Consiglio di Stato, Sez. VII, 28 dicembre 2022, n. 11479

Consiglio di Stato, Sez. VII, 28 dicembre 2022, n. 11479

Pubblicato il 28/12/2022
N. 11479/2022REG.PROV.COLL.
N. 02485/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2485 del 2018, proposto da
Maria P. e Alfonso C., rappresentati e difesi dall’avvocato Andrea Di Lieto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Santina Murano in Roma, via Pelagio I, n. 10
contro
Comune di Roccapiemonte, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Armenante, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Annalisa Di Giovanni in Roma, via di San Basilio, 61
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima) n. 1263/2017
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roccapiemonte;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm.;
Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 11 novembre 2022 il Cons. Rosaria Maria Castorina e uditi gli avvocati Andrea Di Lieto per parte appellante e Francesco Armenante per parte appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Gli appellanti, originari ricorrenti, premesso di essere comproprietari di un appezzamento di terreno sul quale avevano conseguito un primo permesso di costruire (n. 120 del 6 ottobre 2006), per la realizzazione di un fabbricato rurale destinato a deposito agricolo, esponevano che, successivamente, era stato rilasciato un nuovo titolo edilizio per la realizzazione di un edificio destinato al deposito di prodotti ortofrutticoli (p.d.c. n. 298 del 12 dicembre 2011, prot. n. 18755).
Il Comune di Roccapiemonte aveva, però, annullato in autotutela l’atto ultimo citato sull’assunto che “si è avviata la realizzazione di opere su un’area gravata da vincolo di inedificabilità assoluta, a tutela di prioritarie ed inderogabili esigenze di tutela della pubblica salute”.
Per l’effetto, l’Amministrazione aveva disposto il ripristino dello stato dei luoghi (provvedimento n. 16017 del 23 ottobre 2015), relativamente alle opere di sbancamento e terrazzamento realizzate in virtù del p.d.c. oggetto di autotutela.
Successivamente (decorso il termine all’uopo assegnato), con decreto di inottemperanza n. 2485 del 22 febbraio 2016, propedeutico all’acquisizione del bene al patrimonio comunale, l’Amministrazione ingiungeva la sanzione pecuniaria prevista.
Nelle more, i ricorrenti proponevano appello cautelare.
Il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 745/2016, sospendeva gli atti solo in ragione della necessità di un approfondimento istruttorio innanzi al TAR, ferma restando la sussistenza del vincolo cimiteriale.
La resistente P.A. nell’uniformarsi alla decisione, con provvedimento n. 4875 del 4 aprile 2016, sospendeva l’efficacia del provvedimento del ripristino dello stato dei luoghi n. 16017/2015 ed il consequenziale verbale di accertamento di inottemperanza n. 2485/2016, nelle more della definizione della controversia.
Successivamente, con l’ordinanza n. 2521 del 18 novembre 2016, il TAR disponeva la nomina di un verificatore.
All’esito del giudizio il TAR, con la sentenza n. 1263 del 31 luglio 2017, respingeva il ricorso.
Appellata ritualmente la sentenza, resiste il comune di Roccapiemonte.
All’udienza di smaltimento del 11 novembre 2022 la causa passava in decisione.
DIRITTO
1. Con il primo motivo gli appellanti deducono: Error in iudicando; Violazione e falsa applicazione degli artt. 63-67 del d.lgs. 104/2010 e dei principi in materia valutazione delle prove; Violazione dell’art. 112 del c.p.c.; Motivazione erronea ed illogica; Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 nonies della l. 241/90 e dell’art. 338 del R.D. 1265/34; Incompetenza; Eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità e difetto di motivazione, anche in punto di pubblico interesse, e carenza di istruttoria; Illegittimità derivata.
Deducono che, contrariamente a quanto affermato dal primo Giudice, l’unico manufatto effettivamente realizzato era stato assentito con un permesso di costruire assolutamente legittimo in quanto rilasciato prima che avvenisse l’ampliamento del cimitero e, quindi, nel rispetto dell’originario limite del vincolo cimiteriale. Evidenziano che il permesso di costruire n. 298 del 12 dicembre 2011, concesso previo il pagamento anche di un importo “quale sanzione amministrativa per difformità riscontrate nella pratica SUE P.C. 120” del 6 ottobre 2006, aveva sanato anche la difformità strutturale.
La censura non è fondata.
Con riferimento al primo permesso di costruire, i lavori non hanno avuto inizio entro l’anno dal rilascio del titolo (permesso di costruire n. 120 del 6 ottobre 2006).
Successivamente, con il p.d.c. n. 298/2011, si è autorizzata la realizzazione di un immobile per deposito e confezionamento di prodotti ortofrutticoli.
Tuttavia tale provvedimento è stato assentito nel momento in cui il cimitero comunale era già stato ampliato, con la conseguenza che il manufatto rientrava nell’area di inedificabilità assoluta ex art. 388 del R.D. n. 1265/1934.
Infatti, emerge dalla relazione di verificazione (al par. D) che l’immobile di cui al permesso di costruire: “… è ubicato ad una distanza di circa 65 mt dalla recinzione dell’ampliamento cimiteriale”.
In linea generale, il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici; esso ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale; il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica e si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (cfr. fra le altre Consiglio di Stato, sez. IV, 1° dicembre 2020, n. 7617).
L’art. 388 del R.D. n. 1265 del 1934 dispone che “I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai centri abitati. È vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri“.
Tale disposizione, contenuta nel T.U.L.S., dispone il divieto di edificazione nella fascia di rispetto di 200 metri dal centro abitato; tale disposizione non lascia adito a dubbi sulla natura assoluta del vincolo con esso imposto. Inoltre, per giurisprudenza assolutamente consolidata, il vincolo cimiteriale determina a tutt’oggi un regime di inedificabilità ex lege, integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5911; 9 marzo 2016, n. 949;27 ottobre 2009, n. 6547; Sez. V 3 maggio 2007, n. 1934; 23 agosto 2000, n.4574; Sez. II, 28 febbraio 1996, n. 3031; CGA, 26 giugno 2000, n. 299; 5 gennaio 2011, n. 2).
Il vincolo è tale da precludere il rilascio della concessione, anche qualora essa sia richiesta in sanatoria, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell’opera con i valori tutelati dal vincolo (Cons. Stato, sez. VI, 09 marzo 2016, n. 949).
Ne consegue che la presenza del manufatto all’interno della fascia di rispetto rappresenta, per applicazione diretta dell’art. 338 del R.D. n. 1265 del 1934, ragione di per sé ostativa alla regolarizzazione dell’abuso e legittima l’adozione dell’ordine di demolizione del fabbricato abusivo.
Correttamente, quindi, l’amministrazione ha adottato il provvedimento di autotutela prima e l’ordinanza di demolizione dopo.
2. Con il secondo motivo gli appellanti deducono: Error in iudicando; Violazione e falsa applicazione degli artt. 63-67 del d.lgs. 104/2010 e dei principi in materia valutazione delle prove; Violazione dell’art. 112 del c.p.c..; Motivazione erronea ed illogica; violazione e falsa applicazione degli artt.7, 8, 21 octies e 21 nonies della l. 241/90; Eccesso di potere per carenza istruttoria, difetto di presupposto e di motivazione e travisamento dei fatti; Illegittimità derivata.
Lamentano che il provvedimento n. 7086 del 15 maggio 2015 era ulteriormente illegittimo perché non preceduto da una valida comunicazione dell’avvio del relativo procedimento.
La censura non è fondata.
Risulta documentalmente che la comunicazione dell’avvio del procedimento (atto prot. n. 4418 del 30 marzo 2015) è stata notificata agli appellanti il giorno 31 marzo 2015.
In riscontro ad essa, le parti hanno presentato apposite controdeduzioni (prot. n. 5431 del 20 aprile 2015).
L’amministrazione prima di emettere il provvedimento finale, ha replicato alle stesse, specificando i motivi del non accoglimento delle argomentazioni fornite dai privati (atto prot. n. 6555 del 7 maggio 2015, notificato agli appellanti in data 21 maggio 2015).
All’esito di tale procedimento, l’Amministrazione ha disposto l’annullamento in autotutela (prot. n. 7086 del 15 maggio 2015), notificato agli appellanti il 22 maggio 2015.
In ogni caso, è pacifico in giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, II, 13 giugno 2019, n. 3971) che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto. I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato“.
3. Con il terzo motivo gli appellanti deducono: Error in iudicando; Motivazione erronea; Eccesso di potere per erroneità di motivazione e dei presupposti, travisamento dei fatti e carenza istruttoria; Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 nonies della l. 241/90, dell’art. 338 del R.D. 1265/34 e dell’art. 50 del d.lgs. 267/2000.
Contestano le altre affermazioni che si rinvengono nel provvedimento n. 7086/2015, relative al fatto che, “sulla base delle verifiche effettuate sul posto, le opere di cui al permesso di costruire n. 298/2011 non risultano ancora ed effettivamente realizzate, nonostante la comunicazione di inizio lavori del 10.12.2011 prot. n. 19771 e …risultano opere di sbancamento che hanno determinato lo stravolgimento dei naturali declivi dell’area, compresa l’eliminazione di terrazzamenti consolidati nel tempo”.
La censura non è fondata.
In sede di verificazione è stato accertato che le opere di cui al permesso di costruire n.298/2011 non erano state ancora eseguite ad eccezione delle opere di sbancamento propedeutiche alla costruzione. Né può dubitarsi della competenza ad emettere il provvedimento da parte dell’organo emanante.
4. Con il quarto motivo deducono: Vizio in iudicando; Motivazione erronea; Violazione e falsa applicazione degli art. 55 e 59 del d.lgs. 104/2010 e dei principi in materia di efficacia delle pronunce cautelari e del giudicato; Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 quater, 21 quinquies, 21 septies e 21 nonies della l. 241/90 e dell’art. 31 del d.lgs. 104/2010; Eccesso di potere per erroneità e difetto di motivazione dei presupposti; Illegittimità derivata.
Lamentano che il Responsabile del Settore Urbanistico-Responsabile dello sportello unico dell’edilizia del Comune di Roccapiemonte aveva disposto “la sospensione dell’efficacia” della “ordinanza di remissione in pristino n. 11/URB del 29 ottobre 2015 prot. n. 16017 e successivo verbale di accertamento all’inottemperanza del 22 febbraio 2016 prot. n. 2485 sino alla conclusione del suindicato giudizio innanzi al TAR” invece che disporne l’annullamento, così come richiesto con la missiva acquisita al protocollo n. 3470 del 9 marzo 2016.
La censura deve essere disattesa.
L’amministrazione ha correttamente “sospeso” i provvedimenti nelle more della definizione della controversia nel merito. Né certamente avrebbe dovuto annullare i provvedimenti amministrativi considerato che il Consiglio di Stato, con la ordinanza n. 745/2016, aveva solamente sospeso l’efficacia degli atti impugnati.
In particolare la sospensione è stata ancorata all’esigenza di un ulteriore accertamento istruttorio a carico della resistente P.A., al fine di un’esatta individuazione dei beni oggetto di contenzioso, restando “fermo che la realizzazione di un manufatto in una zona cimiteriale determina un vincolo ex lege di inedificabilità a prescindere dall’esistenza di atti accertativi da parte dell’ente comunale …”.
5. Con il quinto motivo deducono: Violazione dell’art. 112 del c.p.c. e dell’art. 88 del d.lgs. 104/2010; difetto di motivazione.
Lamentano che il primo Giudice non si era pronunciato sulla richiesta di risarcimento dei danni avanzata in primo grado “ove non dovessero essere ritenuti illegittimi gli atti impugnati ed in particolare il provvedimento n. 7086/2015”.
Il motivo non è fondato.
Osserva il Collegio che, poiché l’ordinanza di demolizione (prot. n. 7978/2015) mira a demolire un manufatto abusivo, di certo, non è fonte di danno risarcibile.
Inoltre, in sede di verificazione il tecnico ha accertato che il progettista, nella sua relazione e nelle dichiarazioni di accompagnamento al progetto, non aveva riportato la presenza del vincolo cimiteriale intervenuto per l’ampliamento realizzato del cimitero (i lavori vennero consegnati in data 19 aprile 2007 – consegna parziale e consegna definitiva in data 19 giugno 2007 e aprile-giugno 2007 ed ultimati in data 25 febbraio 2010 come da documentazione in atti), come pure negli elaborati grafici planimetrici allegati al progetto non aveva riporta il nuovo limite del vincolo cimiteriale pur inserendo l’ampliamento dello stesso cimitero. Peraltro gli appellanti, al momento della presentazione della pratica edilizia erano a conoscenza dell’intervenuto ampliamento cimiteriale (ultimato in data 25 febbraio 2010). Emerge dagli atti che parte avversa era a conoscenza, sin dal 2005, dei lavori di ampliamento del cimitero comunale (cfr. documentazione allegata). Proprio per la realizzazione dell’ampliamento del cimitero, infatti, erano state espropriate alcune aree di proprietà degli appellanti (cfr. allegato decreto di esproprio n. 1 del 29 novembre 2005).
Conseguentemente, è lo stesso comportamento assunto dal privato (che in fase di richiesta del titolo ha sottaciuto l’esistenza del vincolo de quo) ad impedire il configurarsi di qualsiasi posizione tutelabile e rilevante sotto il profilo risarcitorio.
L’appello deve essere, pertanto respinto.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna gli appellanti in solido al pagamento delle spese processuali che liquida in euro 2000,00 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2022 con l’intervento dei magistrati:
Claudio Contessa, Presidente
Fabio Franconiero, Consigliere
Sergio Zeuli, Consigliere
Giovanni Tulumello, Consigliere
Rosaria Maria Castorina, Consigliere, Estensore
L’ESTENSORE (Rosaria Maria Castorina)
IL PRESIDENTE (Claudio Contessa)
IL SEGRETARIO

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Sereno Scolaro

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