Una chiesa d’ossa – 2/2

Nella prima parte di questo breve saggio, abbiamo chiuso, tratteggiando un’immagine quasi blasfema: due esiti da fenomeno cadaverico di tipo trasformativo-conservativo (come si direbbe, senza qualche civetteria di mestiere, nella vulgata necroforese) ferocemente crocifisse.
Queste due salme senza tempo, cui un triste destino negò il riposo eterno in una tomba, riescono molto difficili da datare, alcuni rilevamenti, però, parlano di un’epoca compresa tra il XV ed il XVI secolo, quando indicativamente fu costruita la chiesa.
Quei miseri brandelli di pelle brunastra, rugosa e secca come il cuoio, assieme ai pochi stracci sfilacciati dei vestiti, che ancora li ricoprono pudicamente, per uno strano giuoco di rimandi ed involontarie simmetrie si attagliano con precisione sconcertante, ed in modo quasi diabolico, a quella scena teatrale granguignolesca [1], esasperata e quasi patetica cui sono inchiodati, come crocefissi, in una blasfema parodia del Calvario, da centinaia d’anni.

Secondo un racconto popolare, molto diffuso anche tra gli operatori turistici, il cadavere inchiodato al muro d’ossa apparteneva ad un uomo violento e prevaricatore, costui, in vita, aveva abusato di molte donne indifese, ed anche suo figlio, nei confronti della madre rivelava disprezzo ed un malanimo crescente, sempre più difficile da mascherare.
Lo sconsiderato, in una sera di particolare ferocia bestiale, percosse la sua sposa, la colpì ripetutamente con cieco furore assassino, sino a condurla alla morte fra atroci sofferenze e gagliarde sferzate.
La donna, prima di soccombere tra lividi e grida lancinanti, lanciò una spietata maledizione contro il sadico marito ed il figlio indegno, il bambino, infatti, era già corrotto dallo spirito del male, nonostante l’ancor tenera età.
Lei stessa si sarebbe trascinata appresso nella fossa quei due orchi malvagi che Iddio le aveva assegnato come marito e figlio, perché non rimanesse traccia di simile perfidia nel mondo dei vivi, ma siccome erano così crudeli e demoniaci nemmeno le immani fauci dell’inferno, sempre ingorde di nuove anime, li avrebbero accolti nelle profondità del suolo, là nella città dolente dei dannati.
Come la sventurata donna aveva predetto nella sua terribile profezia di morte, pochi giorni dopo padre e figlio spirarono misteriosamente.

Al momento della sepoltura la terra fangosa del campo santo, inorridita, alla sola idea di ospitare quelle due salme maledette nel proprio grembo, si contrasse per lo sdegno, sino a divenir dura e compatta come la roccia; così gli affossatori stremati desistettero dall’impresa e le fosse non poterono esser scavate.
I monaci, allora, pietosamente, si occuparono di quei due cadaveri, perché non rimanessero in balia della folla o dei cani randagi.
Appesero dunque quei cadaveri all’interno della loro cappella cimiteriale perché rimanessero per sempre esposti alla commiserazione della gente, quale tragico avvertimento contro nuovi personaggi brutali e prepotenti, così come si usava fare con banditi e delinquenti che rimanevano impiccati alla forca anche diversi giorni, come sanguinario esempio per i fuorilegge.

Vero o meno, anche se in tutte le leggende c’è sempre un prezioso frammento di reale sapienza, quest’aneddoto dimostra come i monaci francescani sapessero riconoscere e riservare grande dignità e valore al mondo femminile, tanti secoli prima delle battaglie politiche per i diritti civili.
In riconoscenza per quest’antica e cristiana attenzione verso le donne, le ragazze del luogo, quando decidono di maritarsi, tagliano i lunghi capelli per sistemare le tracce annodate all’entrata della cappella.
Con questo desto rituale di rinascita a nuova vita le nubende [2] offrono in simbolico sacrificio la loro spensierata vita da adolescenti, periodo, appunto, contraddistinto da ricercate pettinature, per impetrare la grazia divina di un matrimonio felice.
Quest’usanza è ancora molto sentita, come confermano le tante trecce ad ornamento del portale che sembrano introdurci, ancora una volta, nei segreti nella chiesa d’ossa.

 


[1] Il grand guignol era un genere teatrale molto diffuso in Francia, sul palcoscenico si rappresentavano con un certo compiacimento scene macabre e racconti truci per solleticare il gusto dell’orrido nel pubblico, spesso di estrazione popolare.

[2] Le nubende sono le ragazze in procinto di contrarre matrimonio.

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Carlo Ballotta

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