L'iconografia della morte

LE MILLE OMBRE DELL’ANGELO NERO

“Quando non ci sara’ piu’ posto all’inferno i morti cammineranno sulle terre dei vivi”

Ci avviciniamo alle sospirate vacanza di Natale, cosi’ abbiamo pensato di intervallare la complessa trattazione delle procedure di polizia mortuaria con questo divertissement.

Attraverso questa particolare antologia di temi iconografici e letterari vi proponiamo, in diverse puntate, alcune rappresentazioni dedicate alla misteriosa immagine della morte.

Proprio la loro originalita’ ci ha colpito; si tratta, infatti, d’opere che non possono essere sempre assimilabili alle classiche espressioni artistiche legate ai temi macabri ed alla semplice produzione sepolcrale.

Alcune di questi motivi trattano la visione della nera signora come argomento principale e la immaginano nella sua piu’ orrida fisicita’ corrotta.

Altri autori, invece, hanno saputo trasformare genialmente la morte solo in una figura retorica, un semplice artifizio pittorico per spingersi oltre nella loro ricerca verso nuovi limiti, sino ad indagare i piu’ nascosti recessi dell’animo dove allignano pulsioni diaboliche e sadici desideri.

Nell’alto medioevo si affermo’ un’indubbia ostentazione progressiva di cadaveri decomposti e sinistre figure deformate dalla putredine.

Grazie ad una brillante interpretazione di Chiara Frugoni ci e’ ormai chiaro come il gusto marcato per il genere orrorifico esprimesse un disagio e quasi una ribellione verso i limiti angusti della natura umana.

Nelle antiche civilta’ rurali le manifestazioni della morte erano ben note e gli uomini saggi si mostravano sempre attenti ad ogni segnale capace di rivelare la nefasta presenza del nero angelo sterminatore.

Trucidi messaggi di lutto e sinistri presagi venivano, dunque, elaborati come parte dell’esistenza stessa, quando il mondo era ancora vissuto come un luogo selvaggio ed infido.

In quell’epoca, non dimentichiamo, la vita scorreva senza un limite preciso tra l’esistenza fisica e la dimensione trascendente, nei cui meandri si nascondevano i mostri dell’ignoto, come ci insegnano i superbi bassorilievi delle cattedrali romaniche.

La societa’, nell’era del feudalesimo, accettava, si’, l’ineluttabile destino comune a tutti i mortali, ma quest’atteggiamento di serena rassegnazione dinnanzi al volere dell’Onnipotente non la rendeva certo immune dal profondo terrore che vapori sulfurei e vampe di dolore inestinguibili sapevano sempre suscitare.

Secondo la tradizione mitteleuropea, quando, al tramonto, vaporose nubi d’argento erano trascinate dal turbine verso la soglia del nulla eterno, le armate delle tenebre varcavano il confine che separa il regno dei morti dalle terre dei vivi con il fragoroso silenzio e gli oscuri bagliori delle potenze infernali.

L’angelo nero fendeva i cieli bui e la densa nebbia notturna delle brughiere, cavalcando un possente destriero alato, mentre lo circondavano orde selvagge di creature ultraterrene.
Per la mitologia nordica la morte era sempre annunciata da raccapriccianti strida di trionfo, e, spesso, si rivelava l’aspetto di un cadavere ormai corroso dal tempo e dalla natura

Nelle leggende dei popoli bretoni il fantasma dalle immense orbite cave assumeva l’aspetto di un inquietante personaggio conosciuto come l’Ankou

La cultura celtica, sin dall’antichita’, ha sempre riconosciuto alla morte un ruolo fondamentale, celebrando cosi’ la circolarita’ stessa dell’esistere; al culto dei defunti, poi, era improntata, in maniera quasi assoluta, la vita quotidiana di queste popolazioni del nord Europa

La parola ‘Ankou’, tratta dialetto celtico, traduce il concetto di ‘angoscia’.
Con questa definizione, dunque, veniva solitamente indicata la personificazione della morte, spesso inserita negli spettacolari cicli delle piu’ imponenti Danze Macabre.
Altre versioni di queste leggende, pero’, descrivevano l’Ankou solo come lo spaventoso cocchiere dell’angelo nero, relegandolo ad un ruolo marginale nella gerarchia delle immani forze sovrannaturali.
La fantasia popolare pensava all’Ankou come ad una nefasta figura, dall’aspetto scheletrico, intenta a sorreggere un macabro, tagliente ordigno di morte.

Nella tradizione piu’ vicina a quella sensibilita’ artistica dell’alto medioevo, che domino’ l’Europa occidentale, l’Ankou era il perfetto simbolo della decadenza, di quel terribile disfacimento cui ogni essere vivente e’ destinato per sua stessa natura.

Alcune comunita’ locali lo credevano lo spirito maledetto di Caino, il primo omicida della storia, condannato dalla giustizia divina a vagare per l’eternita’ sulla terra, aggirandosi per i cimiteri tra carcasse ormai distrutte dalla putredine.

Presso altri villaggi delle sperdute lande bretoni l’Ankou, invece, era immaginato come lo spirito dell’ultimo uomo morto durante l’anno.

Costui, rievocato dalle nebbie dell’oltremondo, ritornava sulla terra per trascinare nuove vite nel buio umido delle fosse, prima di cedere l’ingrato compito al suo successore e svanire nella notte senza fine.

Le cronache dell’epoca ci hanno tramandato una precisa descrizione dell’Ankou, fedelmente riportata da chi ebbe la sventura di imbattersi sul suo cammino.

Alto ed emaciato indossava spesso un cappellaccio a larga tesa.

A volte, sotto l’ampio mantello in cui era avvolto, la sua sagoma tradiva il colore perlaceo di bianche ossa spolpate, malamente velate da un leggero sudario lacero e consunto.

Una simile apparizione scatenava il terrore in quanti fossero spettatori di un cosi’ demoniaco prodigio.

La presenza dell’Ankou, ossia di un defunto resuscitato, suscitava paure ancestrali, perche’ infrangeva le regole della natura su cui si reggeva l’ordito essenzialmente ordinato ed razionale dell’universo.

La sola vista dell’Ankou, rievocava un tragico monito, un sinistro memento mori ripetuto sino al parossismo nella sua diafana espressione beffarda.

Su tutta la produzione artistica legata ai temi macabri, infatti, si riesce sempre ad intravedere una gelida minaccia che s’impone, irridente su ogni allegoria oppure insegnamento morale: “Memento Mori, ossia: ricordati che deve morire”

Come io sono anche tu sarai” era, allora, nella fantasia dei racconti medioevali, la frase terribile che l’angelo nero scandiva senza tregua mentre si rivolgeva alle sue vittime inorridite per quel tetro odore di morte che dalla sua stessa carcassa promanava.

“Io vi voglio tutti”, ecco la spietata formula, incisa rozzamente e con incerti caratteri che compariva sulle lastre di diversi monumenti sepolcrali, accanto all’Ankou.

Spesso, in effetti, la sua effige ossuta era accompagnata da didascalie di tale genere per riuscire ancor piu’ impressionante agli occhi gia’ spauriti dei fedeli.

L’Ankou, invece, era molto diverso dagli araldi della morte che allignavano nei territori dell’estremo Nord.

Nelle lunghe sere d’inverno, dopo l’ultimo rintocco delle campane all’imbrunire, lo spirito malefico dell’angoscia (l’Ankou) percorreva furioso le strade della Bretagna in cerca di anime.

Batteva, lento ed inesorabile, tutte le strade con l’orrido ritmo percussivo della sua curiosa andatura, torcendo il collo da un lato all’altro del sentiero con rigidi movimenti, quasi meccanici.

Si orientava, infatti, annusando l’aria ammorbata dal lezzo dei morti con spietato piacere, perche’ nei suoi occhi non rifulgeva alcuna luce.

Secondo alcuni racconti, pero’, in tempi remoti, riusciva anche a vedere. Una fiamma sinistra anticamente gli ardeva nelle orbite, ma Iddio estinse per sempre quella luce nelle sue orbite, come castigo per la sua bramosa sete di distruzione.

Solo il pallido lucore di una vita che si spegne, senza conoscere salvezza, allora, illuminava fioca il ghigno scarnificato di questo demone dell’oltretomba.

Recava sempre con se’ un bastone da pellegrino o una spada, in altri dipinti, invece, e’ immaginato mentre regge sulle spalle possenti una falce affilata.

Era sempre seguito da un carro trainato da buoi o macilenti cavalli che gli serviva per trasportare i cadaveri delle sue vittime.

Solo il gemito sgraziato delle ruote tradiva il suo luttuoso passaggio, perche’ l’Ankou, quando camminava era immerso in un silenzio irreale.

Dal tramonto all’ora che precede l’alba l’Ankou camminava ossessivamente lungo strade e sentieri della Francia settentrionale, da Nantes a Rennes, in attesa di imbattersi in qualche sconsiderato.

Altri racconti, invece, lo descrivono nocchiero di un’imbarcazione (la barca dei defunti), assimilandolo, di fatto, a Caronte, l’iroso barcaiolo che traghetta i morti verso le spoglie rive dell’inferno.

Si dice, ancor oggi, negli aneddoti narrati dai piu’ anziani, che sia altamente sconsigliabile vagare intorno alle fosche coste del mare, dopo il tramonto, perche’ si potrebbe incappare nelle mortifere attenzioni nell’Ankou.

Qualunque uomo, infatti, avesse avuto l’impudenza di sfidare la tarda ora notturna e le sue creature sarebbe stato spinto dalla sua stessa, insana curiosita’ nel fango dei fossi.

Li’, nel pantano maleodorante gli abissi della terra presto l’avrebbero accolto come sua nuova ed ultima dimora.

L’Ankou colpiva a tradimento le proprie vittime, con un improvviso, formidabile colpo tra le spalle, capace di scaraventare i malcapitati nel gelido abbraccio della morte.

Il suo potere sui comuni mortali era infinito perche’ egli non era un uomo, ne’ un essere vivente, ma solo un’ombra proiettata sulle paure degli uomini dalla lanterna che la morte recava in mano, per rischiarare il proprio tragico cammino di distruzione.

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Carlo Ballotta

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