Cassazione civile, 3 ottobre 2006, n. 36778

Norme correlate:
Art 74 Decreto Presidente Repubblica n. 396/2000
Art 479 Regio Decreto n. 1398/1930
Art 481 Regio Decreto n. 1398/1930

Riferimenti: Cass., sez. V, 13 maggio 1998, Greco, m. 211363; Cass., sez. V, 25 gennaio 1989, Groppi, m. 181708

Testo completo:
Cassazione civile, 3 ottobre 2006, n. 36778
Motivi della decisione
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Salerno, in accoglimento dell’appello de libertate proposto dal pubblico ministero, ha disposto l’applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio del loro pubblico servizio sanitario a carico dei medici Pio Veccchione, Carlo Vitolo, Felicia Gallo, Alfonso Falciano, Mario Salucci e Carla Sodano, persone sottoposte a indagini per il delitto di falso ideologico in atto pubblico.
Ricorrono per cassazione Pio Veccchione, Carlo Vitolo, Felicia Gallo, Alfonso Falciano, Mario Salucci e Carla Sodano.
2. Pio Veccchione propone tre motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente eccepisce la nullità dell’ordinanza impugnata, deducendo che i giudici del merito abbiano applicato la misura cautelare per un fatto diverso da quello per il quale il pubblico ministero l’aveva richiesta. Il reato ipotizzato nella richiesta del pubblico ministero era infatti il concorso nella falsa attestazione del luogo dell’ora e della causa della morte, mentre l’ordinanza impugnata ha disposto la misura per avere falsamente attestato l’esecuzione di una visita necroscopica in realtà mai eseguita.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto probatorio della misura. Lamenta che l’ordinanza si fondi sull’erronea determinazione del tempo intercorso tra due telefonate intercettate, ritenuto dai giudici del merito incompatibile con l’attestazione della visita necroscopica relativa a Nunzia Mandola; e sull’erronea interpretazione di altre conversazioni telefoniche, per le attestazioni di visita necroscopica relative a Santina Agovino e Maria Domenica Amarante.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto cautelare della misura, lamentando che i giudici del merito si siano riferiti a una sistematica illegalità non provata e a un’attività, quella di attestazione delle cause e delle circostanze della morte, estranee ai compiti del medico necroscopo, incaricato solo di verificare l’effettivo e perdurante stato di morte del soggetto interessato.
3. Carlo Vitolo propone due motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto probatorio della misura, lamentando che erroneamente i giudici del merito abbiano desunto la falsità di un’annotazione nella cartella clinica relativa a Ines D’Arienzo, indicata ancora in vita alle ore 6,30 del 23 novembre 2004 e come deceduta in una telefonata delle ore 6,33 dello stesso giorno.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in relazione al presupposto cautelare della misura, lamentando che i giudici del merito abbiano fondato sul solo titolo del reato la valutazione del pericolo di reiterazione della condotta.
4. Felicia Gallo e Alfonso Falciano propongono quattro motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo i ricorrenti eccepiscono l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per difetto di motivazione dei decreti di autorizzazione all’uso di impianti esterni alla procura della Repubblica e di proroga della relativa durata. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto probatorio della misura, lamentando che i giudici del merito abbiano tratto dall’erronea interpretazione di una conversazione intercettata il convincimento della falsità del certificato dì morte redatto per Nunzia Mandola da Felicia Gallo e del certificato di morte redatto per Lucio Roccia da Alfonso Falciano.
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono violazione dell’art. 287 c.p.p., sostenendo che, qualificato a norma dell’art. 481 c.p. il reato di falso addebitatole, nessuna misura cautelare era ammissibile. Le certificazioni di cui si assume la falsità furono infatti redatte dai ricorrenti quali medici curanti, e non come medici necroscopi, sicché non erano atti pubblici, bensì certificati di esercenti un servizio di pubblica necessità.
Con il quarto motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto cautelare della misura, lamentando che le giustificazioni addotte dai giudici del merito per la valutazione del pericolo di reiterazione della condotta sono riferibili all’attività del medico necroscopo non a quella del medico curante.
5. Mario Salucci propone due motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 479 c.p. e vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine ai presupposti probatorio e cautelare della misura interdittiva applicata. Lamenta che gli indizi di colpevolezza sono stati desunti solo dall’erronea interpretazione di una conversazione telefonica intercettata. E aggiunge che l’affermazione del pericolo di reiterazione della condotta non tiene conto del documentato suo esonero dall’attività di medico necroscopo.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 292 comma 2 ter c.p.p., lamentando che i giudici del merito abbiano omesso di valutare come elemento a suo favore la dedotta consuetudine di affidare alle imprese funerarie la predisposizione della documentazione necessaria.
6. Carla Sodano propone quattro motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 479 c.p. e vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla falsità del certificato di decesso da lei redatto nella qualità di medico curante di Assunta Argento, lamentando che non sia stato compiuto il dovuto accertamento né del dolo né dell’elemento materiale del delitto di falso contestato.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce vizi di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al presupposto cautelare della misura interdittiva applicatale, lamentando che illogicamente il tribunale ha ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione di una condotta isolata.
Con il terzo motivo la ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità delle intercettazioni poste a fondamento della decisione impugnata, per difetto di motivazione in ordine al presupposto per l’impiego di impianti esterni alla procura della Repubblica, argomentato solo in relazione all’indisponibilità e non anche in ordine all’urgenza delle intercettazioni.
Con il quarto motivo la ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità delle intercettazioni per difetto di sottoscrizione dei brogliacci riassuntivi delle conversazioni intercettate.
7. Occorre preliminarmente rilevare che, secondo quanto prevede l’art. 74 del d.p.R. 3 novembre 2000, n. 396, l’ufficiale dello stato civile non può autorizzare l’inumazione o la tumulazione di un cadavere “se non sono trascorse ventiquattro ore dalla morte, salvi i casi espressi nei regolamenti speciali, e dopo che egli si è accertato della morte medesima per mezzo di un medico necroscopo o di un altro delegato sanitario”. Sicché il medico necroscopo è pubblico ufficiale, in quanto agisce come delegato dell’ufficiale dello stato civile, e “deve rilasciare un certificato scritto della visita fatta nel quale, se del caso, deve indicare la esistenza di indizi di morte dipendente da reato o di morte violenta”.
Nella giurisprudenza di questa Corte è pertanto indiscusso che il certificato redatto dal medico delegato dell’ufficiale dello stato civile è atto pubblico, perché proviene da un pubblico ufficiale e attesta fatti di sua diretta percezione, relativi all’effettività del decesso e all’esistenza di indizi di reato o comunque di violenza (Cass., sez. V, 13 maggio 1998, Greco, m. 211363, Cass., sez. V, 25 gennaio 1989, Groppi, m. 181708).
Diversa funzione e natura ha invece il certificato redatto dal medico curante, il quale attesta il momento e le cause della morte per come gli risultano, non in base a alla mera visita del cadavere, bensì in ragione dell’attività di diagnosi e cura prestata come sanitario prima del decesso. In questo caso infatti il medico, se non opera all’interno di una struttura pubblica, non è un pubblico ufficiale, bensì un incaricato di servizio di pubblica necessità (Cass., sez. V, 11 ottobre 1988, Pullano, m. 182416, con riferimento al certificato di assistenza al parto). Né può dirsi che il medico di base, incardinato nel Servizio sanitario nazionale, operi in ogni caso come pubblico ufficiale, perché secondo la giurisprudenza di questa Corte questi medici esercitano una funzione pubblica solo quando concorrano a formare la volontà della P.A. in materia di assistenza sanitaria ed esercitino in sua vece poteri autoritativi e certificativi {Cass., sez. V, 9 marzo 2005, Schwarz, m. 231700, Cass., sez. V, 12 dicembre 1997, Scuccimarra, m. 209944). Sicché la falsità ideologica del certificato di morte redatto dal medico curante nell’immediatezza dell’evento è punita a norma dell’art. 481 c.p. (Cass., sez. V, 14 dicembre 1977, Cristiani, m. 138193), quando non sia destinata all’autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile, perché tale certificazione viene rilasciata dal medico nella sua qualità di esercente la professione sanitaria, non nella qualità di funzionario del Servizio sanitario nazionale.
Ne consegue che nel caso in esame neppure le misure interdittive erano applicabili, stante il limite di cui all’art. 287 c.p.p., nei confronti dei medici di base Felicia Gallo, Alfonso Falciano e Carla Sodano. In accoglimento dei loro ricorsi l’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio, essendo invalida per inammissibilità la richiesta di misura cautelare proposta nei loro confronti dal pubblico ministero.
8. Gli altri ricorsi vanno tutti respinti. Il primo motivo del ricorso di Pio Veccchione è infondato, perché, come risulta dall’ordinanza impugnata, al ricorrente fu contestata sin dall’origine la falsità nei certificati di morte redatti come medico necroscopo e con riferimento a tale sua specifica qualità, distinta da quelle dei medici curanti cui si addebitò la falsità nei distinti certificati da loro redatti.
Il secondo motivo del ricorso di Pio Veccchione è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., perché propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile interpretazione delle conversazioni intercettate, dalle quali i giudici del merito desunsero gli indizi di colpevolezza a suo carico. Analogamente il primo motivo del ricorso di Carlo Vitolo è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., perché propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile interpretazione di una conversazione intercettata, dalla quale risulta che egli attestò falsamente nella cartella clinica di Ines D’Arienzo che la paziente era ancora in vita, mentre in realtà era già deceduta. E il ricorso di Mario Salucci è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p. nella parte in cui contesta, con il primo e il secondo motivo, il presupposto probatorio della misura cautelare, perché propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile interpretazione delle conversazioni intercettate.
Infatti, quando il giudizio penale richiede, come nel caso in discussione, l’interpretazione di fatti comunicativi, le regole del linguaggio e della comunicazione costituiscono il criterio di inferenza (premessa maggiore) che, muovendo dal testo della comunicazione o comunque dalla struttura del messaggio (premessa minore), consente di pervenire alla conclusione interpretativa. Sicché le valutazioni del giudice del merito sono censurabili solo quando si fondino su criteri interpretativi inaccettabili (difetto della giustificazione esterna) ovvero applichino scorrettamente tali criteri (difetto della giustificazione interna). La stessa individuazione del contesto comunicativo che contribuisce a definire il significato di un documento o di un’affermazione o di un qualsiasi messaggio, invero, comporta una selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti, che è propria del giudizio di merito. E, quando l’interpretazione del significato di un testo o di un qualsiasi fatto comunicativo è sorretta da un’adeguata motivazione, essa è incensurabile nel giudizio di legittimità (Cass., sez. V, 11 febbraio 1997, La Rocca, m. 207862).
Sicché non è censurabile nel caso in esame l’interpretazione che i giudici del merito offrono delle conversazioni intercettate, perché, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabili-tà di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. V, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. II, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955).
Sono infine infondati i motivi con i quali i tre ricorrenti censurano la motivazione relativa al presupposto cautelare della misura, perché i giudici del merito hanno legittimamente e ragionevolmente valutato come indice del pericolo di reiterazione della condotta le modalità dei fatti e la gravita degli attentati alla pubblica fede commessi nella redazione di atti di particolare rilievo giuridico e sociale.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nei confronti di Felicia Gallo, Alfonso Falciano, e Carla Sodano.
Rigetta i ricorsi di Pio Veccchione, Carlo Vitolo, e Mario Salucci e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.
Roma, 10 ottobre 2006
II Presidente
Il consigliere relatore
(dr. Aniello Nappi)
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 NOVEMBRE 2006

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