Corte di Cassazione, Sez. I civ., 14 agosto 2019, n. 21407 (ordinanza)

Corte di Cassazione,  Sez. I civ., 14 agosto 2019, n. 21407 (ordinanza)
MASSIMA
Corte di Cassazione,  Sez. I civ., 14 agosto 2019, n. 21407 (ordinanza)
Nel caso di conservazione di un cranio da parte di un’istituzione museale pubblica, costituisce dato fattuale manifesto e non controverso, che il bene (nel caso: il cranio) si trovi pacificamente inserito in una raccolta museale di proprietà pubblica, sicché, indipendentemente dal modo in cui essa si sia formata, tale status ne rende inoppugnabile la natura di bene culturale alla stregua dell’art. 10, comma 2, d.lgs. 42/2004, e ciò lo dispensa dalla dichiarazione di pubblico interesse, come previsto dall’art. 13, comma 2, d.lgs. 42/2004 e lo rende perciò soggetto ai divieti degli artt. 20 e 21 d.lgs. 42/2004, con l’ulteriore conseguenza che non vengono a trovare applicazione le disposizioni dell’art. 50 d.P.R. 10/9/1990, n. 285. il che la censura si svuota conseguentemente di ogni consistenza.
NORME CORRELATE
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21407 Anno 2019
Presidente: GIANCOLA MARIA CRISTINA
Relatore: MARULLI MARCO
Data pubblicazione: 14/08/2019
ORDINANZA
sul ricorso 27935/2017 proposto da:
Comune di Motta Santa Lucia, in persona del sindaco pro tempore, domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Bozzelli Gianluca, Signorelli Fabio, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente-
contro
Comitato Tecnico-Scientifico “No Lombroso”, Comune di Torino, Esposito Pietro, Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, Università degli Studi di Torino;
– ìntimati –
avverso la sentenza n. 892/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 16/O5/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/06/2019 dal cons. MARULLI MARCO;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale De Augustinis U. che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1.1. La Corte d’Appello di Catanzaro con l’epigrafata sentenza, in parziale accoglimento del gravame dispiegato dall’Università degli Studi di Torino, ha riformato l’impugnata decisione di primo grado con la quale il Tribunale di Lamezia Terme aveva condannato essa appellante a restituire al Comune di Motta Santa Lucia il cranio di Giuseppe Villella, già cittadino del prefato Comune, custodito presso il Museo antropologico criminale Cesare Lombroso di Torino ed oggetto di studio, dopo il decesso del Villella avvenuto in cattività nel 1872, da parte dell’omonimo studioso, che aveva ritenuto di trarre conferma, nella presenza sul reperto della fossetta occìpitale mediale, di un tratto caratteristico identificante il fenotipo del delinquente meridionale.
1.2. Onde motivare il proprio convincimento il giudice territoriale muove dall’iniziale considerazione che l’iniziativa del Comune era motivata in linea di principio tanto <<dal diritto di ciascun uomo ad avere una sepoltura nel rispetto del sentimento di pietà verso i defunti e, in particolare, sul “diritto” del Comune di accogliere nel proprio cimitero i resti del suddetto suo concittadino» stabilito dagli artt. 42 e 50 d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, portante l’approvazione del regolamento di polizia mortuaria, quanto dal <<c.d. diritto primario di sepolcro, vantato dal Comune di Motta Santa Lucia, ossia sul diritto, di fonte consuetudinaria, di essere seppelliti e di seppellire altri soggetti in un dato sepolcro».
Andava per questo espunta dalla controversia, osserva il decidente, ogni pretesa afferente al diritto del Comune di veder tutelata anche la propria reputazione, asseritamente lesa dall’esposizione al pubblico del reperto e dall’essere il paese per questo additato a terra natale di briganti, i riferimenti dedotti al riguardo rivelandosi invero «essenzialmente indiretti» e «soprattutto generici›› e, di riflesso, la contraria decisione di primo grado andava conseguentemente riformata perché viziata da ultrapetizione.
Ciò nondimeno, né l’uno né |’altro dei ravvisati diritti a supporto dell’iniziativa si rende, tuttavia, meritevole di condivisione.
L’uno perché, considerata l’incontestata natura di bene culturale del cranio del Villella, ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 portante l’approvazione del codice dei beni culturali, di contro al rivendicato diritto del Comune di procedere alla sepoltura del proprio concittadino, va richiamato il disposto dell’art. 50 del citato regolamento di polizia mortuaria, alla stregua del quale le disposizioni da esso dettate per il seppellimento dei cadaveri si applicano «a condizione che una diversa destinazione non sia stata richiesta con la conseguenza che essa non si applica ove non vi sia nessuna necessità di richiedere una qualche destinazione, in quanto, come nel caso in questione, essa già esista>›. Stante perciò la detta riserva, nella specie <<l’applicazione del codice dei beni culturali esclude, dunque, quella del regolamento di polizia mortuaria invocata dal Comune».
L’altro, perché, radicandosi la domanda del Comune sullo ius sepulchri, avente ad oggetto il potere di destinare la salma alla tumulazione in un dato sepolcro, tale domanda si rivela nella specie infondata, mancando «l’indicazione stessa della esistenza di uno specifico sepolcro>>, prevalendo <<la destinazione del cranio all’esposizione museale» e spettando il diritto in questione «esclusivamente agli stretti congiunti del defunto o, al più agli eredi
e non certo al comune di appartenenza».
1.3. Per la cassazione di detta sentenza ricorre ora il Comune sulla base di sette motivi di ricorso, illustrati pure con memoria.
Non hanno svolto attività difensiva gli intimati.
Requisitorie scritte del P.M. a mente dell’art. 380-bisl cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2.1. Il primo motivo di ricorso – inteso a confutare per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. il capo dell’impugnata decisione che ha riformato, perché viziata da uitrapetizione avendo statuito su una domanda mai proposta, la sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva ritenuto di accogliere una domanda a tutela del buon nome e dell’immagine sociale del Comune ricorrente, e ciò, come deduce il ricorrente, «perché la lettura del ricorso introduttivo persuade definitivamente della proposizione sin dall’atto introduttivo di una domanda fondata anche sul riscatto e la rivendicazione del buon nome dell’ente>> – è pregiudizialmente affetto da una triplice ragione di inammissibilità.
2.2. E’ ben vero che, secondo una chiave di lettura impostasi dopo l’arresto delle SS.UU. 8077 del 22/05/2012, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività devíante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda. E va per questo ribaltato nel suo contrario il diverso principio a cui si erano richiamati i precedenti citati dal giudice di primo grado e ripresi dal ricorrente anche nell’illustrazione del motivo, senza tuttavia avvedersi che, precludendo essi, in nome delI’esclusiva pertinenza al giudice di merito del potere di individuare la domanda, ogni sindacabilità del suo esercizio in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, la lamentata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. imputata nella specie al giudice territoriale, non sarebbe censurabile da questa Corte in guisa di errore di diritto.
E tuttavia, pur affermando il principio ricordato, le SS.UU. si sono date anche cura di precisare <<che il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale, nei termini sopra chiarìti, non comporta certo il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino <i>errores in procedendo</i>. Ciò vuol dire non solo che, com’è del tutto ovvio, i vizi del processo non rilevabili d’ufficío possono esser conosciuti dalla Corte di cassazione solo se, e nei limiti in cui, la parte interessata ne abbia fatto oggetto di specifico motivo di ricorso, ma anche che la proposizione di quel motivo resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della corte. Nemmeno in quest’ipotesi viene meno, in altri termini, l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione>>.
2.3. Ne discende, per ovvia conseguenza, che la denunciata
violazione si palesa inammissibile per inosservanza del requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ. ove il ricorrente abbia omesso di descrivere compiutamente nell’illustrazione del motivo il fatto processuale, trascrivendo il contenuto dell’atto di citazione o di altro atto difensivo di primo grado nel quale avrebbe proposto, oltre alle domande scrutinate dal decidente del grado, anche l’ulteriore domanda pretesamente svolta a tutela della propria immagine e del proprio buon nome, giudicata invece estranea dalla Corte d’Appello al giudizio e come tale fonte di nullità della decisione di primo grado per vizio di ultrapetizione.
E poiché nella specie, illustrando il motivo, il ricorrente si è limitato ad estrapolare, a conforto della propria tesi, dal più generale contesto espositivo solo le frasi «Motta S. Lucia, con tale azione giudiziale vuole ottenere non solo una rivendicazione dell’identità del paese, che per troppo tempo è stato considerato come terra di briganti» e <<la rivendicazione della tutela della reputazione del Comune emerge chiaramente anche laddove si afferma che la normativa invocata (DPR 285/1990, segnatamente art. 40, 42 e 50, all. d9) “non fa altro che avvalorare le pretese restitutorie del Comune di Motta Santa Lucia …”>> (pag. 11 del ricorso), senza offrire nessun altro ragguaglio che ne puntualizzi il contenuto in conformità allo statuto della domanda – postulante, com’è noto, che è tale ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica e sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto -, le frasi riportate regrediscono al mero rango di affermazione ad colorandum, che non esternano alcuna istanza qualificabile come domanda, essendo intese, più fedelmente, a dare voce ad un sentimento offeso e a rafforzare il proposito rívendicativo facendo leva sulle corde di un mai sopíto spirito di rivalsa.
2.4. Sotto altro, ma concorrente profilo, va poi considerato che l’illustrazione del motivo non esaurisce la totalità delle rationes decidendi che hanno indotto la corte territoriale alla contestata riforma in parte qua della decisione di primo grado.
Come si apprende dalla lettura delle pagg. 13-15 della sentenza qui impugnata l`assunto riformatore enunciato dal giudice d’appello si suffraga, oltre che in forza delle affermazioni su cui si appuntano le critiche – di principio, come si dirà in appresso – del Comune ricorrente (riferimenti indiretti e generici all’azione di tutela ed inidoneità in tal senso del fatto che la domanda fosse diretta ad ottenere la rivendicazione dell’ìdentità del paese), anche sugli ulteriori corollari di cui si ha contezza scorrendo la pag 15 della motivazione. Si nega, al riguardo, che il Comune abbia agito a tutela della propria reputazione alla luce delle conclusioni riportate nel ricorso (restituzione del cranio e spese di trasporto e tumulazioni), conclusioni, reputate dal decidente, all’evidenza <<in contrasto con l’ipotesi di un’azione a tutela di un diritto della personalità, quale la reputazione o l’immagine sociale›>; si osserva che le forme di tutela tipiche di tali diritti ossia il risarcimento del danno non patrimoniale e la c.d. inibitoria della condotta lesiva <<nel caso specifico non sono state richieste nemmeno in via subordinata›>; ed ancora si mette l’accento sull’argomento tratto dalla comparsa in appello dell’interveniente Comitato “No Lombroso”, peraltro condiviso pure dal ricorrente, secondo cui <<l’intento di riappropriarsi della propria reputazione sociale rappresenta solo un esito inevitabile di ordine etico e morale dell’azione esercitata››.
Di fronte a questo ventaglio di considerazioni, che nelle difese del ricorrente non sono fatte oggetto di alcuna lamentela, è perciò appena il caso di ricordare che la mancata censura di tutte le ragioni che autonomamente si mostrano in grado di offrire conforto alla decisione caduca l’interesse del ricorrente a veder accolte le censure dispiegate, potendo la decisione, anche nel caso in cui di esse se ne stimasse la fondatezza, sorreggersi pur sempre in modo autonomo sulle ragioni non censurate.
2.5. L’illustrazione del motivo si rivela infine priva della doverosa specificità, poiché, contravvenendo al principio secondo cui onde soddisfare il precetto dell’art. 366, comma 1, n. 4, cod. proc. civ,, occorre che nell’esposizione del motivo trovino espressione le ragioni del dissenso, formulate in termini tali da soddisfare esigenze di specificità, di completezza e di riferibilità alla decisione impugnata proprie del mezzo azionato e, insieme, da costituire una critica precisa e puntuale e, dunque, pertinente delle ragioni che ne hanno indotto l’adozione, le censure declinate dal ricorrente difettano palesemente di questo contenuto, vero che la replica in punto alla genericità e al carattere indiretto dei riferimenti all’azione di tutela, rilevabili alla stregua del ricorso ed in tal guisa apprezzati ostativamente dal decidente, si astiene da una confutazione specifica e si risolve in una semplice petizione di principio, mentre l’argomento, parimenti valutato nella medesima chiave ostativa, afferente alla rivendicazione dell’identità del paese è censurato in modo incompleto, dato che nel rigettarne la concludenza il decidente ha pure voluto spiegarne le ragioni rimarcando che non risultano «enunciati i fatti costitutivi della ipotetica pretesa fatta valere in giudizio, non essendo precisato, in particolare, in quali termini e sotto quali profili, di fatto e di diritto, si sarebbe verificata la lesione, per quanto indirettamente, della reputazione dell’ente comunale», ragioni che nell’illustrazione del motivo restano neglette.
3.1. Il secondo motivo – con cui si addebita all’impugnata decisione di essere incorsa nell’omesso esame di un fatto decisivo <<nella parte in cui ha omesso di esaminare l’argomento proposto dagli appellati relativo alla mancata autorizzazione in favore di Lombroso a far proprio il cranio di Villella e alla sua conservazione presso sedi museali>›, con la conseguenza che l’affermazione circa l’illegittimità della detenzione viceversa compiuta dal giudice di primo grado deve ritenersi coperta da giudicato per difetto di impugnazione – è privo di pregio.
3.2. Occorre intanto sgombrare il terreno dall’illazione secondo cui riguardo alla illegittima detenzione del reperto da parte del Lombroso prima e del Museo omonimo dopo si sarebbe formato un giudicato interno in difetto di uno specifico motivo di impugnazione, bastando sin d’ora a smentirne la fondatezza la considerazione che l’appeIlante Università, nell’atto di gravarsi rispetto al deliberato di primo grado che ne aveva pronunciato la condanna alla restituzione del reperto sull’evidente presupposto che la sua detenzione fosse illegittima, aveva inteso sottoporre, altrettanto evidentemente, a revisione anche questo presupposto; e ciò non solo implicitamente, poiché il diritto del Comune alla consegna dei resti mortali del Villella avrebbe potuto essere riconosciuto solo se non resistito da una pretesa di contrario segno parimenti tutelata dal diritto, ma perché, più esplicitamente, la legittimità della detenzione era stata espressamente eccepita dall’Università confutando il contrario assunto del giudice di primo grado con il nono motivo di appello a mezzo del quale l’appellante aveva invocato a proprio favore la soggezione del reperto, in quanto bene culturale, alle disposizioni ostative di cui all’art. 10, commi 1 e Z, d.lgs. 42/2004.
3.3. Quanto poi al vizio motivazionale più specificatamente lamentato col motivo, l’opposizione alla sua trattazione fatta valere dal decidente (<<in effetti si tratta di argomento che, ove inteso come contestazione della legittimità della destinazione museale del reperto, prescindendo da ogni altra valutazione comporterebbe una modificazione della domanda originaria e, come tale, essendo compiutamente formulato solo nel giudizio di appello, inammissibile), non trova replica nell’illustrazione del motivo, dato che, incorrendo nuovamente nella violazione del principio di autosufficienza del ricorso, il Comune ricorrente omette di capitolare negli esatti termini qui rivendicati la speci?ca deduzione sul punto operata nell’atto introduttivo del giudizio o negli scritti successivi che lo consentono. A tal fine si rivela inconferente il fatto che l’argomento inerente l’illegittima detenzione «risultasse compiutamente formulato fin dal giudizio di primo grado», poiché quand’anche si volesse, in ipotesi prendere a pretesto della illegittimità in tal modo denunciata la mancata autorizzazione, l`esame del fatto non è stato per nulla omesso dal decidente, tanto da indurlo a motivare che «tale destinazione ad esposizione museale sia del tutto legittima, in quanto appare evidente l’interesse storico-scientifico della conoscenza di teorie scientifiche (e, quindi, dei reperti che sono stati oggetto delle indagini dei loro autori) come quelle del Lombroso, che hanno avuto notevole eco ed importanza nel dibattito scientifico, per quanto siano, ormai, del tutto superate >>. E condivisibilmente chiosa il decidente, a conforto del superiore assunto che il giudizio della storia non vale a chiudere definitivamente in un cono d’ombra i fatti che ne sono fonte, <<si può dunque negare la validità di una teoria scientifica, ma non la sua esistenza e l’interesse generale a conoscerne gli aspetti».
4.1. Il terzo motivo – con cui ancora si addebita all’impugnata decisione di essere ìncorsa in un vizio di <<omessa motivazione» per aver ritenuto pacifica e non contestata la questione afferente alla natura di bene culturale del cranio del Villella, viceversa oggetto di contestazione fin dal giudizio di primo grado ed oggetto di contraddittorio tra le parti -, pur al netto dalle ricorrenti ambiguità che ne connotano l’illustrazione, si rivela anch’esso privo di pregio.
4.2. Intanto è inammissibile se, traendo ragione dal fatto che talora si sostiene che |’impugnata sentenza andrebbe cassata <<per l’omessa motivazione», tal’altra si allega che il decidente «abbia superficialmente risolto la questione di merito», si sia indotti a credere che il motivo sia declinato con un occhio rivolto al passato, poiché ì vizi di omessa od insufficiente motivazione, a cui rimandano inevitabilmente le riportate allegazioni, sono stati da tempo espunti dal catalogo dei vizi cassatori.
Diversamente, ne va invece dichiarata l’infondatezza se si volesse valorizzare l’allegazione secondo cui il punto lamentato dovrebbe comportare la cassazione della sentenza, in adesione all’attuale disposto deil’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., << per omesso esame di un fatto controverso e decisivo», dato che al fatto sono dedicate le pagine 20, 21 e 22 della motivazione, onde sostenere che il fatto non sia stato esaminato è un fuor d’opera.
5.1. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso – con cui si addebita all’impugnata sentenza, nell’ordine, un vizio di «omessa motivazione» per aver ritenuto che fosse ravvisabile la destinazione museale del reperto pur se dalla risposta resa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) ad uno specifico quesito sul punto era emersa l’assenza di richieste, autorizzazioni e catalogazioni, e falsa applicazione di legge per aver erroneamente affermato che non fosse necessaria alcuna richiesta, malgrado le contrarie disposizioni recate dal regolamento di polizia mortuaria applicabile ai cadaveri – devono ritenersi in linea generale assorbiti in ragione del giudicato che per effetto del mancato accoglimento del terzo motivo di ricorso si è venuto a formare in ordine alla natura di bene culturale del reperto, di modo che, se in ragione di ciò non è più controvertibile che il cranio del Villella costituisca un oggetto riconducibile alla categoria dei beni di interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico come recita Part 10, comma 1, d.lgs. 42/2004 – né a ciò si oppone, come vedremo, l’argomento sviluppato con il sesto motivo di ricorso -, la destinazione museale del medesimo non è più sindacabile perché ad esso si applicano le disposizioni del codice dei beni culturali e questo, per la superiore tutela che l’ordinamento assicura ai beni aventi tale natura – significativamente enfatizzata dalla previsione che si legge nell’art. 183, comma 6, d.lgs. 42/2004 -, esclude che essi possano andare soggetti alla disciplina di una legislazione concomitante. E dunque le questioni poste con entrambi motivi, che la predetta destinazione intendono sottoporre a censura, in disparte da ogni altra considerazione, sono prive della necessaria conferenza decisoria che ne potrebbe giustificare l’esame.
5.2. In dettaglio è, poi, pur sempre possibile osservare che la lagnanza enunciata con il quarto motivo di ricorso non sarebbe in ogni caso scrutinabile, giacché è noto, per la lezione nomofilattica dispensata da questa Corte negli arresti 8053 e 8054 del 7.4.2014, a margine dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., applicabile alla specie, che non è fonte del vizio motivazionale come da esso regolato l’omesso esame degli elementi istruttori qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice; quella su cui invece si intrattiene il quinto motivo di ricorso è sconfessata da quanto esattamente nota il decidente, che rammenta al riguardo anche il disposto dell’art. 10, comma 2 ed in particolare gli artt. 20 e 21 d.lgs. 42/2004, circa il fatto che nessuna richiesta si renda necessaria ove non vi sia «necessità di richiedere una qualche destinazione, in quanto, come nel caso in questione, essa già esista›>.
6.1. Il sesto motivo di ricorso – con cui si addebita all’impugnata sentenza la violazione degli artt. 3, comma 2, 10, comma 3, 13, 17, 20 e 21 d.lgs. 42/2004 poiché, trattandosi di bene originariamente appartenente al Lombroso, il cranio del Villella non era stato fatto oggetto della dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 13, onde esso non sarebbe qualificabile come bene culturale a mente dell’art. 10 e non sarebbe soggetto al divieto di smembramento di cui agli artt. 20 e 21 – è infondato e non merita perciò adesione.
6.2. L’assunto è invero specchio di un’estrapolazione argomentativa che oblitera un dato fattuale manifesto e non controverso, ovvero che il bene si trova pacificamente inserito in una raccolta museale di proprietà pubblica, sicché, indipendentemente dal modo in cui essa si sia formata, tale status ne rende inoppugnabile la natura di bene culturale alla stregua dell’art. 10, comma 2, d.lgs. 42/2004, lo dispensa dalla dichiarazione di pubblico interesse, come previsto dall’art. 13, comma 2, d.lgs. 42/2004 e lo rende perciò soggetto ai divieti degli artt. 20 e 21 d.lgs. 42/2004, con il che la censura si svuota conseguentemente di ogni consistenza.
7.1. Il settimo motivo di ricorso – con cui si addebita all’impugnata sentenza l’omesso esame di un fatto decisivo per aver il decidente ritenuto che il giudice di primo grado non avesse accolto la domanda di restituzione dei resti del Villella anche in forza dello ius sepulchri, constando invero il contrario dalla lettura della sentenza emessa in quella sede – che non trae, in principio, suffragio dal preteso giudicato formatosi in ordine alla illegittimità della detenzione, di cui si è discorso esaminando il secondo motivo di ricorso, è inammissibile per evidente difetto di interesse.
7.2. E’ ben vero che il giudice territoriale possa essere incorso in errore, se esaminando il deliberato di prima istanza abbia ritenuto che la domanda del Comune ricorrente motivata dall’esercizio del diritto di dare sepoltura al proprio concittadino, abbia affermato che detta domanda non sia stata accolta dal Tribunale quando la legittimazione sostanziale al riguardo del Comune sarebbe stata invece da questo riconosciuta. E tuttavia l’allegazione non è esiziale, dal momento che il lamentato errore di giudizio non ha comunque impedito alla Corte di Appello di esaminare fundítus la questione e di disattendere motivatamente la tesi del Comune pur accolta in primo grado. Sicché il fatto di cui si censura l’omesso esame non ha comportato alcun effetto pregiudizievole in danno del ricorrente Comune, visto che la questione è stata pur sempre decisa dalla Corte d’Appello, e dunque nessun interesse esso ha a farne rilevare qui la sussistenza, non potendo trarre dal suo accoglimento alcun concreto beneficio data che la domanda è stata comunque rigettata.
8. Il ricorso va dunque nel complesso respinto.
9. Non è dovuta alcuna liquidazione delle spese di patrocinio non avendo gli intimati svolto alcuna attività difensiva.
10. Ricorrono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Respinge il ricorso.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell`ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il giorno 13.6.2019.

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Sereno Scolaro

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