinamentale (nel quale assume posizione preminente la costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., non può più essere identificato (secondo la tradizionale, restrittiva lettura dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p.) soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato. A seguito di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 u.c., fondata sul principio c.d. della “drittwirkung”, le norme costituzionali, che attengono a valori inviolabili della persona umana, non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma sono anche immediatamente efficaci nei rapporti privatistici. Pertanto nell’ambito del danno non patrimoniale, di cui all’art. 2059 cod. civ., rientra, oltre al tradizionale danno morale subiettivo nei casi previsti dalla legge, anche ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, dalla quale lesione conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata principalmente all’art. 185 cod. pen.”.
Prosegue poi la Corte: “tale interpretazione, decisamente da condividere, ha riportato la responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal codice vigente tra danno patrimoniale ( art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale ( art. 2059 c.c.), con la conseguenza che lo stesso danno biologico, quale danno alla salute, rientrando a pieno titolo a norma dell’art. 32 Cost., tra i valori della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione, trova la sua tutela non nell’art. 2043 c.c., ma nell’art. 2059 cod. civ. Sennonchè, mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo riferimento al “danno ingiusto”, la clausola generale e primaria di cui all’art. 2043 c.c. comporta un’atipicità dell’illecito, come esattamente affermato a seguito degli arresti della S.C. n. 550 e 501 del 1999, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile. Infatti, la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge. La lettura suddetta, costituzionalmente orientata, della Corte di legittimità, ha in buona sostanza ritenuto che, non potendo il legislatore ordinario, per il principio della gerarchia delle fonti, porre limiti alla risarcibilità di valori della persona umana, nella misura e nei casi in cui sono considerati inviolabili dalla Costituzione, anche a detti valori va riconosciuta la tutela minima, e cioè quella risarcitoria. Così interpretando l’art. 2059 cod. civ., si è rimasti nella tipicità del danno non patrimoniale, in quanto si è ritenuto che esso sia risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge ordinaria, ma anche nel caso di lesioni di specifici valori costituzionalmente garantiti della persona. La conseguenza di ciò è che ai fini dell’art. 2059 cod. civ. non può farsi riferimento ad una generica categoria di “danno esistenziale” (dagli incerti e non definiti confini), poichè attraverso questa via si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione dell’apparente tipica figura categoriale del “danno esistenziale”, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona, ritenuti inviolabili dalla norma costituzionale”.
La conclusione cui giunge la Corte è che “ il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori dalla ipotesi di cui all’art. 185 c.p. e delle altre minori ipotesi legislativamente previste, attiene solo ad ipotesi specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero, ecc), ma in questo caso non vi è un generico danno non patrimoniale “esistenziale”, ma un danno da lesione di quello specifico valore di cui al referente costituzionale. Non è sufficiente, quindi, come per il danno patrimoniale, che sussista una lesione di una posizione giuridica considerata meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, sia pure a fini diversi da quelli risarcitori, ma è necessario, ai fini della risarcibilità ex art. 2059 c.c., che tale lesione attenga a valori della persona umana che la Costituzione dichiari inviolabili, e, come tali, oggetto almeno della tutela minima, che è quella risarcitoria” (Cass. Civ., sez. III, sentenza 15.07.2005 n° 15022).
Alla luce di tali principi, si ritiene che nel caso di specie non sussista il danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente. Infatti, in base alla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., sganciata dal vecchio richiamo all’art. 185 cod. pen., non è possibile individuare una concreta lesione dei diritti inviolabili della persona stabiliti dalla Costituzione. Se è vero che si può configurare un danno non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente protetti (ed, in effetti, la pronuncia del Consiglio di Stato n° 1096 del 2005 ha dato luogo al risarcimento del danno non patrimoniale inerente la lesione del diritto al lavoro annoverato tra i diritti inviolabili della nostra Costituzione) non si rileva nel caso in esame alcuna compressione di tali diritti dato che dalla revoca di un rapporto concessorio possono ben derivare danni patrimoniali e non patrimoniali ma questi ultimi devono incidere, per essere risarciti, sui c.d. diritti della personalità sanciti dalla Costituzione quali ad esempio la salute, la reputazione etc. (si veda per una analoga applicazione di siffatti principi T.a.r. Puglia – Bari n° 3888 del 2005). Non ogni lesione ingiusta di una posizione giuridica va risarcita, ma solo quelle lesioni che incidono su diritti dichiarati inviolabili dalla Carta Costituzionale.
La richiesta risarcitoria va, pertanto, accolta limitatamente alla voce di danno patrimoniale, mentre non spetta alcun risarcimento a titolo di danno esistenziale.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO PER LA SARDEGNA
SEZIONE SECONDA
Così dispone in ordine al ricorso in epigrafe:
1. accoglie la domanda di annullamento del provvedimento impugnato e, per l’effetto, lo annulla;
2. accoglie la domanda di risarcimento danni limitatamente alle spese stragiudiziali sostenute e, per l’effetto, condanna il Comune di Porto Torres al pagamento della somma di Euro 1570,12 (millecinquecentosettanta, 12);
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi 2.000,00 Euro, oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Cagliari, nella camera di consiglio, il giorno 9 novembre 2005 dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna con l’intervento dei signori:
Lucia Tosti, presidente;
Rosa Panunzio, consigliere;
Francesco Scano, consigliere, estensore.
Depositata in segreteria oggi: 30/01/2006

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