Privacy e malavita

Purtroppo, è abbastanza frequente che le cronache giudiziarie riportino notizie di “segnalazioni” che personale di ospedali e altri istituti sanitari fanno ai familiari in lutto, per “suggerire”, “proporre” questa o quella I.O.F., oppure alle I.O.F. in funzione di consentire di prendere contatti con la famiglia, conseguendo un qualche utile, in alcune situazioni come se vi fosse un vero e proprio tariffario standard.
Talvolta si tratta di personale (nei diversi livelli) operante nei reparti, altre volte (più spesso?) del personale nei servizi mortuari.
Qui, forse, la situazione è facilitata dalla frequentazione, che può far sì che si formino rapporti, più o meno privilegiati.
Non sono neppure assenti consuetudini specifiche, come e.g. l’uso di alcune I.O.F. (sia in modo singolare, che a volte congiunto tra più di queste) di promuovere riunioni conviviali, che conseguono il risultato di rinsaldare “prossimità”.
Molti tentativi per contrastare questi fenomeni vengono fatti, non sempre con esiti positivi e men che meno durevoli, ma, purtroppo, questi tentativi sono inferiori a quello che sarebbe, quanto meno, opportuno.
Per non dire come questi tentativi di contrasto, spesso siano posti in essere “dopo” l’emersione, in sede giudiziaria, degli episodi, quando – forse – sarebbe maggiormente utile un’attenzione accentuatamente preventiva.
Non è sempre così facile. In ogni caso, si tratta di fenomeni che “sporcano”, non certo poco, l’immagine delle diverse figure che ne siano coinvolte, esponendo a generalizzazione, di cui si farebbe volentieri a meno.
Sia permesso di considerare come non siano sufficienti i tentativi di contrasto, agenti su di un solo versante, mentre sarebbe segno di capacità d’impresa che, chi voglia esserlo, adotti coerentemente le misure per non cadere in certe tipologie comportamentali, sottraendosene da ogni tentazione.

Se questo è, o può essere, un contesto in qualche modo “diffuso” (e, si ripete, da contrastare energicamente), una pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. VI penale, 25 maggio 2021, n. 20735) mette in evidenza altre situazioni che vedono protagonisti gli ambienti malavitosi.
Nel caso, le “informazioni “ provenivano da figura diversa da quelle in precedenza considerate, cioè da un “operatore servizi” presso l’ufficio “Dichiarazioni Morte” del comune (segnalando che si tratta di realtà, in cui sono presenti associazioni di stampo mafioso).
Neppure questa “provenienza” è del tutto nuova, nel senso che quando le “informazioni” abbiano una tale origine, spesso non sono volte all’acquisizione di servizi funebri, per ragioni collegate ai tempi, stretti, che questa finalità comporta, ma si proiettano con maggiore probabilità verso l’acquisizione di commesse in ambito marmoreo, lapideo, cioè per la fornitura ed esecuzione di monumenti, iscrizioni e simili, attività queste che si collocano in fasi successive.
Nel caso, il tutto era diverso anche da questa prospettiva.

Generalmente, l’ufficio comunale considerato, in buona sostanza l’Ufficio dello stato civile (o nei comuni con maggiore dimensione organizzativa, una sua articolazione), dispone, nel senso che ha accesso e uso, in relazione a certe funzioni attribuite all’ufficio, ad una serie di “dati”, come le generalità della persona defunta, il luogo e momento dell’evento, la causa di morte, a volte anche generalità delle persone che appaiono quali successori.
A proposito della denuncia della causa di morte (Cfr.: art. 1, commi 1 e ss., e, per la sua “forma” – o, e si vuole, “supporto” – comma 6, D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.) merita di ricordarsi come l’art. 103, comma 2 T.U.LL.SS., R. D. 27 luglio 1934, n. 1265 e s.m. abbia contenuto rientrante tra i dati personali relativi alla salute (Cfr.: D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e s.m., nonché, oggi, D. Lgs. 18 maggio 2018, n. 51 “Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio e, importante, D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE – Regolamento generale sulla protezione dei dati“).
Rispetto a questo ultimo, va rammentato come i Regolamenti dell’Unione europea costituiscano norme, di rango primario (così come le leggi nel contesto del diritto interno), che hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i propri elementi e sono direttamente (a differenza delle Direttive) applicabili in ciascuno degli Stati membri (Cfr.: art. 288 – ex art. 249 T.C.E. – T.F.U.E.).
Avendo la denuncia della causa di morte contenuti pertinenti ai dati personali relativi alla salute, vanno tenuto presente i Considerando (35), (53), (54), (63), nonché l’art. 9 del predetto regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 per il quale è lecito (doveroso?) sollevare consistenti dubbi sull’ammissibilità che il contenuto della denuncia della causa di morte (o, brevemente, “Scheda ISTAT mod. D.4”) possa essere accessibile e in qualche modo oggetto di trattamento da parte di soggetti estranei, inclusi operatori professionali (improprie “prassi” sorte nel passato non sono giustificative, meno ancora legittimanti).

Tornando alla situazione specifica, al dipendente comunale interessato si ascrive da parte del pubblico ministero di avere, avvalendosi delle informazioni acquisite come “operatore servizi” presso l’ufficio “Dichiarazioni Morte” del comune di (omissis), divulgato sistematicamente i dati riservati sui decessi e sulle prestazioni di onoranze funebri ad esponenti dell’associazione, onde consentire ad essa di individuare i funerali e le imprese del settore nel territorio comunale ed esercitarne il controllo di tipo estorsivo, pretendendo da ciascuna una tangente mensile di 500 euro e una di 50 euro per ogni funerale, così offrendo uno stabile ed efficiente contributo al rafforzamento e all’espansione della “(omissis) (si tratta della denominazione all’associazione di stampo mafioso del caso)”. Interessante che si trattasse di dati numerici dei funerali curati da ciascuna impresa: dati che erano nella disponibilità dell’indagato …, laddove gli elementi qui d’interesse sono:
(a) le finalità estorsive (nella sentenza si fa cenno ad uno specifico “addetto dalla cosca al settore delle estorsioni nei confronti delle imprese addette alle onoranze funebri”: quando si dice la specializzazione!) e
(b) che si trattasse di “dati numerici” circa i funerali effettuati, aspetti che non riguardano, come spesso accade, la fase di acquisizione, procacciamento dei servizi funebri.
La pronuncia prosegue considerando che: “D’altra parte, (omissis) non ignorava la caratura criminale di (omissis), né che, in assenza di spiegazioni alternative, le informazioni fornite ad (omissis) potessero essere utilizzate a fini estorsivi. Mancava, tuttavia, la prova del dolo diretto, inteso come consapevolezza da parte dell’indagato che (omissis) e (omissis) appartenessero a un sodalizio mafioso e che le eventuali estorsioni non sarebbero state perpetrate dai due nel proprio interesse esclusivo.

Si ha qui una situazione che, differenziandosi da quelle enunciate inizialmente, se ne discosta ampiamente e che presenta, quali elementi di diversificazione, non più, o non solo, la finalità illecita, a volte criminale, dell’acquisizione, procacciamento di servizi funebri o di commesse in ambito marmoreo lapideo o simili, quanto la finalità estorsiva che si concretizzava localmente in un’esazione mensile, unitamente ad un’esazione computata per singolo servizio.

Quello cui sembra importante porre in evidenza non è tanto l’aspetto criminale, presente anche nelle situazioni rappresentate all’inizio, quanto l’esigenza che si tengano in adeguata considerazione anche le componenti che, con espressione tutto sommato superficiale, sono riconducibili alla “privacy”, termine che preferiremmo sostituire con quello, più coerente, di protezione dei dati personali (e dove “protezione” risalta da considerarsi in senso ampio), dal momento che non possono ignorarsi come, in proposito, vi siano “leggerezze”, non di poco conto, alcune delle quali sanzionabili, anche in sede penalistica, oltre che in quella amministrativa.

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Sereno Scolaro

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