Cassazione civile, Sez. II, 30 maggio 1997, n. 4830

Norme correlate:
Capo 18 Decreto Presidente Repubblica n. 285/1990

Massima:
Cassazione civile, Sez. II, 30 maggio 1997, n. 4830
Mentre nel sepolcro cosiddetto “familiare” (destinato dal fondatore “sibi familiaeque suae”) l’appartenenza alla famiglia è presupposto indispensabile per l’acquisto del diritto alla sepoltura, sempre che il fondatore non abbia diversamente disposto, nel sepolcro ereditario quest’ultimo si limita a compiere una mera destinazione del diritto di sepoltura ai propri eredi (“sibi haeredibusque suis”) in considerazione di tale loro qualità, con la conseguenza che ciascuno di essi (subentrandogli “iure haereditatis”) è legittimato alla tumulazione di salme estranee alla famiglia di origine (nella specie, quella del coniuge), entro i limiti della propria quota ereditaria.

Testo completo:
Cassazione civile, Sez. II, 30 maggio 1997, n. 4830
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Girolamo GIRONE Presidente
” Vittorio VOLPE Rel. Consigliere
” Vincenzo CARNEVALE ”
” Giovanni PAOLINI ”
” Giandonato NAPOLETANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
MENEGHIN BERTILLA, elettivamente domiciliata in Roma P.zza
Delle Cinque Giornate 2, presso lo studio dell’avvocato Paolo
Merlini, che la difende unitamente all’avvocato Luigi Binda, giusta
delega in atti;
Ricorrente
contro
MENEGHIN FLORINDO, elettivamente domiciliato in Roma Via
Anastasio II 80, presso lo studio dell’avvocato Adriano Barbato, che
lo difende unitamente all’avvocato Ferdinando Santarcangelo, giusta
delega in atti;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 887-93 della Corte d’Appello di Venezia,
depositata il 28-06-93;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
13-11-96 dal Relatore Consigliere Dott. Vittorio Volpe;
udito l’Avvocato Merlini Paolo, difensore della ricorrente, che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Barbato Adriano, difensore del resistente, che ha
chiesto il rigetto del ricorso,
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Giovanni Lo Cascio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con atto notificato il 14 novembre 1986 Florindo Meneghin premesso di aver dato nel giugno 1986 alla sorella Bertilla il suo consenso a che la salma del di lei marito venisse tumulata, a titolo provvisorio, nel sepolcro di famiglia, situato nel cimitero di Marostica, e che la sorella, benché più volte sollecitata alla estumulazione della salma, non vi aveva provveduto, conveniva la predetta Meneghin dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa, chiedendo dichiararsi che lo ius sepulcri spettava esclusivamente ai successori della fondatrice Giulia Lanaro Meneghin, madre delle parti, a lei legati da vincoli di sangue e componenti la sua famiglia, sorta con il matrimonio con Tigellio Meneghin, e fosse conseguentemente negato alla sorella Bertilla il diritto di mantenere nel sepolcro la salma del marito Romano Battistella, con condanna alla estumulazione della stessa.
Costituitasi in giudizio, la convenuta resisteva alla domanda, sostenendo che il diritto all’uso della tomba, avente titolo nella concessione amministrativa rilasciata dal Comune, spettava in modo disgiunto a entrambi i figli di Giulia Lanaro.
Con sentenza 13 luglio – 5 agosto 1988 il Tribunale, escluso che il sepolcro de quo fosse familiare ed applicata la normativa cui era sottoposta la concessione, obbligatoria per la stessa fondatrice, riconosceva all’erede della fondatrice il diritto di tumularvi la salma del coniuge e, pertanto, rigettava la domanda.
Interponeva appello Florindo Meneghin.
L’appellata resisteva al gravame.
Con sentenza 27 aprile – 28 giugno 1993 la corte d’Appello di Venezia, in accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza impugnata, dichiarava che a Bertilla Meneghin non spettava il diritto di mantenere tumulata nel sepolcro anzidetto la salma del marito; condannava la Meneghin a provvedere alla estumulazione della suddetta salma e a trasferirla in separata tomba; condannava, infine, l’appellata a rifondere all’appellante le spese di entrambi i gradi di giudizio.
Osservava, infatti, la corte che dall’atto di concessione risultava la precisa volontà della fondatrice del sepolcro, nel senso che Giulia Lanaro aveva stipulato l’atto per sè e per i suoi eredi e che il diritto d’uso del sepolcro sarebbe passato, alla morte della concessionaria, agli eredi, nei modi indicati dal codice civile. E poiché il marito della figlia non era erede della Lanaro, né legittimo né testamentario, non poteva esservi tumulato.
Ha proposto ricorso per cassazione Bertilla Meneghin sulla base di un unico motivo, successivamente illustrato con memoria.
Resiste con controricorso Florindo Meneghin.
DIRITTO
Con l’addotto motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione delle norme in tema di interpretazione degli atti, della volontà delle parti con essi manifestata e della loro rilevanza giuridica; omessa ed insufficiente motivazione sui punti predetti oltre che sul diritto dell’erede a tumulare nel sepolcro la salma del coniuge: il tutto in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”, la ricorrente sostiene, sub A), che la Corte d’Appello, nel qualificare correttamente il sepolcro come ereditario, ha ritenuto, in termini assolutamente carenti e restrittivi, di individuare la volontà della fondatrice enucleando, allo scopo, all’interno dell’atto di concessione 5 settembre 1955, una semplice affermazione in esso presente e non già interpretando l’insieme di diritti ed obblighi in tale sede dalla medesima assunti, con effetti nei confronti dei futuri eredi.
L’interpretazione data dalla corte non solo è erronea, perché non tiene conto delle altre parti e delle altre clausole dell’atto di concessione, nel cui contesto generale vanno ricercati la volontà della fondatrice e gli effetti di essa, ma è anche gravemente carente e contraddittoria nella motivazione, in quanto farebbe degli eredi della concessionaria dei semplici beneficiari di un titolo alla loro singola tumulazione, con tali sepolture così chiudendosi l’operatività della concessione d’uso.
La Lanaro – secondo la ricorrente – non avrebbe inteso limitare ai propri eredi il diritto ad essere sepolti, avendo, invece, voluto trasferire ai propri eredi tutti i diritti e gli obblighi sorgenti dalla concessione, senza limiti al suo successivo trasferimento in virtù di successione ereditaria.
Del resto, la perpetuità della concessione (art. 6) non può portare a un risultato interpretativo diverso.
In buona sostanza, la concessione d’uso – secondo la Meneghin – si trasferisce dalla Lanaro ai propri eredi; indi, alla loro morte, ai successivi eredi.
La ricorrente, poi, introducendo la salma del proprio marito, a lei premorto, avrebbe introdotto nella tomba un proprio erede, vale a dire una persona alla quale si sarebbe trasferito il di lei diritto d’uso della tomba e, quindi, il diritto di essere ivi sepolto.
Sostiene, inoltre, la ricorrente, sub B), che la corte veneta ha escluso senza motivo ogni rilevanza, sotto il profilo degli effetti privatistici, al testo della concessione, così non tenendo conto che il diritto della concessionaria non si limitava all’uso del sepolcro, ma si estendeva (in virtù dell’art. 2 della concessione) al diritto di seppellire le salme dei propri congiunti, come individuati a norma del regolamento comunale e degli altri atti deliberativi, al cui rinvio la concessionaria si era sottoposta.
All’erede della concessionaria, divenuto a sua volta titolare della concessione, spettava, dunque, il diritto di seppellire il proprio coniuge, in virtù delle norme di rinvio.
La mancata considerazione di questo profilo – vale a dire del diritto di introdurre nel sepolcro le salme dei propri congiunti – è, per la ricorrente, un elemento che rende di certo gravemente carente la sentenza impugnata.
Il motivo è fondato.
La Corte d’Appello ha correttamene osservato, quanto alla identificazione dei soggetti in capo ai quali si costituisce il diritto di sepolcro (avente ad oggetto il potere di collocare le salme in un determinato sepolcro), che esso si collega alla qualità di appartenente a una determinata famiglia (sepolcro familiare) ovvero a quella di eredi del fondatore (sepolcro ereditario).
Nel sepolcro familiare (destinato dal fondatore sibi familiaeque suae) l’appartenenza alla famiglia è, dunque, presupposto indispensabile per l’acquisto del diritto, sempre che il fondatore non abbia diversamente disposto.
Il sepolcro è, invece, ereditario qualora il fondatore lo abbia destinato ai propri eredi (sibi haeredibsque suis) in considerazione appunto di tale loro qualità.
Nel caso in esame, l’interpretazione dell’atto di concessione, che dello ius sepulcri è fondamento, ha consentito di qualificare il sepolcro in questione come sepolcro ereditario, leggendosi nella concessione comunale del 5 settembre 1955 che Giulia Lanaro stipulava l’atto “per sè e per i suoi eredi” e che il diritto d’uso del sepolcro sarebbe passato alla morte della concessionaria agli eredi “nei modi indicati dal codice civile”.
Al sepolcro ereditario si riferisce, invero, la sentenza impugnata, la quale, peraltro, nega che Bertilla Meneghin avesse diritto di tumulare nel sepolcro la salma del marito, sul rilievo che la fondatrice intese ottenere la concessone dell’area cimiteriale per destinare il sepolcro a sè ed ai suoi eredi, ossia perché vi potessero essere collocate le salme sua e dei suoi eredi, non già di soggetti non aventi la qualità di eredi, come appunto il marito della figlia, che non era erede della Lanaro né legittimo né testamentario.
Orbene, trattandosi di sepolcro ereditario, l’anzidetta argomentazione non suffraga il mancato riconoscimento del menzionato diritto, in quanto diverse sarebbero dovute essere le inferenze della corretta qualificazione data dalla corte.
È concepibile, infatti, che l’attuale titolare del diritto (nella specie, la Meneghin, subentrata alla fondatrice iure haereditatis) vi accolga salme di persone estranee alla famiglia di origine (come appunto il marito), beninteso nei limiti della propria quota (il sepolcro ereditario può divenire, infatti, oggetto di comproprietà quando venga – come nella specie – ad appartenere a più persone a titolo di successione mortis causa; perciò è soggetto allo stesso regime della comunione dei beni).
Diversa sarebbe stata certamente la soluzione se si fosse trattato di sepolcro familiare, attesi i caratteri sopra delineati.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata per insufficiente motivazione in ordine alle conseguenze che comporta la qualificazione del sepolcro come ereditario e alla esclusione del diritto dell’erede di tumulare nel sepolcro la salma del coniuge.
La causa va rinviata per il nuovo esame – sulla base dei principi suindicati – ad altra sezione della stessa Corte d’Appello, che provvederà anche in ordine alle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia.
Così deciso in Roma il 13 novembre 1996 nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.

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