C’era una volta l’art. 142 R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, abrogato e, oggi, sostituito dall’art. 75 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m., entrato in vigore il 30 marzo 2001, data che, accidentalmente, corrisponde con quella di promulgazione della L. 30 marzo 2001, n. 130.
Quella disposizione era conseguente all’art. 141, in cui si condizionava la “sepoltura” all’autorizzazione dell’Ufficiale dello stato civile.
Qualche curioso potrebbe andare a vedere a quale figura spettasse tale autorizzazione fino al 31 dicembre 1865 [1], ma poco servirebbe.
Il solo elemento su cui richiamare l’attenzione può essere che non vi si indica una qualche pratica funeraria, ma si usa un termine del tutto generico.
Con il D.P.R. 3 novembre 2001, n. 396 e s.m. l’art. 74 prende tardivamente atto della possibilità che vi siano plurime pratiche funerarie, regolando le (comunque sempre distinte) pratiche funerarie dell’inumazione e della tumulazione all’art. 74, commi 1 e 3.
Mentre (comma 3) per la cremazione si fa rinvio all’art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., rinvio che potrebbe essere ritenuto critico considerando che, allora in prospettiva, questo doveva subire adeguamenti e/o modificazioni per effetto dell’incipit, il che non è avvenuto come ampiamente noto.
Stante la formulazione dell’art. 74, anche l’immediatamente successivo art. 75 conserva l’indicazione – distinta – delle tre pratiche funerarie.
A parte il secondo periodo che costituisce disposizione di procedimento (ma non solo questo!) rivolta agli Ufficiali dello stato civile, il primo periodo solleva la domanda di come possa avvenire che vi sia inumazione, oppure tumulazione, oppure cremazione senza le relative e specifiche autorizzazioni.
Ovviamente, non consideriamo solo eventuali comportamenti a rilevanza penale (che potrebbero anche esservi), ma non sembra abbastanza probabile che ciò avvenga.
Una nota, non secondaria: qualora un tale evento non venga riconosciuto dall’autorità giudiziaria nell’esercizio della funzione requirente quale fattispecie di reato, rimane sempre nella titolarità di questa la legittimazione (non esclusiva) all’azione per la promozione del giudizio, avanti al tribunale, di rettificazione che porti alla formazione dell’atto di morte nel caso non sia già stato formato.
Legittimazione che sussiste anche quando sia ritenuta sussistente una fattispecie di reato e da esercitare una volta passata in giudicato la pronuncia conseguente.
La domanda va posta considerando come le singole pratiche funerarie non si prestino ad essere poste in atto da parte di persone singole, oltreché richiedere eventualmente “strumentazioni” non di uso comune, cosa particolarmente evidente quando sia fatto ricorso alla pratica della cremazione.
Va anche aggiunto che la domanda non riguarda il caso di cremazione (e, volendo, si potrebbe estendere l’ipotesi anche alla inumazione, oppure alla tumulazione, con le differenziazioni del caso) che venga eseguita sulla base di un’autorizzazione viziata e (potenzialmente) esposta a nullità, quanto l’oggettiva assenza di ogni autorizzazione.
Un’autorizzazione viziata potrebbe essere rappresentabile in alcuni casi, di cui se ne offre uno solo tra i numerosi esempi che si possano fare.
Caso di decesso di persona vedova (così escludiamo il coniuge per semplicità) che abbia 2 figli, uno dei quali dichiari di essere il solo parente nel grado più prossimo (non agevolmente è sempre rilevabile la presenza dell’altro figlio …).
In merito, si veda, anche l’importante Consiglio di Stato, Sez. I, 5 agosto 2025, parere n. 855.
Si tratterebbe di dichiarazione mendace (su questo aspetto), dove il mendacio potrebbe anche non venire rilevato o, quando lo avvenga, lo sarebbe sempre a cremazione avvenuta.
L’assenza tout court dell’autorizzazione fa (farebbe?) operare l’art. 75, primo periodo D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.
E, qui, accademicamente sorge altra questione, nel senso di ipotizzare in quali situazioni il pubblico ufficiale “autorizzante” possa avere notizia di un tale evento.
In una data realtà, un comune era incorso in comportamenti irrituali e non a perfetta rispondenza delle norme regolanti queste materie, preparandosi a una tutela.
Ma anche non escludendo di essere oggetto delle conseguenze dei propri comportamenti, si era posto la questione se l’avvenuta cremazione (irrituale) costituisse fattispecie di reato.
Un conto è considerare l’accesso alla pratica funeraria della cremazione, le cui pre-condizioni sono dettate dalle norme, altro considerare la “destinazione” delle ceneri in termini di loro dispersione, nei luoghi deputati.
Infatti, la dispersione è distinta dalla cremazione e presenta pre-condizioni aggiuntive, quanto differenti, dato che questa “destinazione” richiede un’espressa volontà del defunto, come risulta sia dalla rubrica della L. 30 marzo 2001, n. 130, sia dal suo art. 1, sia, soprattutto, dal suo art. 2.
Questo è intervenuto ad aggiungere i commi III e IV all’art. 411 C.P., il primo dei quali enuncia i casi in cui la dispersione delle ceneri non costituisca reato e il secondo i casi in cui la dispersione delle ceneri conservi la natura di fattispecie di reato.
Se ciò vale per la dispersione delle ceneri, quando vi sia (unicamente) la cremazione senza che vi sia stata la relativa autorizzazione, vi è ancora reato?
La questione può essere affrontata facendo riferimento (ancora una volta) all’art. 411 C.P., per quanto previsto dai commi I e II, quest’ultimo comportante un aumento della pena in relazione alle localizzazioni a ciò rilevanti.
Il comma I porta considerare come la carenza dell’autorizzazione (comma III) diventi del tutto essenziale, al punto che il comma IV afferma espressamente che la dispersione delle ceneri non autorizzata dall’ufficiale dello stato civile, o effettuata con modalità diverse rispetto a quanto indicato dal defunto, conserva la propria qualità di fattispecie di reato, salvo solo che varii la sanzione edittale prevista.
[1] Per chi sia, del tutto inutilmente, curioso, dal 1° gennaio 1866 è entrato in vigore il R.D. 15 novembre 1865, n. 2602 “Ordinamento dello stato civile”, mentre in precedenza vigeva l’art. 93 L. 20 marzo 1865, n. 2248 – Allegato B “Legge sulla sicurezza pubblica”.
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