Cassazione civile, Sez. III, 17 marzo 1998, n. 2844

Norme correlate:
Art 823 Regio Decreto n. 262/1942

Massima:
Cassazione civile, Sez. III, 17 marzo 1998, n. 2844
I beni che fanno parte del demanio pubblico non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. L’attribuzione al privato di un diritto di godimento su beni demaniali si realizza attraverso provvedimenti unilaterali di concessione e non mediante l’impiego di contratti di diritto comune. Il godimento da parte di privati, di beni appartenenti al demanio dello Stato, non può avvenire gratuitamente se non nei casi preveduti dalla legge (nel caso di specie la S.C. ha ritenuto che la circostanza che l’amministrazione avesse consentito ad un privato di immettersi nel godimento di un bene demaniale senza fissare fin dall’inizio il canone dovuto da un lato non consentiva di ritenere sussistente tra le parti un contratto di comodato, ma una concessione in uso, dall’altro obbligava il privato a pagare per tale uso un corrispettivo).

Testo completo:
Cassazione civile, Sez. III, 17 marzo 1998, n. 2844
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Enzo MERIGGIOLA Presidente
” Vittorio DUVA Consigliere
” Paolo VITTORIA Rel. ”
” Renato PERCONTE LICATESE ”
” Antonio SEGRETO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CONS ITALIANO MONUMENTI SITI I.C.O.M.O.S ITALIANA, con sede in
Napoli, in persona del Presidente, elettivamente domiciliato in ROMA
VIA PAISIELLO 49, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCESCO
MANUNZA, che lo difende anche disgiuntamente all’avvocato ALBERTO
BUFFA, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro
MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore,
domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 537-95 della Corte d’Appello di ROMA, emessa
il 27-01-95 e depositata il 20-02-95 (R.G. 1395-93);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
19-11-97 dal Consigliere Dott. Paolo VITTORIA;
udito l’Avvocato Dott. Gianfranco MANUNZA;
udito l’Avvocato Dott. VENTRELLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Aurelio GOLIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
1. – Il Ministero delle finanze conveniva in giudizio l’International Council of Monuments and Sites – Icomos e, con la citazione a comparire davanti al tribunale di Roma, notificata il 7.9.1988, proponeva in suo confronto una domanda di condanna al rilascio d’un immobile d al risarcimento del danno.
L’attore esponeva che dal gennaio 1980 l’Icomos occupava senza titolo alcuni locali dell’edificio demaniale sito in Roma, al n. 5 di via del Sudario; che nonostante i ripetuti inviti l’ente non aveva inteso sottoscrivere un atto di concessione nè aveva mai versato alcunché per l’occupazione; che, secondo la stima dell’ufficio tecnico erariale, il canone ritraibile dalla concessione in godimento di quei locali avrebbe potuto raggiungere nel complessivo periodo dell’occupazione l’ammontare di L. 153.500.000.
2. – Il convenuto non si costituiva in giudizio e veniva dichiarato contumace.
Interveniva invece nel giudizio il Consiglio italiano dei monumenti e siti – Icomos italiana: precisava di intervenire per sostenere le ragioni dell’associazione internazionale convenuta, rispetto alla quale si presentava come un soggetto distinto; dichiarava di aver essa utilizzato per un determinato periodo i locali in questione, però con il consenso dell’Amministrazione.
Il Ministero delle finanze proponeva allora la domanda nei confronti dell’Icomos italiana, che però rifiutava il contraddittorio.
3. – Il tribunale rigettava la domanda: riteneva che non fosse stata data prova del danno.
4. – La decisione, impugnata dal Ministero delle finanze, è stata riformata dalla corte d’appello di Roma, con sentenza del 20.2.1995.
La corte d’appello, per quanto ancora interessa, ha ritenuto:
– che era bensì risultato provato che l’Icomos italiana aveva goduto dell’immobile col pieno consenso dell’Amministrazione statale, ma non v’era la prova che si fosse trattato di un affidamento a titolo gratuito: anzi, dagli atti scambiati tra i diversi uffici della stessa amministrazione si desumeva che l’ufficio tecnico erariale sin dal 1985 era stato richiesto di determinare la misura del canone da applicare per la concessione, sicché doveva concludersi nel senso che la concessione, in attesa della determinazione del canone da parte dell’U.T.E., fosse stata fatta con gli oneri ad essa normalmente inerenti;
– che l’occupazione s’era protratta dal gennaio 1980 al giugno 1988 e che, avuto riguardo a tale periodo ed in assenza di specifiche critiche da parte dell’Icomos, la determinazione del canone dovuto, operata dall’U.T.E. nella somma complessiva di L. 153.500.000, poteva essere considerata attendibile.
5. – Il Consiglio italiano dei monumenti e dei siti – Icomos italiana ha proposto ricorso per cassazione.
Il Ministero delle finanze ha resistito con controricorso.
DIRITTO
1. – Il ricorso contiene tre motivi.
2. – Il secondo motivo – che precede gli altri nell’ordine logico – denunzia un vizio di violazione di norma sul procedimento (art. 360 n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 112 dello stesso codice).
La ricorrente premette che il Ministero delle finanze aveva chiesto il rilascio dei locali siti in Roma, via del Sudario n. 51, e la condanna dell’associazione convenuta al pagamento della relativa indennità di occupazione. Essa, intervenendo in giudizio, aveva osservato d’essere stata ospitata inizialmente e per breve tempo nei locali di Via del Sudario n. 51, ma poi in quelli di via Monte della Farina 3.
La ricorrente considera che, non avendo il Ministero esteso la domanda all’occupazione di tali altri locali, la sentenza avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, quando ha pronunciato la condanna al pagamento dell’indennità riferendola indistintamente agli uni locali ed agli altri.
Il motivo non è fondato.
La domanda proposta dal Ministero delle finanze, rispetto alla quale l’attuale ricorrente si è difesa in giudizio, era stata basata sull’allegazione di un elemento di fatto, la circostanza che l’Icomos avesse goduto per un individuato periodo di tempo di un immobile demaniale, e sulla postulazione di un conseguente diritto, quello ad ottenere per ciò il pagamento di un equivalente in danaro.
Questa domanda appunto è stata accolta, mentre sin dalla costituzione dell’attuale ricorrente è risultato acquisito al giudizio che i locali occupati, situati peraltro nel medesimo edificio, erano stati diversi lungo l’arco del periodo.
3. – Il terzo motivo – che segue nell’ordine logico il secondo e precede anch’esso il primo – denuncia vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione all’art. 1803 cod. civ.).
La ricorrente osserva che è stata l’amministrazione a darle in godimento i locali e non lei ad immettersi nel loro possesso. Poiché nessun compenso le era stato richiesto, l’accordo tra le parti avrebbe dovuto essere considerato un comodato. D’altra parte, se vi fosse stata una concessione, avrebbe dovuto trovare applicazione la L. 11 luglio 1986, n. 390, che prevede un canone per le concessioni assentite.
Anche questo motivo non è fondato.
La domanda – come si è già osservato – era stata proposta con riguardo a beni qualificati demaniali e la circostanza che l’edificio in cui essi si trovavano appartenesse al demanio dello Stato – secondo quanto si desume dalla sentenza impugnata – non ha mai costituito oggetto di contestazione.
I beni che fanno parte del demanio pubblico non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 823, comma 1, cod. civ.): l’attribuzione al privato di un diritto di godimento su beni demaniali può avvenire non mediante l’impiego di contratti di diritto comune, ma attraverso provvedimenti unilaterali di concessione; il godimento, da parte di privati, di beni appartenenti al demanio dello Stato, non può avvenire gratuitamente se non nei casi preveduti dalla legge.
Dunque, il fatto che l’amministrazione avesse consentito all’Icomos di immettersi nel godimento di un bene demaniale senza fissarle sin dall’inizio di canone dovuto, da un lato non poteva esser considerato aver dato luogo alla conclusione di un contratto di comodato, ma ad una concessione in uso, dall’altro obbligava la stessa Icomos, che aveva ritenuto di avvalersi della concessione, a pagare per tale uso un corrispettivo.
Non contraddice a quanto si è detto ed anzi lo conferma la L. 11 luglio 1986, n. 390 richiamata nel motivo.
La legge – che l’attuale ricorrente non lamenta dovesse trovare e non abbia trovato applicazione in suo confronto – disciplinando la concessione in uso o in locazione di beni demaniali o patrimoniali dello Stato a favore di enti o istituti culturali – in primo luogo non oblitera la distinzione tra mezzi giuridici utilizzabili per l’attribuzione del diritto di godimento (concessione in uso e locazione) in rapporto alla natura del bene (demaniale o patrimoniale; in secondo luogo non è applicabile in favore di ogni ente o istituzione culturale, ma solo di quelli richiamati alle lettere a) e c) dell’art. 1 (tra i quali non è stato dedotto che l’Icomos rientrasse); in terzo luogo prevede un regime di favore, ma non la gratuità del godimento (art. 1.1. e 1.2); da ultimo conferma il principio per cui l’utilizzazione gratuita deve essere preveduta dalla legge (art. 2.3.).
4. – Il primo motivo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione all’art. 2697 cod. civ.).
La ricorrente lamenta che la corte d’appello abbia deciso sulla sola base della relazione formata dall’ufficio tecnico erariale, oltretutto trascurando le specifiche considerazioni critiche da essa svolte a riguardo della determinazione operata da quell’ufficio.
Il motivo non è fondato.
Le lettere dell’ufficio tecnico erariale, tenute in considerazione dalla corte d’appello, dovevano essere state depositate in giudizio, se hanno potuto costituire oggetto di valutazione.
La corte d’appello ha osservato che circa il loro contenuto non era stata formulata alcuna critica specifica: e ciò corrispondente al tenore delle difese svolte dall’attuale ricorrente, giacché, negli scritti difensivi depositati in appello, si discute dell’astratta idoneità di una relazione dell’ufficio tecnico erariale a costituire fonte di prova, non della corrispondenza ai valori di comune commercio di quelli indicati nelle due specifiche relazioni depositate in giudizio.
Ciò posto deve dirsi che la sentenza impugnata è sul punto priva di vizi giuridici, perché il giudice può desumere argomenti di prova anche dal comportamento delle parti (art. 116, comma 2, cod. proc. civ.), e presenta una motivazione adeguata, perché la corte d’appello ha spiegato che all’attendibilità del dato, siccome proveniente da ufficio pubblico dotato di specifica competenza nel settore, si aggiungeva l’assenza di rilievi critici specifici da parte della convenuta.
5. – Il ricorso è rigettato.
6. – La ricorrente è condannata alle spese di questo grado del giudizio (artt. 35 e 91 cod. proc. civ.), liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali, che liquida in L. 4.023.000, delle quali L. 4.000.000, per onorari di avvocato oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il giorno 19 novembre 1997, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione.

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