Consiglio di Stato, Sez. VII, 14 dicembre 2022, n. 10973

Consiglio di Stato, Sez. VII, 14 dicmbre 2022, n. 10973

Pubblicato il 14/12/2022
N. 10973/2022REG.PROV.COLL.
N. 09248/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9248 del 2020, proposto da < omissis > S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Angela Maria Lorena Cordaro, Paolo Piva, con domicilio eletto presso lo studio Angela Maria Lorena Cordaro in Roma, viale Bruno Buozzi, 53/A;
contro
Comune di Padova, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Marina Lotto, Vincenzo Mizzoni, Giovanni Corbyons, Paolo Bernardi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone 44;
nei confronti
Alessandra Calore, non costituito in giudizio;
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 00128/2020, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Padova;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 ottobre 2022 il Cons. Sergio Zeuli. Nessuno è presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
A sostegno del gravame la parte appellante deduce le seguenti circostanze:
– a partire dal mese di settembre del 2015 Memoria s.r.l., dopo aver sostenuto cospicui investimenti, inaugurava cinque dimore cinerarie private denominate “Luoghi della Memoria”, dislocate in altrettanti quartieri della città di Padova, destinate ad ospitare esclusivamente urne cinerarie in ambienti gradevoli, riservati, protetti e perciò adeguati al raccoglimento in preghiera in memoria dei defunti;
– poiché voleva attivare un sesto ambiente nel quartiere Sacra Famiglia, rione San Giuseppe, la società, dopo avere acquistato il necessario per l’allestimento, avviava le attività per l’individuazione dell’immobile adatto ad ospitarlo.
L’iniziativa attirava anche osservazioni contrarie, soprattutto tra i residenti ed i commercianti delle zone di insediamento, il che determinava anche un irrigidimento dell’amministrazione comunale che, ritenendo che in base all’art. 52 del Regolamento comunale dei Servizi Cimiteriali, le urne cinerarie extra-cimiteriali potessero essere custodite “unicamente presso l’abitazione dell’affidatario ” e che vi fosse peraltro un espresso divieto “di conservare l’urna cineraria presso locali ad uso commerciale” –invitava l’appellante ad abbandonare il progetto imprenditoriale in itinere, informando al contempo i cittadini sul proprio sito internet istituzionale che non avrebbe autorizzato la traslazione di urne cinerarie presso le dimore cinerarie gestite dall’odierna appellante.
L’appellante replicava al Comune rappresentando la piena liceità della sua attività imprenditoriale, anche alla luce delle norme costituzionali poste a presidio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti.
Ciò non pertanto il Comune decideva di modificare l’art.52 del Regolamento comunale e, con delibera del Consiglio Comunale n. 84/2015, introduceva obblighi e divieti – a dire dell’appellante – in precedenza inesistenti.
L’appellante proponeva ricorso al TAR avverso la predetta delibera, chiedendone l’annullamento previa sospensione degli effetti e proponendo domanda di risarcimento del danno subito per effetto del provvedimento impugnato. A fondamento della denunciata illegittimità della delibera la ricorrente svolgeva sei motivi di ricorso, i primi due attinenti alla violazione di molteplici disposizioni di legge poste a tutela di diritti costituzionalmente garantiti (ius eligendi sepulchrum e libertà di iniziativa economica privata) e gli altri quattro volti a censurare altrettanti profili di eccesso di potere dell’azione amministrativa conclusasi con la modifica regolamentare oggetto di impugnazione.
Nel giudizio di primo grado si costituivano il Comune e l’avv. Alessandra Calore, che svolgeva intervento ad opponendum e associandosi alla richiesta di rigetto del ricorso formulata dall’amministrazione resistente.
In data 11 maggio 2017 si celebrava l’udienza di discussione, all’esito della quale il TAR Veneto, con ordinanza n. 543 del 31 maggio 2017, decideva di rimettere alla Corte di giustizia UE una questione pregiudiziale interpretativa ai sensi dell’art. 267 TFUE, dubitando della conformità della regolamentazione comunale ai principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato.
Con sentenza del 14 novembre 2018 (causa C-342/17) la Corte di giustizia UE statuiva chiaramente, sulla scorta di articolata motivazione, che “l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che vieta, anche contro l’espressa volontà del defunto, all’affidatario di un’urna cineraria di demandarne a terzi la conservazione, che lo obbliga a conservarla presso la propria abitazione, salvo affidarla ad un cimitero comunale e, inoltre, che proibisce ogni attività esercitata con finalità lucrative avente ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale”.
In data 21 novembre 2019 veniva celebrata una nuova udienza di discussione, previo deposito di ulteriori memorie ex art. 73 CPA, all’esito della quale il Giudice di prime cure pronunciava la sentenza con cui:
a) preso atto della natura vincolante della pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia UE, accoglieva il ricorso “per quella parte di censure contenute nell’ambito del primo e del secondo motivo con le quali la Società ricorrente lamenta l’illegittimo divieto di svolgimento dell’attività di conservazione delle urne cinerarie su compenso economico”;
b) rigettava la domanda risarcitoria di Memoria s.r.l. per asserita insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione.
Avverso di essa, è presentato l’appello di Memoria s.r.l., col quale, oltre a riproporre espressamente le censure attinenti ai profili di eccesso di potere non esaminate dal TAR, si chiede la parziale riforma della sentenza di primo grado, impugnandone per quanto di interesse il capo sub b) con cui è stata rigettata la richiesta di risarcimento, per i seguenti motivi 1) ERRONEA ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ RISARCITO-RIA DEL COMUNE PER I DANNI CAGIONATI A MEMORIA S.R.L. IMPOSSIBILITÀ DI ASSUMERE LA COLPA DELLA P.A. QUALE ELEMENTO INDEFETTIBILE DI UNA FATTISPECIE DI RESPONSABILITÀ DERIVANTE DALLA VIOLAZIONE DEL DIRITTO UE. VIOLAZIONE ART. 53 L. 234/2012 2) ECCESSO DI POTERE PER SVIAMENTO DI POTERE, PER TRAVI¬SAMENTO GRAVE DEI FATTI, PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E PER ILLOGICITÀ, IRRAGIONEVOLEZZA E INGIUSTIZIA MANIFE¬STE DEL PROVVEDIMENTO.
Si costituiva in giudizio il Comune di Padova, contestando l’avverso dedotto e chiedendo il rigetto dell’appello. Con l’occasione l’ente locale spiegava appello incidentale affidandolo ai seguenti motivi: I) ERRONEITA’ PARZIALE DELLA SENTENZA IN ORDINE ALL’ACCOGLIMENTO DELLE CENSURE DEL I E II MOTIVO DEL RICORSO INTRODUTTIVO. ERRONEITA’ DEI PRESUPPOSTI E CONTRADDITTORIETA’. TRAVISAMENTO DELLE NORME E DEI FATTI II) ERRONEITA’ PARZIALE DELLA SENTENZA CIRCA L’ASSERITA “SUSSISTENZA DEGLI ELEMENTI CONCERNENTI LA LESIONE DELLA SITUAZIONE GIURIDICA SOGGETTIVA TUTELATA DALL’ORDINAMENTO E DEL NESSO CAUSALE TRA ATTO ANNULLATO E DANNO SUBITO”. INSUSSISTENZA DI TUTTI I PRESUPPOSTI EX 2043 CC PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI QUANTIFICATI IN €. 551.142,43.
L’appellante incidentale chiedeva altresì c) la riforma della sentenza nella parte in cui condannava alle spese l’appellante incidentale.
DIRITTO
3. In via preliminare va esaminata l’eccezione di intempestività del gravame sollevata dalla parte intimata, secondo cui, essendo stata la sentenza pubblicata il 4 febbraio del 2020 il termine di sei mesi per l’appello sarebbe scaduto il 4 settembre successivo, tenuto conto della sospensione feriale, mentre il gravame è stato notificato al Comune solo il 31 ottobre successivo, dunque in ritardo.
La prospettazione va disattesa perché non calcola la sospensione dei termini prevista dal combinato disposto dell’art.84 del D.L. 17 del 2020 e dell’art.36 comma 3 del D.L. 23 del 2020, per complessivi 57 giorni, in virtù della quale il termine effettivo per proporre appello era traslato al 31 ottobre incluso.
È vero che detta sospensione ex lege si riferiva, letteralmente, ai termini di cui agli articoli 29 e 41 del c.p.a. ma è altrettanto vero che – in presenza di un’identità di ratio di questi ultimi con quelli previsti dall’art.92 commi 1 e 3 c.p.a. – risulterebbe disparitario ed ingiustamente lesivo del diritto di difesa non riconoscerne l’applicazione anche ai termini previsti per la notifica del ricorso in appello. A maggior ragione tale applicazione analogica è vieppiù giustificata nel processo amministrativo, dove – a differenza che in quello civile- entrambi i gradi del giudizio presentano la medesima struttura impugnatoria, prevedendo peraltro eguali termini decadenziali.
Tanto meno è convincente l’argomento fondato sulla non cumulabilità tra la sospensione dei termini dovuta al COVID e quella cd. “feriale”. Le due parentesi della decorrenza dei termini di rito si spiegano, invero, sulla base di fatti giuridico-legali diversi, hanno presupposti e struttura differente (occasionale ed emergenziale la prima, periodica ed ordinaria la seconda) e si giustificano alla luce di due differenti prospettive di tutela, la prima destinata a fronteggiare la paralisi indotta dalla pandemia di Covid 19, la seconda finalizzata a contemperare l’attività processuale con le esigenze organizzative professionali dei difensori, e più in generale di quelle dell’amministrazione della giurisdizione complessivamente intesa.
4. Venendo ai motivi di appello, per ragioni di conseguenzialità logica conviene partire dall’appello incidentale sollevato dalla parte appellata, sebbene si tratti di appello ex art.334 c.p.c. che sarebbe destinato ad essere dichiarato inammissibile, atteso il rigetto dell’appello sulla domanda risarcitoria (per la quale vedasi infra).
Col gravame incidentale, si contesta al giudice di prime cure di avere male interpretato il dictum espresso dalla Corte di giustizia con la sentenza del 14 novembre 2018. Nella sua prospettiva quel pronunciamento avrebbe limitata (e comunque non decisiva) portata dirimente della presente controversia per un duplice ordine di motivi: innanzitutto perché quella decisione, sebbene abbia affermato in linea generale che il divieto di sfruttamento commerciale delle ceneri sia illegittimo, non poteva condurre all’annullamento del regolamento cimiteriale impugnato, attesane l’efficacia territoriale, confinata nel solo Comune di Padova e la sua conseguente inidoneità ad alterare la libertà di stabilimento, e più in generale, la concorrenza nel più vasto ambito europeo.
A suffragio di quanto dedotto l’appellante incidentale nota che il segnalato contenimento degli effetti di quella decisione sarebbe confermato dalle parole utilizzate dal giudice europeo, che afferma che “l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che vieta, anche contro l’espressa volontà del defunto, all’affidatario di un’urna cineraria di demandarne a terzi la conservazione, che lo obbliga a conservarla presso la propria abitazione, salvo affidarla ad un cimitero comunale e, inoltre, che proibisce ogni attività esercitata con finalità lucrative avente ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale” con ciò rendendo evidente –secondo il comune di Padova- che l’efficacia di questa sentenza sul regolamento impugnato sarebbe solo indiretta, avendo la pronuncia prescelto quale interlocutore immediato il solo legislatore nazionale.
Il motivo, anche nella sua doppia articolazione, non è convincente per una pluralità di ragioni. Prima di tutto, omette di rilevare che quella sentenza della Corte di giustizia è stata emessa, ex art.267 TFUE, a seguito di rinvio pregiudiziale disposto proprio nel corso del procedimento di cui si discute, il che significa che il giudice europeo ha esaminato esattamente la fattispecie oggetto del presente processo, nel quale, fra gli altri atti oggetto della richiesta di compatibilità con le norme del Trattato, vi era anche il Regolamento in discussione, né vi è alcun elemento nella motivazione che faccia ritenere che quella sentenza abbia inteso escludere il ridetto regolamento dalla generale negativa valutazione ivi espressa.
Tanto a tacer del fatto che, in ogni caso, proprio perché la pronuncia giurisdizionale è intervenuta nel corso di quel processo, se ne potrebbe sostenere la vincolatività in re ipsa in quel giudizio.
In secondo luogo l’obiezione in analisi sembra sostenere che un atto amministrativo generale in contrasto col diritto UE non debba essere disapplicato, quando, secondo la giurisprudenza amministrativa maggioritaria, per esigenze di coerenza dell’ordinamento giuridico, va affermato esattamente il contrario.
Infine, quanto alla diversa (e più ampia) estensione dell’efficacia – il cd. “ambito della concorrenza europea”, che in questo caso non sarebbe raggiunto – che le sentenze della Corte di giustizia dovrebbero avere, si osserva che l’obiezione, anche in questo caso, omette di considerare che la ragione della sollevata questione pregiudiziale è stata indicata dal TAR nella prospettata applicazione dell’art.53 della L.234 del 2012, che, in espressa attuazione della prospettiva unionale, tende a prevenire qualsiasi iniziativa dello stato italiano che imponga la cd. “discriminazione inversa”, ossia vuole contrastare una disciplina nazionale, regolamentare o legislativa che sia, che limita per i soli cittadini italiani la fruizione di libertà fondamentali previste nel Trattato. Situazione che è proprio, come si vede, quella implicata nel caso di specie, lamentata dalla parte appellante nel ricorso originario, riscontrata dal TAR e riconosciuta definitivamente sussistente dalla pronuncia della Corte di Giustizia.
4.1. Tanto premesso, su questo punto la sentenza gravata va confermata. E poiché, in questa parte, la motivazione contempla, ed indirettamente, accoglie gli altri motivi proposti in primo grado dall’appellante, tutti centrati sul prospettato vizio di eccesso di potere di detto regolamento, anche le relative allegazioni possono condividersi, nei limiti in cui ripropongono i vizi rilevati dal supremo giudice europeo, con conseguente conferma, anche in questo caso, della sentenza.
4.2. Le ragioni che inducono a confermare, in parte qua, la sentenza appellata inducono a rigettare anche il secondo motivo di appello incidentale, con cui si impugna la pronuncia di primo grado nella parte relativa alla condanna alle spese. In applicazione del principio di soccombenza, e non ravvisandosi eccezionali ragioni che possano derogarvi, va confermata la condanna alle spese della parte intimata, disposta dal giudice di primo grado.
5. Venendo alla domanda di risarcimento formulata dall’appellante principale, anche in questo caso, ritenendosene corretta la prospettiva, va confermata in parte qua, la sentenza appellata.
Converrà innanzitutto ribadire – nonostante le censure sollevate in merito dal Comune di Padova- che sussiste un nesso causale tra la modifica apportata all’art.52 del Regolamento cimiteriale, e l’effetto lesivo prodottosi nella sfera giuridica dell’appellante. All’uopo basta infatti leggere il comma 10 della suddetta disposizione che pone un espresso divieto alla conservazione di urne cinerarie per finalità di lucro, ed il successivo comma 11 che, conseguentemente ed in modo espresso, prevede che: l’accertata inottemperanza alle disposizioni e prescrizioni relative alle modalità di conservazione, comporterà l’obbligo di riconsegna al Servizio Cimiteriale dell’urna cineraria per la ricollocazione in ambito cimiteriale, oltre all’applicazione delle sanzioni previste dalla legge.
Tanto dimostra che – dopo la modifica dell’art.52 del regolamento- all’appellante non restava altra possibilità che quella di desistere dall’intrapresa commerciale avviata onde evitare di incorrere in sanzioni gravi. Sanzioni che, peraltro, per conseguenza causale immediata e diretta, l’avrebbero esposta a responsabilità per inadempimento contrattuale nei confronti dei parenti dei defunti le cui ceneri custodiva.
Quest’ultima constatazione rende irrilevante l’obiezione del Comune di Padova, che rappresenta che, non avendo Memoria s.r.l. mai richiesto un’autorizzazione per quell’attività, la mancanza di un regime amministrativo di regolazione, escluderebbe, in radice, la possibilità di una responsabilità a suo carico. È per contro evidente che il danno discendeva, a prescindere dal regime regolativo, amministrato o no che fosse, dal rigido divieto imposto dall’ente col regolamento, perché, laddove se ne fosse dimostrata l’illiceità, sarebbe stato di per sé solo idoneo ad integrare la fattispecie di cui all’art.2043 c.c. .
5.1. Tuttavia, confermando la sentenza di primo grado, nella fattispecie prospettata a supporto della domanda risarcitoria manca l’elemento della colpa della P.A. procedente.
Non può infatti fondatamente sostenersi che la scelta discrezionale adottata con la modifica dell’art.52 del regolamento, e l’introduzione di un divieto di un’attività di gestione delle urne cinerarie a scopo di lucro, fosse gravemente errata, disfunzionale e frutto di un grave ed inescusabile errore giuridico o valutativo.
La relativa iniziativa venne infatti assunta dal Comune che, in un primo tempo non era intervenuto, a seguito di segnalazioni ricevute da enti istituzionali (Carabinieri ed ASL) e cittadini, titolari di attività commerciali e residenti nei pressi delle sedi dell’azienda, che avevano segnalato problemi di ordine pubblico e sanitari sorgenti dalla detta attività.
La preoccupazione non era peregrina tanto che lo stato italiano, difendendo la normativa dinanzi il giudice europeo, aveva addotto motivi per l’appunto legati all’ordine pubblico ed a ragioni di salute, ricollegabili a diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. È pur vero che questi ultimi profili sono stati ritenuti dalla Corte recessivi rispetto a quelli evincibili dall’art.49 TFUE, ma si deve riconoscere – ai fini della tematica che ci occupa – che lungi dal potersi considerare argomenti irragionevoli e pretestuosi, essi rappresentavano motivi consistenti che giustificavano i dubbi e le incertezze dell’autorità procedente, e quindi consentono di escludere che, nell’occorso, abbia tenuto una condotta negligente o non accorta.
E che non si trattasse di una situazione certa ed inequivocabile è dimostrato indirettamente dallo stesso processo di primo grado, dove il giudice, per addivenire ad una soluzione giuridicamente corretta della controversia, ha fatto ricorso al rinvio pregiudiziale: se la situazione fosse stata giuridicamente univoca avrebbe direttamente proceduto all’interpretazione conforme ai principi del Trattato, senza evocare l’intervento della Corte unionale.
Infine a confermare come fossero numerosi e consistenti gli elementi che inducevano ad un’incertezza nella (e di converso escludevano la colpa della) amministrazione procedente, militavano una serie di disposizioni legislative, statali e regionali, che sembravano essere, almeno tendenzialmente, coincidenti con le disposizioni introdotte nell’art.52 del regolamento: tra le altre, l’articolo 3 comma 1 della legge n.130 del 2001, in particolare la lettera c) nella parte in cui esclude che l’attività di dispersione della ceneri possa dar luogo ad attività aventi finalità di lucro, l’articolo 92 comma 4 del D.P.R. n. 285 del 1990 che fa divieto di concedere aree per sepolture private a persone o a enti che mirino a farne oggetto di lucro, l’art. 3 della Legge regionale Veneto del 4 marzo 2010, n. 18, che affida ai Comuni il compito di emanare le prescrizioni sulla conservazione e sulle caratteristiche delle urne cinerarie, e l’art. 50, comma 4 della stessa legge che dispone che “la dispersione in aree private deve avvenire all’aperto, con il consenso dei proprietari, e non può dare luogo ad attività aventi fini di lucro”.
6. Conclusivamente questi motivi inducono a respingere anche l’appello principale. La reciproca soccombenza è ragione giustificativa a compensare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, come in epigrafe proposti, rigetta entrambi.
Compensale le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 ottobre 2022 con l’intervento dei magistrati:
Roberto Giovagnoli, Presidente
Daniela Di Carlo, Consigliere
Sergio Zeuli, Consigliere, Estensore
Maurizio Antonio Pasquale Francola, Consigliere
Rosaria Maria Castorina, Consigliere
L’ESTENSORE (Sergio Zeuli)
IL PRESIDENTE (Roberto Giovagnoli)
IL SEGRETARIO

Written by:

Sereno Scolaro

431 Posts

View All Posts
Follow Me :