Cassazione penale, Sez. VI, 13 giugno 1997, n. 8621

Norme correlate:
Art 646 Regio Decreto n. 1398/1930
Capo 17 Decreto Presidente Repubblica n. 285/1990
Art 410 Regio Decreto n. 1398/1930
Art 358 Regio Decreto n. 1398/1930

Massima:
Cassazione penale, Sez. VI, 13 giugno 1997, n. 8621
Non sono qualificabili come “res nullius” e neppure come “res derelictae” gli oggetti rinvenuti sulle salme inumate nei cimiteri ovvero durante le operazioni di bonifica dei campi cimiteriali, trattandosi di oggetti da ritenere, quanto meno presuntivamente, appartenuti ai defunti o a coloro che hanno inteso testimoniare a questi ultimi il loro affetto ed onorare la memoria, ed ai quali, quindi, in tal modo, è stata data da chi poteva disporne, sia jure successionis, sia a titolo di mero possesso, una specifica destinazione, la quale può dirsi venuta meno solo in presenza di rinuncia, come nel caso in cui la persona legittimata, pur posta in condizioni di intervenire alle operazioni di riesumazione o informata del rinvenimento di cose che potrebbero appartenerle, non si presenti ovvero ponga in essere altro comportamento manifestante inequivoco disinteresse verso gli oggetti rinvenuti o rinvenibili. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la S.C. ha ritenuto che correttamente fosse stata ritenuta la penale responsabilità, a titolo di appropriazione indebita aggravata, di taluni dipendenti comunali, addetti al settore cimiteriale, i quali si erano impossessati di oggetti preziosi rinvenuti su salme delle quali era stata disposta la riesumazione, ovvero nel terreno del cimitero, nel corso di operazioni di bonifica).
Laddove, anche il rapporto agli usi sociali, la corresponsione del denaro trovi l’occasione, piuttosto che la causa, nella prestazione del pubblico servizio, la condotta dell’incaricato del pubblico servizio non integra delitto di corruzione impropria susseguente, difettando il collegamento strumentale con il pubblico servizio e l’abuso delle pubbliche attribuzioni.
Atteso il chiaro disposto dell’art. 87 d.P.R. 10 settembre 1990 n. 285, il consenso dei parenti del defunto non giustifica la frantumazione delle ossa del cadavere.
È da escludere che rivestano qualità di incaricati di pubblico servizio i dipendenti comunali addetti, quali “interratori”, alla sepoltura delle salme, trattandosi di soggetti la cui attività è qualificabile come “meramente materiale”, senza che in contrario possa rilevare il fatto che essi siano tenuti, oltre che a svolgere il loro lavoro (avuto riguardo alla pietas verso i defunti) con particolare rispetto, delicatezza e attenzione, anche a dare contezza, secondo regolamento, al competente ufficio amministrativo, degli oggetti o ricordi personali rinvenuti nell’esercizio della loro attività.

Testo completo:
Cassazione penale, Sez. VI, 13 giugno 1997, n. 8621
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Pasquale TROJANO Presidente
Dott. Oreste CIAMPA Consigliere
Dott. Ugo SCELFO Consigliere
Dott. Giuseppe LA GRECA Consigliere
Dott. Eugenio AMARI Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da 1) <C. F.>, nato ad Adria il 13.6.1966; 2) <M. L.>, nato a Torino il 6.5.1960; 3) <O. G.>, nato a San Cataldo il 4.3.1940; 4) <O. R.>, nato a San Cataldo l’1.9.1937, avverso la sentenza in data 12.11.1996 della Corte di appello di Torino.
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Giuseppe LA GRECA,
Udito, per la parte civile, l’Avv. Luciano Marcon del Foro di Torino il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Gianfranco IADECOLA, che ha concluso per il rigetto del ricorso,
Udito il Difensore avv. Claudio dal Piaz, il quale ha chiesto l’annullamento della sentenza.
FATTO
1. Con sentenza in data 14.6.1994 il Tribunale di Torino dichiarava <C. F.> e <M. L.> colpevoli:
a) del reato di cui agli artt. 81 cpv, 110, 314 comma, 1 c.p. perché, nella loro qualità di dipendenti del Comune di Torino impiegati nel settore cimiteriale e pertanto incaricati di pubblico servizio, avendo per ragione del medesimo la disponibilità di oggetti preziosi presenti sulle salme riesumate e altresì rinvenuti nelle opere di bonifica dei campi, se ne appropriavano (da epoca imprecisata e fino al 16.11.1993);
b) del reato di cui agli artt. 81 cpv., 110, 410, comma 2, 61 n. 2, c.p. perché in occasione delle riesumazioni delle salme e delle opere di bonifica dei campi compivano atti di vilipendio su cadaveri, deturpandoli e-o mutilandoli, nella specie asportando mandibole e arcate dentarie;
c) del reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 317 c.p. perché inducevano vari familiari di defunti non potuti identificare e i titolari della quasi totalità delle imprese di pompe funebri di Torino o provincia a dare loro indebitamente denaro;
d) del reato di cui all’art. 416 c.p. perché si associavano tra loro (e con altre persone) allo scopo di commettere i delitti di cui sopra.
Ritenuta la continuazione tra i reati e concesse le attenuanti generiche e quelle di cui all’art. 62 n. 6 c.p., il Tribunale condannava il <C.> e il <M.> alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione ciascuno.
Con la stessa sentenza i giudici dichiaravano <O. G.> e <O. R.>colpevoli dei reati di cui agli artt. 81 cpv., 110, 317 e 323, comma 2, c.p. perché, nella loro qualità di incaricati di pubblico servizio (dipendenti comunali in quanto cappellani addetti al Cimitero Parco di Torino): inducevano i titolari della quasi totalità delle imprese di pompe funebri di Torino a dare loro indebitamente denaro secondo cadenze periodiche; inducevano indebitamente privati cittadini ad elargire loro offerte in denaro che destinavano a sè, in spregio di quanto previsto dal regolamento cimiteriale; in altre occasioni, richiedevano denaro alle imprese di pompe funebri di cui sopra e se ne facevano elargire da privati cittadini che usufruivano del loro servizio.
Il Tribunale, ritenuti i reati uniti dal vincolo della continuazione e concesse le attenuanti generiche, condannava ciascuno degli imputati alla pena di anni due e mesi otto di reclusione.
2. In data 12.11.1996 la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva il <C.> e il <M.>dai reati loro ascritti sub c e d per non aver commesso i fatti, mentre li riteneva responsabili del reato continuato di cui agli artt. 81 cpv., 646, 61 n. 11, 410, comma 1, c.p. (cosi modificate le originarie imputazioni sub a e b) e concessa agli stessi l’ulteriore attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 c.p., con prevalenza delle attenuanti sull’aggravante di cui all’art. 61 n. il c.p., rideterminava la pena in mesi sei di reclusione e L. 300.000 di multa ciascuno.
La Corte dichiarava inoltre la responsabilità di <O. G.> e <O. R.>per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 110, 318 cpv e 320 c.p. (così modificata l’originaria imputazione), e concesse le ulteriori attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6, c.p. e 323 bis c.p., rideterminava la pena in mesi quattro di reclusione ciascuno.
3. Nell’interesse del <C.> e del <M.> ha proposto ricorso per cassazione l’avv. Claudio Dal Piaz, il quale deduce violazione di legge con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b ed e c.p.p. in relazione all’art. 125 c.p.p., in ordine a due punti della decisione. Anzitutto, per quanto concerne l’appropriazione indebita, i due imputati sempre ritennero in buona fede di poter trattenere gli oggetti rinvenuti, come fossero res nullius. Per quanto poi concerne il delitto di vilipendio di cadavere, il ricorso nega che siano emersi episodi riguardanti gli imputati, i quali avrebbero soltanto eseguito alcune frantumazioni su richiesta dei parenti dei defunti, ritenendo di avere il consenso degli aventi diritto. ricorrerebbe quindi la relativa scriminante.
L’avv. Dal Piaz ha proposto ricorso anche nell’interesse di <O. G.> e <R.>, deducendo violazione dell’art. 606 lett. a e b c.p.p., in relazione agli artt. 357, 318 e 320 c.p. Infatti: andrebbe escluso che gli <O.> fossero incaricati di pubblico servizio; la motivazione sarebbe carente per un verso e contraddittoria per un altro, in ordine alla sussistenza del reato ex artt. 318 e 320 c.p., non essendosi tenuto conto della costante prassi che contrassegnava le elargizioni ai sacerdoti, da intendersi come segno di riconoscenza per l’assistenza religiosa.
DIRITTO
1. Secondo il primo motivo di ricorso, il <C.> e il <M.> si impossessarono di oggetti preziosi rinvenuti sulle salme o comunque durante le opere di bonifica dei campi cimiteriali in assoluta buona fede, ritenendo trattarsi di res nullius. All’argomento non può riconoscersi fondamento alcuno.
Gli oggetti rinvenuti sulle salme o nel terreno utilizzato per la sepoltura certamente non costituiscono res nullius, giacché sono certamente o presuntivamente – in assenza di elementi contrari – appartenuti alle persone decedute o a coloro che hanno inteso testimoniare nei confronti delle medesime il loro affetto ed onorarne la memoria. Nell’un caso come nell’altro, va escluso che le cose non siano mai appartenute ad alcuno, come deve invece ritenersi per le res nullius.
Agli oggetti menzionati non può d’altra parte riconoscersi neanche natura di res delictae. A qualificare tale categoria di beni vale infatti non soltanto il dato fattuale dell’abbandono da parte del proprietario, ma anche l’intenzione di rinunciare al diritto sulla cosa (animus dereliquendi). Questo elemento non sussiste quando l’oggetto venga lasciato sul corpo della persona deceduta, perché con questo atto il proprietario dà al bene una specifica destinazione, risultante per facta concludentia. Né vale a revocare in dubbio tali valutazioni il fatto che colui che dispone del bene non ne sia stato sempre proprietario, ma lo sia divenuto jure successionis, proprio a seguito della scomparsa della persona onorata, ovvero ancora ne sia soltanto possessore, posto che con riguardo ai beni mobili il possesso in buona fede vale titolo (art. 1153 c.c.) e la buona fede si presume (art. 1147 c.c.).
Sarebbe quindi in contrasto con la volontà legittimamente ed efficacemente manifestata dall’avente diritto il ritenere che il proprietario o possessore della cosa abbia inteso rinunciare alla stessa.
A tale conclusione, anche in assenza di formali dichiarazioni, è lecito pervenire solo quando la persona legittimata, pur posta in condizione di intervenire alle operazioni di riesumazione o informata del rinvenimento di cose che potrebbero appartenerle, non si presenti ovvero ponga in essere un comportamento manifestante inequivoco disinteresse verso gli oggetti rinvenibili o rinvenuti. Ricorrendo tali condizioni, potrebbe infatti ragionevolmente desumersi che sussista quell’animus dereliquendi richiesto dall’art. 923 c.c.. Ne consegue che le modalità di raccolta e di successiva attribuzione degli oggetti in discussione devono essere tali da rispettare i diritti di coloro che diedero ai beni la specifica destinazione o, in loro assenza, dei rispettivi aventi causa; ne consegue altresì che ogni disposizione amministrativa impartita in materia deve parimenti conformarsi a tali regole di diritto, di modo che non avrebbe efficacia scusante per l’agente l’esistenza di norme secondarie di contrastante contenuto.
Tale esistenza non è stata peraltro neppure invocata dai ricorrenti, cosi come non è stato indicato alcun elemento che possa, sia pure in astratto, confortare l’assunto convincimento degli imputati in ordine alla natura di res nulIius delle cose rinvenute e dare quindi un contenuto sufficientemente specifico all’asserzione di aver agito in buona fede.
Il secondo motivo di ricorso riguarda il delitto di vilipendio di cadavere e consiste nell’affermare che il <C.> e il <M.> avrebbero eseguito soltanto alcune frantumazioni su richiesta dei parenti dei defunti, ritenendo perciò di agire con il consenso degli aventi diritto.
Detto motivo è manifestamente infondato: basta rinviare sul punto alla sentenza impugnata, laddove si chiarisce che le accertate condotte dei due imputati, consistite nell’asportazione di ossa del capo per il prelievo delle protesi dentarie e nella frantumazione dello scheletro, già espressamente vietate dall’art. 88 dell’abrogato d.P.R. 21.10.1975, n. 803, lo sono ugualmente a norma dell’art. 87 del vigente d.P.R. 10.9.1990, n. 285, di modo che l’eventuale consenso degli aventi diritto non può avere alcun valore scriminante
2. A diversa conclusione deve giungersi per quanto concerne il ricorso proposto nell’interesse dei due <O.>, dichiarati dalla Corte di appello colpevoli del reato di corruzione impropria susseguente continuata, per aver indotto le imprese funebri ad elargire loro – in violazione del regolamento cimiteriale – offerte in denaro a seguito della prestazione del servizio funebre sacerdotale.
Ciò che risulta determinante ai fini della decisione è che le somme percepite consistevano in piccoli donativi (L. 2.000 per celebrazione), corrisposti bensì con riferimento agli interventi religiosi, ma – da parte donante come da parte ricevente – con un animus del tutto particolare.
Come risulta dalla stessa sentenza impugnata, il versamento delle somme veniva sollecitato in modo petulante, con molesta e anche “asfissiante” insistenza. I titolari delle imprese funebri erano ben consapevoli che avrebbero potuto rifiutare la prestazione, come del resto fecero alcuni di essi, anche protestando presso la curia vescovile (pagg. 39 e 47 della sentenza). Ma per lo più – come molti hanno precisato – essi versavano il compenso ai cappellani “per toglierseli di torno quali molesti questuanti” (pag. 40), non diversamente dunque da come purtroppo accade spesso di trovarsi a fare l’elemosina o a dare una mancia.
Tale carattere della prestazione emerge anche dalla condotta dei cappellani che difatti, pur così venali (pag. 36) e attenti a tener il conto di ciò che era loro “dovuto”, non prendevano alcuna iniziativa nei confronti degli impresari che rifiutavano il pagamento delle somme (pag. 47).
Tutto ciò induce alla conclusione che in realtà la corresponsione del denaro aveva l’occasione piuttosto che la causa nella prestazione del servizio sacerdotale. Nella condotta in esame difettano quindi quel collegamento strumentale con il pubblico servizio e quell’abuso delle pubbliche attribuzioni che sono tra gli elementi costitutivi del delitto di corruzione.
P.Q.M
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle posizioni di <O. G.> e di <O. R.> perché il fatto non sussiste.
Rigetta i ricorsi di <C. F.> e di <M. L.>, che condanna in solido al pagamento delle spese processuali.
Deciso in Roma il 13 giugno 1997.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA Il 25/09/1997

Written by:

0 Posts

View All Posts
Follow Me :